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sinistra

Capitalismo 2015: La Grande Depressione ed il dramma greco

di Antonio Carlo

global crisis1) L’economia mondiale nel 2015: PIL, disoccupazione, debito, fallimento delle politiche economiche.

A) Crescita asfittica del PIL.

Da anni seguo la dinamica dell’economia mondiale 1 ed ho la sensazione di essere spesso ripetitivo, ma questo avviene perché le situazioni si riproducono continuamente senza alcuna sostanziale soluzione: ogni anno il debito pubblico cresce, la disoccupazione rimane elevata (anche se le statistiche tendono a nasconderla), l’evasione fiscale si impenna, si fanno riunioni dei vari G (7, 8, 20) che non producono alcun risultato, i consumi delle famiglie cinesi non riescono a decollare, il Giappone oscilla tra recessione e ristagno, etc, etc. etc.

Questo ripetersi avviene anche per i giudizi sull’andamento del PIL almeno dopo il 2010, allora ci fu un rimbalzo abbastanza forte (dopo il calo del 2009) che fece dire a molti (non a me) che la ripresa aveva gambe, ma dal 2011 il quadro cambia pressocchè ininterrottamente: la ripresa c’è ma è modesta, fragile, moderata, inadeguata etc. ed il 2015 non fa eccezione. Così Jack Lew, Ministro del Tesoro USA, osserva che essa è deludente in termini di PIL ed occupazione 2 , Larry Summers, un tempo consigliere economico numero uno di Obama, parla addirittura di ristagno secolare alle porte 3 , Draghi sottolinea che i rischi di ribasso nella crescita non sono transitori etc. 4 . Di particolare rilievo è, a questo proposito, un’intervista della elegantissima signora Lagarde (numero uno della FMI) al noto economista venezuelano Moisés Naìm in cui, pur non accettando la tesi della stagnazione secolare, si osserva che la crescita soffre di una “nuova mediocrità”, che i posti di lavoro creati non sono sufficienti, che enormi quote di ricchezza si concentrano nelle mani della finanza e c’è il rischio che i costi della crisi ricadano sui poveri e le classi medie impoverite 5 .

Allora (primavera 2015) le previsioni del FMI erano del 3,5% poi ritoccate al 3,3% e poi al 3,1%, l’OCSE stimava la crescita per il 2015 al 2,9%, quanto alla Banca mondiale di recente ha abbassato le previsioni per il 2016 al 2,9% contro il 3,3% precedente, mentre per il 2017 dovremmo crescere del 3,1%. Vediamo, dunque, più da vicino, le ultime previsioni e stime del FMI (ottobre 2015) per quel che concerne l’economia mondiale ed i principali paesi ed aree economiche.

Tabella n. 16

Dinamica economica mondiale 2015/2016

Paesi ed aree

Anno 2015

Anno 2016

Mondo

3,1%

3,6%

Economia avanzate

2%

2,2%

USA

2,6%

2,8%

Eurozona

1,5%

1,6%

Germania

1,5%

1,6%

Francia

1,2%

1,5%

Italia

0,8%

1,3%

Spagna

3,1%

2,5%

UK

2,5%

2,25%

Canada

1%

1,7%

Giappone

0,6%

1%

Russia

-3,8%

-0,6%

Cina

6,8%

6,3%

India

7,3%

7,5%

 

Alcune considerazioni balzano in piena evidenza. I paesi avanzati crescono poco, ormai Cina ed India sembrano essere i leaders (non il Brasile che è in recessione), ma come rilevò poco tempo fa il prof. Dominic Salvatore il 5-6% di crescita del PIL cinese equivale all’1% di USA o Germania; la Cina infatti è un paese che deve colmare un divario enorme con i paesi ricchi, il suo livello di PIL procapite è bassissimo come la produttività (mediamente il 5% di quella dei paesi avanzati) 7 , mentre nell’agricoltura staziona il 35% della forza lavoro del paese, una cifra a livello del censimento inglese ma del 1811; non a caso qualche anno fa un dirigente cinese asserì che con una crescita del 7% bisognava considerare la Cina “in recessione tecnica”8, in altre parole i nostri parametri e le nostre definizioni economiche e manualistiche non si adattano alla Cina; a maggior ragione questo vale per la crescita del 7-7,5% dell’India, paese che ha un PIL procapite che non arriva ai 2000 $ a persona ed una produttività anch’essa di livello bassissimo inferiore a quella cinese. Inoltre la produzione cinese è notoriamente a un livello qualitativo molto più basso di quello occidentale, non a caso spessissimo i prodotti cinesi sono fermati alle dogane europee perché non conformi agli standard occidentali 9 , ed incontrare sulle nostre strade auto cinesi è quasi impossibile (essendo impresentabili sui mercati dei paesi ricchi). Al consuntivo si produce con una crescita lenta ed asfittica e si producono sempre più scarti e beni di bassa qualità10.

