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Il significato della supremazia bianca oggi
Racconto della conferenza di Angela Davis
di Militant
«Non sono più iscritta al partito comunista, ma sono ancora comunista». Questa una delle affermazioni di Angela Davis durante la lezione magistrale che ha tenuto lunedì scorso all’Università di Roma Tre. Parole decise, prive di ipocrisia e senza toni attenuati, pronunciate in risposta all’intervento polemico del germanista Marino Freschi, che – e la frecciatina anticomunista nelle sue affermazioni era palese – evidenziava i rapporti di Davis con Erich Honecker, segretario della Sed (il partito comunista della Repubblica democratica tedesca) e poi presidente della Ddr, e l’esistenza di una foto che la ritrae con sua moglie Margot. La foto in questione, che vede anche la presenza della cosmonauta sovietica Valentina Tereshkova, è del 4 agosto 1973, pochi giorni dopo la morte di Walter Ulbricht, fino ad allora presidente della Ddr con pochi poteri effettivi: Freschi non ha potuto fare a meno di fare un po’ di polemica, dicendo che Honecker aveva tenuto nascosta questa morte perché allora nella Ddr non si poteva dire la verità. La dichiarazione di Davis di essere ancora comunista e l’affermazione precedente sulla possibilità di un futuro socialista («Non solo perché non ci sono più paesi socialisti dobbiamo pensare che non ci sarà più un mondo socialista in futuro», ma andiamo a memoria) assumono, in questo contesto ufficiale, ancora più valore.
Queste parole, infatti, sono state pronunciate da Davis nell’aula magna della facoltà di Lettere dell’Università di Roma Tre, nel corso di un incontro ufficiale organizzato dall’istituzione universitaria. Le cinquecento poltrone dell’aula non sono bastate a contenere tutto il pubblico, composto in gran parte di compagne e compagne, e molti si sono seduti a terra o sono rimasti in piedi.
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Una Eurozona da Draghi?
di Giorgio Gattei, Antonino Iero
1. È stupefacente vedere come il governatore della Banca Centrale Europea si dia da fare per evitare che l’Eurozona precipiti nel baratro della deflazione (-0,2% il dato di febbraio per l’area euro[1]) e non ci riesca.
Il pericolo è che anche l’Eurozona cada in quello stato comatoso dell’economia che, resistendo ad ogni terapia, affligge da vent’anni il Giappone (cfr. G. Visetti, La strenua lotta del Giappone ad una deflazione ventennale, “Affari e Finanza”, 23.11.2015). Ma, siccome per curare bisogna prima diagnosticare la malattia, è proprio qui che Mario Draghi inciampa, facendo il reticente quando rinvia a generiche «forze nell’economia globale oggi che, tutte assieme, stanno mantenendo bassa l’inflazione» (“La Repubblica”, 5.2.2016). Ma quali queste “forze” (“oscure”, come si sarebbe detto una volta) se non precise variabili macroeconomiche che per pudore non s’intendono nominare?
Più espliciti sono stati i due governatori di Bundesbank e Banque de France in una lettera congiunta (ma il governatore della Banca d’Italia dov’era?) in cui hanno proposto che gli Stati europei cedano più sovranità, allo scopo di «rafforzare la governance della zona-euro», mediante l’istituzione di un Ministro unico del Tesoro con il compito di coordinare l’«unione dei finanziamenti e degli investimenti» per affrontare «il paradosso di un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilizzato per investimenti» (“La Repubblica”, 9.2.2016).
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L'euro e l'irrisolvibile deflazione
Saccenti e metodo dell'aggressione polemica nella profezia di Caffè
Quarantotto
1. Niente. Deflazione, insolvenze diffuse delle famiglie, fallimenti seriali di imprese e deindustrializzazione non contano nulla.
Quello che conta è mantenere la moneta unica.
L'euro, lo diciamo in altre parole rispetto a quelle che abbiamo tante volte detto, è una scelta politica volta a eradicare definitivamente la possibilità di redistribuzione del potere sociale al di fuori dell'oligarchia.
L'euro è infatti il presupposto e il fine ultimo (in un processo circolare inavvertito dalle masse anestetizzate dai media) che conferisce la legittimazione per poter adottare misure come quelle cui fanno riferimento le dichiarazioni sopra riportate.
In assenza del vincolo dell'euro, la necessità di quanto preannunciato da Nannicini non avrebbe nè la priorità assoluta nè l'intensità che gli viene, variamente ma costantemente attribuita, da quando l'Italia ha intrapreso il cammino della convergenza dettata da Maastricht, aderendo poi alla moneta unica.
2. Accettiamo pure quello che non appare affatto così scontato, cioè che l'Italia debba essere una economia fortemente "aperta", in modo massimizzato rispetto all'area UE, e in modo negoziato "in crescendo", in base alla intensificata apertura prevista da altri trattati rispetto al resto del mondo.
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Draghi prepara la prossima crisi nell'eurozona
di Pasquale Cicalese
“La Cina non potrà farsi ingabbiare in schemi
come il Trattato di Maastricht. Che non vanno
affatto bene per l’economia cinese”*
Pochi ci hanno fatto caso, ma nell’annunciare le nuove misure della Bce, Draghi il 10 marzo scorso comunicava che il tasso di inflazione atteso per il 2016 nell’eurozona passava da +1% allo 0,1%. Da anni le previsioni della banca centrale vengono smentiti dai fatti, dunque è probabile che, nonostante il QE dell’anno scorso, l’eurozona è in preda alla deflazione. Lo stesso Draghi in conferenza stampa faceva capire che non è attesa una fiammata inflazionistica giacché non ci sono rivendicazioni salariali consistenti. Tradotto: il proletariato europeo è ben bastonato.