Se poi ci distacchiamo dal biennio 2015/16 la cosa diventerà sempre più evidente: gli USA dal 2008 (anno di esplosione della crisi) sono cresciuti fino al 2014 del 10% circa11 , se le stime per il 2015 saranno rispettate12 avremo una crescita complessiva per i 7 anni dal 2008 al 2015 di un 12-13% circa, in media l’ 1,5% l’anno, una cifra da quasi ristagno nettamente al di sotto del periodo 2002-2007 (2,9%) e del periodo 1994-2004 (3,4% l’anno)13 ; in Germania l’economia cresce nel periodo 2008-2014 del 5%14 che unitamente alle stime 2015 ci dà una crescita per il periodo qui considerato del 6,5% in totale meno dell’1% l’anno; in Inghilterra il PIL procapite inglese nel 2015 (rileva Martin Wolff del “Financial Times”) era ancora ai livelli del 2006 il che significa il più lungo periodo di ristagno dal XIX secolo 15 ; l’Eurozona nel suo complesso, osserva il governatore Visco, ritornerà ai livelli pre-crisi (in media e non per tutti i paesi 16 ) solo nel 2015 17 ; in Giappone nel secondo trimestre del 2015 il PIL cala su base annua del 1,2%, siamo alla quinta recessione in 7 anni e alla seconda del governo Abe18.

Ma torniamo alla signora Lagarde: una crescita del 3,5% (poi calata al 3,1%) è mediocre, eppure gli statistici ci dicono che con una crescita del 2,5% l’anno la base di partenza raddoppia ogni 29 anni e 4 mesi, da questo punto di vista, dunque, dovremmo avere una situazione del tutto soddisfacente, tuttavia c’è un ostacolo: una crescita demografica dell’1% (che è quella attuale a livello mondiale) assorbe “per i costi di allevamento” delle nuove generazioni, il 3% del PIL annuo (rilievo fatto dai demografi francesi) 19 . Tale valutazione è , nostro avviso, molto prudenziale: prendiamo ad esempio gli USA del 2012 che crescono, a livello di popolazione, dello 0,8% l’anno, per cui dovrebbero accantonare per i prossimo 14-15 anni il 2,4% del PIL del 2012 (che superava i 16 mila miliardi di $) questo perché prima di quel tempo le nuove generazioni non possono entrare nel mercato del lavoro e autofinanziare il proprio sostentamento. Si dovrebbero accantonare, dunque, circa 400 miliardi di $, cifra non eccessiva se consideriamo che quell’anno per sostenere lo 0,8% della popolazione USA si sono spesi circa 90 miliardi in consumi privati delle famiglie, moltiplicando questa cifra per 14-15 anni arriveremmo a circa 1400 miliardi di dollari 20 , il che significa che il calcolo dei demografi francesi è molto prudenziale.

Tuttavia, non volendo essere meno prudenti di quegli studiosi, li accettiamo e rimane il fatto che con una crescita demografica dell’1% bisogna accantonare o bruciare ogni anno il 3% del PIL realizzato; ciò implica che l’attuale livello di sviluppo è a stento sufficiente a sostenere i “costi di allevamento” delle nuove generazioni. La signora Lagarde, dunque, ha decisamente ragione nel ritenere che questo sviluppo sia mediocre e inadeguato, una crescita accettabile in termini quantitativi dovrebbe essere attorno al 5% l’anno, ma poi si porrebbero problemi qualitativi di notevole livello: una crescita del 5% non ci garantisce che si produrranno posti di lavoro adeguati: il monumentale piano ventennale giapponese (1966-85) prevedeva una crescita del 9-11% del PIL mentre l’occupazione cresceva poco o nulla 21 ; quel piano come si ricorderà ottenne successi spettacolari nei primi 7 anni che stupirono il mondo (ma non chi scrive che nel 1972 ne previde il fallimento) 22 , per poi rompersi le ossa sulle secche della crisi del 1973-75. Si noti che allora eravamo già nell’era dei computer ma non di internet che venne inventato alla fine degli anni ’80 dal fisico Tim Berners-Lee, che trovò il modo di far dialogare tra loro due o più computer creando così una rete. Oggi si può crescere in termini di PIL contraendo anche l’occupazione, il che, come vedremo, pone problemi terribili 23.