Draghi ha spronato i governi alla deflazione salariale e ora quasi si rammarica, come la Yellen della Federal Reserve, che i salari non aumentano. Gira e rigira, la questione è quella: quanto guadagnano i lavoratori dell’eurozona. Il rapporto capitale-lavoro, per chi pensasse che gli operai non ci siano più ci pensa Draghi a far capire che sono determinanti, a tal punto di ucciderli del tutto. Con evidenti contraccolpi, appunto la deflazione e la crisi da domanda.
Ma Draghi si è spinto oltre, invitando i governi ad una politica espansiva per spese per investimenti ad invarianza della stabilità dei conti. In pratica ha detto: fate la Salerno Reggio Calabria ma nel frattempo tagliate posti di lavoro nel settore pubblico, riducete le spese per sanità e soprattutto tagliate le pensioni. Con quel che risparmiate fate lavori pubblici e fate pagare meno tasse alle imprese con minor costo del lavoro e minor tassazione sui profitti (protezionismo fiscale).
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La bolla di Mario Draghi
Sergio Bruno
Le nuove misure espansive annunciate dalla BCE sono un implicito riconoscimento che il QE non funziona e che la politica monetaria finanzia soprattutto l’inflazione dei valori finanziari
Nella sua conferenza stampa del 10 marzo scorso (<http://www.soldionline.it/notizie/economia-politica/diretta-discorso-draghi-bce-10marzo2016 <) il Presidente della BCE ha preannunciato una lunga stagione di tassi di interesse negativi per le banche, il rafforzamento del Quantitative Easing (QE) attraverso l’aumento degli acquisti di titoli, l’estensione della gamma dei titoli oggetto di acquisto alle obbligazioni non bancarie “investment grade”, l’istituzione di nuovi T-ltro (Targeted long term refinancing operations) miranti a premiare le banche che fanno più prestiti a soggetti privati per finanziare la loro domanda (sia per consumi che per investimenti, si immagina).
C’è da essere ammirati dalle capacità retoriche di Draghi e al contempo agghiacciati per quello che è sembrato un clima da ultima spiaggia. Difficile non leggere, nelle parole del Presidente, qualcosa che assomiglia molto al riconoscimento di un sostanziale fallimento del QE, appena mascherato dal riferimento al fatto (ovvio) che senza il QE la situazione sarebbe stata peggiore e dalla ostentata generosità verbale nelle risposte ai giornalisti.
Esistevano, in effetti, solo due alternative, dopo il riconoscimento – appena velato – che la terapia non ha sortito l’effetto desiderato:
– attribuire il fallimento al dosaggio insufficiente;
– riconoscere che le politiche monetarie sono inadeguate, quanto meno senza associarle ad un finanziamento di deficit di bilancio, vuoi di un rilanciato “bilancio federale europeo”, vuoi dei singoli stati.
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Power to the people: politiche monetarie alternative
di Andrea Fumagalli
Giovedì 10 marzo, Mario Draghi è intervenuto in modo deciso per potenziare le politiche di Quantitative Easing (QE). Non solo ha alzato a 80 miliardi al mese il livello degli acquisti di titoli di stato estendo anche l’acquisto a nuovi titoli privati per creare liquidità, ma ha anche abbassato i tassi di interesse di riferimento allo 0.0%. La stampa italiana ha salutato questa manovra con entusiasmo e ha declamato le lodi e il coraggio del governatore della Bce. Ma si è trattato, crediamo, di un coraggio dettato dalla disperazione
Il bilancio di due anni di QE è infatti deludente e i risultati attesi non si sono realizzati, come argomentiamo nel presente articolo. E per di più una nuvola nera si affaccia all’orizzonte: l’insofferenza crescente del potentato economico rappresentato dalle Sparkasse tedesche (e non solo) che mal sopporta la riduzione dei tassi d’interessi se questi diventano negativi. Per il sistema bancario, infatti, tassi d’interesse reali negativi implicano una drastica riduzione degli introiti dell’intermediazione bancaria, in un momento in cui lo scoppio della recente bolla mette a rischio anche le plusvalenze di natura speculativa. E’ facile prevedere un aumento di tensione all’interno del board della Bce. Le avvisaglie di una crisi finanziaria ci sono tutte e Drsghi insiste nel perseverare della sua politica e soprattutto nel metodo finora adottato. Finanziare il sistema finanziario ben sapendo che difficilmente ci saranno ricadute sull’economia reale. Errare è umano ma perseverare è diabolico.
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La lucida eresia di un “protezionismo moderato”
di Emiliano Brancaccio
Addio a Marcello De Cecco: è morto a 77 anni lo studioso della storia monetaria e finanziaria internazionale, critico della globalizzazione indiscriminata. Il suo «Money and Empire» analizzò i rapporti tra moneta e potere, senza astrattismi
L’economista Marcello De Cecco è morto lo scorso 3 marzo, a Roma. Nato nel 1939 a Lanciano, laureatosi in legge a Parma e in economia a Cambridge, ha insegnato in numerosi atenei italiani ed esteri, tra cui Norwich, Siena, la Normale di Pisa e la Luiss di Roma. Dotato di simpatia innata, colto e raffinato interprete della storia della moneta e della finanza, De Cecco conquistò uno spazio nella ricerca accademica internazionale per i suoi contributi alla comprensione del “gold standard”, il sistema aureo vigente fino alla prima guerra mondiale. Il suo Money and Empire, pubblicato nel 1974 da Basil Blackwell, è considerato un autorevole esempio di analisi storico-critica delle relazioni monetarie internazionali. Il libro, basato su una accurata disamina delle fonti documentali, rivela il radicato scetticismo dell’autore verso ogni tentativo di esaminare le relazioni economiche tra paesi in base a teoremi astratti e decontestualizzati [1].
Alla luce di questa metodologia di ricerca, De Cecco ha avanzato spesso obiezioni verso la tradizione di pensiero economico sostenitrice dei “meccanismi di aggiustamento automatico”, secondo i quali le forze spontanee del mercato dovrebbero essere in grado di garantire l’equilibrio degli scambi commerciali e finanziari tra i diversi paesi. Per gli esponenti di questa visione, il funzionamento del gold standard era assicurato dal meccanismo spontaneo secondo cui, per esempio, l’eventuale eccesso di importazioni di un paese avrebbe dato luogo a un deflusso d’oro verso l’estero tale da generare un calo di domanda interna e quindi dei prezzi nazionali, con un conseguente aumento della competitività e un riequilibrio tra import ed export.
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On vaut mieux que ça – Noi meritiamo di più!
Cosa succede in Francia e cosa ha a che vedere con noi
Scritto da Clash City Workers
L'altro giorno in Francia sono scese in piazza quasi mezzo milione di persone. Si, avete capito bene, quasi 500 mila persone in piazza mentre uno sciopero generale e le proteste degli studenti bloccavano trasporti, aziende e scuole. Tutto questo nel silenzio generale dei media italiani.
Un popolo in lotta, il “debutto di un movimento” come lo ha definito Le Monde, il secondo giornale di Francia, che si è scagliato contro la riforma del lavoro di Myriam El Kohmri, il ministro del Lavoro. Un intervento del Governo socialista che se dovesse essere approvato in primavera inciderà profondamente nel diritto del lavoro francese. Per il lettore italiano, tuttavia, tutto ciò risuonerà come un film già visto: le affinità con le riforme degli ultimi anni, dagli accordi di Pomigliano del 2011 fino al Jobs Act, sono sorprendenti. Chi sa che non sia per questo che i giornali di regime non danno notizia delle proteste francesi? D’altronde, se c’è un qualcosa che accomuna i paesi europei in questo momento storico, esso è stato pienamente riassunto da Myriam El-Khomri in un’intervista rilasciata al giornale Echos il 19 febbraio scorso: “L’obiettivo […] è quello di adattarsi ai bisogni delle imprese”.
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Le radici filosofiche dell’arte astratta
di Giacomo Fronzi
I momenti di svolta che hanno segnato lo sviluppo delle arti figurative e della letteratura non possono essere spiegati solo sulla base della loro dinamica storica, come tappe di un’evoluzione più o meno lineare degli eventi. Con il suo ultimo libro, L’anima e il cristallo. Alle origini dell’arte astratta (il Mulino), Stefano Poggi ricostruisce in modo inedito quelle tendenze culturali e filosofiche, in particolare nei contesti di lingua tedesca, che tra Otto e Novecento hanno segnato in modo decisivo la rivoluzione culturale europea dell’inizio del xx secolo, collocando al centro del discorso il rapporto tra creazione artistica ed esperienza mistica, nella varietà delle sue manifestazioni
Nell’ambito degli studi sull’arte d’inizio Novecento, tanto sul versante strettamente storico quanto su quello estetologico o filosofico, la produzione è notoriamente vasta. Ciononostante, il libro di Stefano Poggi, che sempre ha percorso itinerari di ricerca inediti e accattivanti, stupisce per l’originalità e la profondità con cui affronta il tema delle radici mistiche e filosofiche dell’arte astratta. Nei sei capitoli in cui è organizzato il saggio, viene proposta una lettura che apre scenari interpretativi innovativi, orizzonti ermeneutici realmente inattesi, destinati senza dubbio a gettare sulla genesi dell’arte astratta (o, quanto meno, di alcune delle sue tendenze principali) una luce nuova e inaspettata.
Muovendo da una consuetudine di molti anni di studi sulla cultura tedesca otto-novecentesca, Poggi ha affrontato in modo inconsueto alcune questioni centrali nel dibattito culturale e artistico della Germania del primo ventennio del XX secolo, a partire dalla sottolineatura di come vi fosse in quel periodo una «fervida elaborazione filosofica» che, dopo aver concentrato l’attenzione sul significato e la direzione della storia, è andata caratterizzandosi per un atteggiamento sempre più «critico nei confronti dell’impianto teorico e conoscitivo dell’indagine scientifica» (pp. 7-8).
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Lo spacciatore di Francoforte
di Leonardo Mazzei
La droga finanziaria del Quantitative easing (Qe) non funziona, ma dà dipendenza. E siccome uscirne è maledettamente difficile, aumentarne la dose è la tipica risposta di chi non sa più a quale santo votarsi. Questa, in breve, la dinamica che ha portato alle decisioni della Bce, annunciate ieri da Draghi. Per gli apologeti di casa nostra costui è di nuovo "SuperMario", una specie di super-eroe dotato di poteri speciali, se non addirittura risolutivi. Ora, che i poteri della Banca Centrale Europea siano davvero rilevanti è ovviamente fuori dubbio; che possano essere risolutivi dell'infinita crisi economica che tormenta l'Eurozona dal 2008 ci pare quantomeno dubbio. Di certo le scelte fin qui adottate, ed in particolare il Qe, hanno finora mancato clamorosamente gli obiettivi prefissati: riportare l'inflazione attorno al 2%, innescare una crescita economica degna di questo nome.
La cosa è così palese, che è proprio il fallimento su entrambi questi due versanti - evidentemente in stretta correlazione tra di loro - ad aver motivato il rafforzamento del Quantitative easing. Un rafforzamento superiore alle previsioni proprio in conseguenza della presa d'atto di una situazione economica estremamente grave.
Che quella di Francoforte sia stata, nella sostanza, una scelta obbligata, ce lo ha detto, papale papale, proprio un'affermazione di Draghi:
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Globalizzazione e crisi. Il lavoratore multinazionale
Girolamo De Michele
Il 4-5 febbraio si è svolto a Padova il convegno “Globalizzazione e crisi. Lavoro, migrazioni, valore” [qui la sua presentazione di Sandro Chignola e Devi Sacchetto]. Quello che segue è un report degli interventi, redatto sulla base dei materiali distribuiti e degli appunti presi. Ho scelto di far parlare una sola voce collettiva, per focalizzare l’attenzione sul quadro d’insieme piuttosto che sui singoli interventi, rimandando al programma, nella sua interezza, per il dettaglio degli argomenti [G.D.M.]
È probabile che la migliore sintesi di questo convegno sia stata l’affermazione di uno storico: «ho imparato più qui ascoltandovi per due giorni, che in tre mesi di studio e letture». Affermazione in apparenza paradossale: quale presa di parola può avere lo sguardo dello storico su un tentativo sincronico e orizzontale – o comunque definito da un arco temporale ben più ristretto di quello dello sguardo storico – di descrizione dell’intreccio fra migrazioni, lavoro e produzione di valore? Ad esempio, la messa in discussione dello “statocentrismo” implicito in alcuni studi migratori, nei quali il globale sembra essere considerato come qualcosa di esterno allo Stato; e la contestazione di quel “colpo di Stato linguistico” che derubrica e occulta i movimenti migratori locali rispetto a quelli a largo raggio: laddove questi ultimi emergono invece da un pulviscolo di movimenti locali.
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8 Marzo: qualche considerazione di classe
Militant
Tra le date che scandiscono la vita e la militanza politica dei compagni, alcune assumono un valore imprescindibile (il 25 Aprile e il Primo Maggio, per citarne un paio…), mentre altre, anno dopo anno, sembrano perdere il loro significato collettivo, sfumarsi in quello che le forze politiche più disparate (e per loro volontà i media mainstream) hanno deciso di dare loro.
È il caso dell’8 Marzo. Davvero la celebrazione di questa data può essere ridotta a una cena tra donne con le amiche? Abbiamo davvero bisogno che sia la Vodafone a ricordarci le disparità di genere, attraverso il suo ultimo spot?
E soprattutto, vogliamo davvero che questa disparità venga trattata solo per quelli che sono gli aspetti culturali e sociali (l’invecchiamento – e, quindi, la bellezza; il matrimonio; i figli) che, per quanto urticanti e onnipresenti, sono evidentemente solo la punta dell’iceberg di una questione che riguarda le disparità economiche, lo sfruttamento e le differenze di classe? Eppure, negli ultimi mesi, se non anni, la questione dei diritti delle donne è stata quotidianamente dibattuta a mezzo stampa nazionale e internazionale, in tv, sulla rete, ma sempre (o quasi sempre) dalla prospettiva sbagliata. Si è osannata la bellezza (e soltanto quella) delle combattenti curde, ci si è indignati di fronte alla notizia delle violenze di Colonia avvenute durante la notte di Capodanno e, negli ultimi giorni, ci si è affannati a dibattere se una donna possa o non possa decidere di avere un bambino per donarlo ad altri: il tutto in una cornice buonista incentrata sul senso di protezione del “sesso debole” che acuisce la sensazione di un vero e proprio balzo indietro, sia nel dibattito sia nella pratica, del ruolo della donna nella società.
Origine e contemporaneamente conseguenza di questo fenomeno è stato l’allargarsi, anno dopo anno, dell’utilizzo strumentale delle vicende che vedono coinvolte le donne da parte delle forze politiche più reazionarie.
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L'anima umana sotto il capitalismo
di Jean-Claude Michéa
Postfazione a Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch, La cultura dell'egoismo, Elèuthera, 2014
Non c'è da sorprendersi per questo incontro, avvenuto nel 1986 durante una trasmissione televisiva di Channel 4 (canale britannico del servizio pubblico), tra Christopher Lasch e Cornelius Castoriadis, incontro animato da Michael Ignatieff1. Lasch e Castoriadis, critici irriducibili della civiltà capitalista, avevano abbastanza punti in comune - e sufficiente stima reciproca - per rendere amichevole e particolarmente fruttuoso il loro dibattito.
D'altra parte, pur attraverso percorsi filosofici differenti, erano entrambi giunti ad avere lo stesso sguardo disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva «Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato» {La società dello spettacolo, tesi 56)2. Ci si sorprende quindi ancor meno del fatto che un tale incontro non abbia praticamente lasciato traccia nei media o nelle università (almeno per quanto riguarda la Francia), al punto che la stessa emittente Channel 4 non ricordava di averlo trasmesso3. Va ricordato che in quegli scoppiettanti «anni Tapie»4 - quando la trasmissione Vive la crise, condotta da Yves Montand e Laurent Joffrin, si prodigava a fornire al grande pubblico gli «elementi linguistici» fondamentali - l'idea che ogni critica radicale della logica capitalista conducesse ineluttabilmente alla miseria generalizzata e alla negazione dei «diritti dell'uomo» era già diventata, per i chierici mediatici e intellettuali, una opinione largamente condivisa (anche se non si lasciava ancora intendere, come ha poi fatto un Luc Boltanski, che questo tipo di critica potrebbe trovare il proprio fondamento nelle idee di Charles Maurras e dell'estrema destra degli anni Trenta).
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Cosa vuol dire sinistra oggi?
Emancipazione sociale in tempi di crisi
di Norbert Trenkle
I. Quando più di 25 anni fa il cosiddetto socialismo reale colò a picco, il pubblico liberal-democratico si convinse che il «sistema sociale» basato sull’economia di mercato e sulla democrazia si fosse aggiudicato una storica vittoria nel «conflitto tra i sistemi». Francis Fukuyama decretò la sua celebre sentenza circa la «fine della storia», che fece rapidamente il giro del mondo, mentre alla sinistra tradizionale venne a mancare il terreno sotto i piedi.
In questo clima euforico furono ben poche le voci dissenzienti. Qualcuno suggerì spiritosamente che in realtà l’Occidente non aveva vinto, che sarebbe stato solo l’ultimo degli sconfitti. Lungi dal promuovere il benessere generale il capitalismo scatenato, senza più neppure l’opposizione di un sistema antagonista, dispiegò la sua forza distruttiva con una dinamica ancor più incontenibile. Dalla prospettiva della critica del valore, come era stata formulata nell’ambito del gruppo Krisis, la questione si poneva in termini assai differenti. Secondo la nostra analisi il crollo del socialismo di Stato non segnava affatto la fine di un sistema sociale antagonista, ma solo quella di un regime statalista dispotico della modernizzazione di recupero, ormai giunto ai suoi limiti storici, che a causa della sua struttura sclerotizzata e inerte non era più in grado di saltare sul treno della terza rivoluzione industriale, con i suoi nuovi standard produttivi. Allo stesso tempo interpretammo il collasso di quel regime come l’inizio di una crisi fondamentale del modo di produzione capitalistico complessivo, che avrebbe soffocato, in ultima analisi, l’iperproduttività da esso stesso scatenata (vedi Stahlmann 1990; Kurz 1991).
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Rimettere il dentifricio nel tubetto
La vendetta dell'autunno caldo
di Pasquale Cicalese
“Considerando che la produttività dipende dalle performance delle singole imprese, dobbiamo lavorare duramente per aiutare queste imprese a essere più grandi e più forti. Se sei troppo piccolo, non puoi sopravvivere”. Pier Carlo Padoan Guindhall, City, Londra 4 marzo 2016
“Se a ristrutturare le aziende sono gli stessi manager-imprenditori che le hanno portate alla crisi è difficile cambiare le cose. E poi ci vuole una nuova finanza adeguata a risollevare davvero le sorti delle aziende e finanziarne il rilancio. Finanza che le banche non possono assicurare, ma che invece possono portare veicoli di investimento specializzati come il nostro”. R. Saviane, Idea Capital Partners, in Milano Finanza, Crediti dubbi? Tutte Pmi, 5 marzo 2016
“Il mercato italiano è destinato ad essere l’epicentro del trading delle sofferenze bancarie”. Justin Sulger, Fondo Anacap Padoan, gli Npl frenano la crescita ma per le banche nessun rischio di tracollo, Il sole 24 ore 5 marzo
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Il compianto Marcello de Cecco, assieme all’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, a metà degli anni duemila coniò il detto “rimettere il dentifricio nel tubetto”.
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Imperialismo e super-sfruttamento
di Michael Roberts
Una recensione di "Imperialismo nel 21° secolo" di John Smith
Il libro di John Smith è un potente e bruciante atto d'accusa dello sfruttamenti di miliardi di persone in quello che veniva chiamato Terzo Mondo e che ora da parte dell'economia principale vengono denominate come economie "emergenti" o "in via di sviluppo" (e che da Smith viene chiamato "il Sud"). Ma il libro è molto, molto più di questo. Dopo anni di ricerche che includono anche una tesi di dottorato, John ha dato un importante ed originale contributo alla nostra comprensione del moderno imperialismo, sia a livello teorico che empirico. In tal senso il suo libro "Imperialismo" è un complemento a "The city" di Tony Norfield, già recensito qui - o potrei anche dire che è il libro di Tony ad essere un complemento di quello di John Smith. Mentre il libro di Tony Norfield mostra lo sviluppo del capitale finanziario nei moderni paesi imperialisti ed il dominio di potere finanziario del "Nord" (Stati Uniti e Gran Bretagna, ecc.), John Smith mostra come sia il "super-sfruttamento" dei lavoratori salariati nel "Sud" ad essere la base del moderno imperialismo nel 21° secolo.
Il libro comincia con alcuni esempi di come i lavoratori salariati nel Sud siano "super-sfruttati" per mezzo di salari al di sotto del valore della forza lavoro (i lavoratori tessili del Bangladesh): "I salari di fame, le fabbriche come trappole mortali, ed i fetidi slum del Bangladesh sono rappresentativi delle condizioni patite da centinaia di milioni di persone che lavorano in tutto il Sud globale, sono la fonte del plusvalore che sostiene i profitti ed alimenta un sovra-consumo insostenibile nei paesi capitalisti" (p.10)... e come il plusvalore creato da questi lavoratori super-sfruttati viene acquisito dalle corporazioni trans-nazionali e trasferito attraverso la "catena del valore" ai profitti dei paesi imperialisti del Nord (Apple, I-phone e Foxconn). "L'unica parte dei profitti della Apple che appare avere origine in Cina, è quella risultante dalla vendita dei suoi prodotti in quel paese. Come nel caso delle T-shirt made in Bangladesh, anche con gli ultimi gadget elettronici, il flusso di ricchezza proveniente dai salariati cinesi e da altri lavoratori a basso salario che sostiene i profitti e la prosperità delle aziende e delle nazioni del Nord, diventa invisibile sia nei dati economici che nei cervelli degli economisti" (p. 22).
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Quello che gli economisti non dicono
F. di Lenola e A. Scorrano intervistano Daniele Tori
[La prima versione di questa intervista, curata da Fabio di Lenola e Aldo Scorrano, è uscita sul sito del Csepi]
Daniele Tori si è laureato all’Università di Pavia in Scienze politiche e in Economia. È membro del Greenwich Political Economy Research Centre e membro del Post Keynesian Economics Study Group. Dal prossimo settembre assumerà la posizione di Lecturer in Finance alla Open University (UK). Attualmente si occupa di investimenti da un punto di vista microeconomico, le evoluzioni del sistema finanziario, e i processi di finanziarizzazione in generale.
* * *
Sono ormai trascorsi quasi dieci anni dallo scoppio della crisi che ha investito il mondo occidentale. In questo periodo l’Italia ha visto l’alternarsi dei vari governi Monti, Letta e Renzi che si sono mossi, sostanzialmente, in continuità con una linea o agenda europea di politica economica che potremmo definire conservatrice. Alla luce di quanto è emerso dall’operato di questi governi, possiamo dire che tale “linea”, sia stata e continui ad essere fallimentare?
Questi governi hanno essenzialmente provveduto, con modalità simili, a meri aggiustamenti in senso restrittivo delle politiche di bilancio in accordo con i dettami europei. Era già evidente in partenza che queste politiche, frutto di una comprensione meramente tecnica della crisi (regolamentazione del sistema bancario-finanziario, contenimento di deficit e debito), sarebbero state fallimentari.
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Elogio della militanza
di Alessandro Barile
Gigi Roggero, Elogio della militanza. Note su soggettività e composizione di classe, Derive Approdi, 2016, pp. 213, € 13,00
Elogio della militanza è prima di tutto un titolo appropriato. Non elogio dell’attivista o del volontario, o altre definizioni post-moderne della partecipazione politica. Il militante, secondo le parole dell’autore, è “colui o colei che mette interamente in gioco la propria vita”, è “un soggetto divisivo, produce continuamente il “noi” e il “loro”, prende posizione e costringe a schierarsi. Separa per ricomporre la propria parte”. Non una figura qualunque, pacificata, della partecipazione politica liberale, ma una figura specifica e storicamente determinata della lotta politica. Il titolo è già di per sé una forma di rottura rivendicata, una rottura necessaria, che avviene non contro la normalizzazione liberal-democratica (troppo facile), ma dentro il campo della sinistra antagonista, che da tempo ha accettato supinamente la traslitterazione semantica (di provenienza anglosassone) dell’attivista.
“Quando al giro di boa del millennio si è iniziato a chiamarlo attivista, non si è trattato di una semplice concessione linguistica, ma di un cedimento strutturale. Si è così persa la sua incommensurabilità rispetto ad altre figure, come quella del volontario. Figura dell’interesse generale, dunque della riproduzione dell’esistente”.
Attivismo e militanza non sono concetti sinonimi o ambivalenti: presuppongono opposte visioni della politica e sedimentano antitetiche coscienze dell’esistente e degli strumenti per combatterlo.
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L'Atto del Lavoro
Il magro bilancio di un anno di interventi renziani e i loro veri obiettivi
Scritto da Clash City Workers
Premessa: quello che state per leggere è il nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è un'ossessione, lo è in misura speculare a quella del governo e dei suoi megafoni ambulanti che, nel corso dell'ultimo anno, ci hanno quasi quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche governative sul lavoro.
Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l'ansia da prestazione dell'apparato di governo su questi temi è di per sé rivelatrice del fatto che l'attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.
Nota di metodo: ascriveremo alla categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a distanza); l'estensione della possibilità di utilizzo dei voucher.
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Un nuovo elettorato: su Clinton, Trump, e Sanders
Intervista a Mike Davis
In un'intervista con Maria-Christina Vogkli e George Souvlis, apparsa sull "LSE researching sociology blog", Mike Davis riflette sulla sua educazione e discute delle primarie presidenziali degli Stati Uniti del 2016. Traduzione a cura della redazione di InfoAut
1) Potresti raccontarci un po' del tuo background familiare?
Il mio background familiare si distingue solo per il suo essere incredibilmente nella media. Mio padre viene dall’ambiente protestante rurale dell’Ohio ed è stato un fervente "Democratico del New Deal". Mia madre era una Cattolica Irlandese di città e una repubblicana registrata nelle liste, ma due volte votò per il candidato socialista Norman Thomas. Lei adorava ugualmente il Presidente Eisenhower e Liberace. Entrambi erano diplomati. A parte la Bibbia non abbiamo avuto libri nella nostra casa, ma mio padre era un lettore avido di giornali (sport e politica) e mia mamma divorava i Reader’s Digest dalla prima all'ultima pagina. Mio padre ha lavorato nel settore della vendita di carni all'ingrosso in uno strano ibrido lavorativo tra colletto bianco e colletto blu. La sua giornata di lavoro è stata equamente divisa tra le chiamate di vendita, la fabbricazione degli ordini e la consegna della carne. Il nostro reddito familiare, il mutuo di casa, il valore dell’auto, ore trascorse a guardare la TV, e così via erano sempre questioni tipiche della vita media nazionale nel corso del 1950. Sono nato nel 1947 in una villetta a schiera al confine esatto tra l'ultima suddivisione e i rimanenti frutteti di arance e avocado della zona orientale di San Diego County.
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Capitalismo 2015: La Grande Depressione ed il dramma greco
di Antonio Carlo
1) L’economia mondiale nel 2015: PIL, disoccupazione, debito, fallimento delle politiche economiche.
A) Crescita asfittica del PIL.
Da anni seguo la dinamica dell’economia mondiale 1 ed ho la sensazione di essere spesso ripetitivo, ma questo avviene perché le situazioni si riproducono continuamente senza alcuna sostanziale soluzione: ogni anno il debito pubblico cresce, la disoccupazione rimane elevata (anche se le statistiche tendono a nasconderla), l’evasione fiscale si impenna, si fanno riunioni dei vari G (7, 8, 20) che non producono alcun risultato, i consumi delle famiglie cinesi non riescono a decollare, il Giappone oscilla tra recessione e ristagno, etc, etc. etc.
Questo ripetersi avviene anche per i giudizi sull’andamento del PIL almeno dopo il 2010, allora ci fu un rimbalzo abbastanza forte (dopo il calo del 2009) che fece dire a molti (non a me) che la ripresa aveva gambe, ma dal 2011 il quadro cambia pressocchè ininterrottamente: la ripresa c’è ma è modesta, fragile, moderata, inadeguata etc. ed il 2015 non fa eccezione. Così Jack Lew, Ministro del Tesoro USA, osserva che essa è deludente in termini di PIL ed occupazione 2 , Larry Summers, un tempo consigliere economico numero uno di Obama, parla addirittura di ristagno secolare alle porte 3 , Draghi sottolinea che i rischi di ribasso nella crescita non sono transitori etc. 4 . Di particolare rilievo è, a questo proposito, un’intervista della elegantissima signora Lagarde (numero uno della FMI) al noto economista venezuelano Moisés Naìm in cui, pur non accettando la tesi della stagnazione secolare, si osserva che la crescita soffre di una “nuova mediocrità”, che i posti di lavoro creati non sono sufficienti, che enormi quote di ricchezza si concentrano nelle mani della finanza e c’è il rischio che i costi della crisi ricadano sui poveri e le classi medie impoverite 5 .
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Gli elicotteri di Pinochet e i keynesiani di buona volontà
di Alberto Bagnai
La stanchezza e il fastidio che alcuni di voi hanno esternato nei commenti al post precedente sono anche i miei. Devo sinceramente dirvi che non ne posso più. Non ne posso più di vedere colleghi che passano dall'aperto tradimento dei più elementari principi della nostra disciplina, a sensazionali scoperte dell'acqua calda, presentate sempre, si badi bene, come "lezioni apprese dalla crisi", quando invece, voi lo sapete bene, questa crisi non ci ha insegnato nulla che non sapessimo già (e ne abbiamo parlato tante volte). Tanto opportunismo, o, nella migliore (?) delle ipotesi, tanto conformismo, a fronte di tanto strazio e di tanta distruzione, mi lasciano senza parole, e mi inducono a desistere da quella che, per quanto impossibile, era la missione fondamentale di questo blog: portare un minimo di ragionevolezza nel dibattito, per scongiurarne nella misura del possibile esiti politicamente e socialmente violenti. Non ho più la salda certezza, dalla quale mi ero mosso, che questo obiettivo, pur nella sua impossibilità, sia meritevole di essere perseguito.
Il nodo centrale, quello che dovrà venire al pettine, è estremamente semplice, e l'ho espresso svariate volte in questi anni (e naturalmente in entrambi i libri): dalla crisi non potremo uscire se non rilanceremo la domanda con un massiccio intervento di investimenti pubblici (preferibilmente in piccole opere) finanziato con moneta.
Che occorra rilanciare la domanda (cioè la capacità di spesa dei cittadini) mi sembra un punto non contestato da alcuno. Che non lo si possa fare aumentando il debito pubblico, che l'austerità ha aggravato (come previsto), mi sembra altrettanto ovvio: il debito pubblico, che non è stato la causa della crisi, ne è però diventato una conseguenza potenzialmente pericolosa.
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Considerazioni inattuali sulla crisi*
Il "Gruppo Krisis" e la fine di un sistema
di Massimo Maggini
Introduzione a Norbert Trenkle, “Terremoto nel mercato mondiale”, Mimesis 2014
I due testi qui presentati sono solo una piccola parte della notevole produzione del gruppo Krisis, un gruppo tedesco che si occupa oramai da quasi trent’anni delle tematiche della crisi capitalistica e del possibile superamento del sistema che la genera. Molti scritti, per lo più in tedesco, si possono trovare nel loro sito web http://www.krisis.org. La crisi economica deflagrata nel 2008, che in qualche modo ha inverato le loro posizioni – sostenute in tempi non sospetti e ben prima che questa stessa crisi scoppiasse – ha convogliato l’attenzione di molti su questo pensiero, che è stato tradotto con una certa insistenza un po’ ovunque nel mondo. La ricezione italiana non ha, invece, fatto grandi passi in avanti, e ciò può forse spiegarsi con il fatto che le tesi sostenute da questo gruppo appaiono decisamente indigeste e inusuali per il panorama della sinistra italiana, tutto rivolto ad interpretare il crack capitalistico come una sorta di passaggio attraverso il quale il capitale affina/aggiorna le sue pratiche di sfruttamento e pone le basi per un ulteriore e ancora più efficace fase di accumulazione.
Il gruppo nasce per iniziativa di Robert Kurz, purtroppo recentemente scomparso, Ernst Lohoff, Peter Klein, Udo Winkel, Norbert Trenkle ed altri, dapprima nel 1986 come rivista dal nome Marxistische Kritik poi dal 1990 come gruppo Krisis, nome che assume anche la rivista stessa. Nel 2004, infine, Robert Kurz si è separato dal gruppo Krisis fondando una sua rivista, Exit, molti articoli della quale sono consultabili sul sito http://www.exit-online.org.
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L’ordine del discorso filosofico: Bourdieu, Derrida, Foucault
di Pierpaolo Cesaroni
[Questo saggio fa parte del volume collettivo Politiche della filosofia. Istituzioni, soggetti, discorsi, pratiche, curato da Pierpaolo Cesaroni e Sandro Chignola, e appena uscito per DeriveApprodi]
Cosa significa considerare la filosofia nella sua dimensione di discorso, nel senso determinato che Michel Foucault attribuisce al termine? Affrontare questo tema non consente solamente di chiarire il senso del lavoro filosofico svolto da Foucault, ma anche di affrontare più generalmente cosa possa significare oggi fare filosofia e come continuare a farla. Il testo più utile a questo fine è la risposta che Foucault indirizzò al saggio di Jacques Derrida Cogito e storia della follia contenuto in La scrittura e la differenza (1967). La risposta di Foucault ha due versioni, entrambe scritte nel 1972: quella più nota fu pubblicata in appendice della seconda edizione di Storia della follia, con il titolo Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco; una seconda versione, che verosimilmente è stata scritta per prima, fu invece pubblicata, nello stesso anno, nella rivista giapponese Paideia con il titolo Risposta a Derrida[1]; la rilevanza di questo testo consiste nel fatto che si apre con alcune pagine estremamente interessanti eliminate nella redazione successiva.
Per capire cosa significhi concepire la filosofia come discorso e perché ciò consenta di porre in modo nuovo la domanda sul suo statuto, è necessario chiarire preliminarmente rispetto a cosa si misuri questa novità. Per fare questo mi riferirò, in modo alquanto schematico, a due altri pensatori: da un lato Jacques Derrida, obbiettivo polemico principale di Foucault; dall’altro lato Pierre Bourdieu, il quale condivide con Foucault sia un atteggiamento critico nei confronti della filosofia sia l’individuazione di Derrida quale esponente paradigmatico di quest’ultima; i due tuttavia seguono delle strade diverse.
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Le vere ragioni della lunga recessione italiana
di Guglielmo Forges Davanzati
La lunga recessione italiana non dipende né dall’elevato debito pubblico né dall’adozione della moneta unica, come le narrazioni dominanti – ovviamente su sponde politiche diverse – provano a spiegarla. Si tratta di motivazioni che, nella loro semplicità, sono facilmente divulgabili e, per un’opinione pubblica disattenta o poco informata, facilmente assimilabili. Non vi è però dubbio in merito al fatto che l’adesione alla moneta unica ha contribuito ad accentuare i problemi, sia perché l’impalcatura istituzionale dell’UME è di fatto costruita in modo da produrre deflazione e recessione[1], sia perché, attraverso l’attuazione di misure di austerità, contribuisce alla crescita del debito, in particolare nei Paesi periferici.
La recessione italiana andrebbe piuttosto inquadrata in una prospettiva di carattere più generale che attiene a ciò che viene definito il declino economico italiano: quella italiana è una crisi nella crisi, che non trova eguali nel resto d’Europa[2]. Per darne conto, può essere sufficiente il solo dato per il quale nel 2014 l’Italia è stato l’unico grande Paese europeo a sperimentare un tasso di crescita ancora di segno negativo, con un Mezzogiorno che continua a diventare sempre più povero (SVIMEZ, 2015).
La categoria del declino economico attiene a una prospettiva di lungo periodo ed è difficile individuare una data esatta dal quale farlo partire.
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