Inoltre una crescita del 5% non ci dice nulla su come verranno fatti gli investimenti, se rispetteranno o meno gli equilibri ambientali, né se essi produrranno benessere diffuso oppure crescenti diseguaglianze; in altre parole una crescita del 5% è condizione necessaria ma non sufficiente per aversi uno sviluppo accettabile e sostenibile.

In sintesi cresciamo ormai poco e male e la crescita può a stento coprire i costi di mantenimento delle nuove generazioni, si tratta di una crescita formale e apparente, in realtà siamo in pieno ristagno, un ristagno da cui non si vede alcuna via d’uscita. Non ha torto, dunque, il Nobel Stiglitz quando sostiene: “Non ho mai fatto una grande differenza tra recessione e stagnazione. Il punto di fondo è che l’Europa è in stagnazione, un po’ meglio un anno un po’ peggio l’altro” 24 . Verissimo solo che quello Stiglitz riferisce all’economia europea, si attaglia, per quanto detto, all’economia mondiale.

 

B) La crescita esplosiva del debito.

Nei miei articoli negli anni precedenti ho sottolineato la crescita esplosiva del debito sia pubblico che privato 25 e il 2015 non fa che sottolineare le tendenze in atto. Scrivono Tunner e Lund: “Dall’inizio della crisi finanziaria del 2008 il debito globale è cresciuto di 57 mila miliardi di $, il debito degli Stati è aumentato di 25 mila miliardi di $, di cui 19 mila sono ascrivibili alle economie avanzate …” 26 . E ancora Federico Fubini: “Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, negli ultimi cinque anni il debito dei paesi emergenti è raddoppiato un balzo di 4500 miliardi non molto inferiore alle somme erogate dalle banche centrali dei paesi ricchi (…) quella cintura protettiva di denaro, però, ha permesso al Brasile o al Messico o all’Indonesia di rinviare la resa dei conti con i problemi di casa (…) nel novembre 2008 il premier di Pechino Weng Jao Bao reagì al crash della Lehman Brothers con un maxi pacchetto di stimoli per evitare che la Cina finisse aspirata nella recessione americana. Varò un piano di 470 miliardi di $ per costruire nuove città , raddoppiare la capacità produttiva di pannelli solari,auto e acciaio. È stata una stagione di ulteriori eccessi negli investimenti improduttivi, città fantasma, aeroporti vuoti, stock di prodotti accatastati ad arrugginire nei porti delle coste. In pochi anni il debito globale della Cina (banche escluse) è salito dal 140% al 248% del PIL 27 ”.

Nel frattempo il debito federale USA passa dal 73,3% del PIL (novembre 2008) al 105% del giugno 2015 28 , in cifra assoluta dai 10.579 miliardi circa del 2008 ai 18.151 del giugno 2015 con una crescita globale di circa 7,5 trilioni di $ e con una crescita giornaliera di circa 3,5 miliardi di dollari; nel frattempo il PIL è cresciuto solo del 12-13% come si è visto, se gli USA fossero un’impresa sarebbero falliti da tempo. Nell’Eurozona nel primo trimestre del 2015 siamo al 92,9% nel rapporto debito/PIL contro il 92% della fine del 2014, nella UE a 28 siamo passati nello stesso periodo dall’86,9% (fine 2014) all’88,2% dell’inizio del 2015, mentre nel 2013 eravamo all’85,5% 29 .

Davanti a queste cifre il dott. Saccomanni (già n. 2 di BankItalia e Ministro del governo Letta) dice che ormai il debito non è un problema poiché nessuno pensa realisticamente che si possano rispettare i parametri stabiliti dai trattati europei (60% rapporto debito/PIL) 30 .

Quanto al Giappone naviga verso il livello del 250% nel rapporto debito/PIL.

Il guaio è però che questi dati, relativi al debito pubblico, sono sottostimati, cosa che è stata rilevata sia per gli USA che per l’Europa 31 . In USA, ad esempio, il debito degli Stati e degli enti locali, non entra nel computo del debito federale 32 , come non vi rientrano le garanzie che lo Stato federale presta per i debiti di alcune istituzioni semipubbliche, computando questi elementi il debito federale americano sarebbe simile al debito pubblico italiano 33 . Quanto all’Europa è emblematico il caso della Germania che dovrebbe avere a fine 2015 un debito federale attorno al 70% del PIL, al di sopra del massimo consentito dai trattati europei in vigore, ma comunque molto più basso di quello di altri paesi. Epperò il centro studi economici dell’Università di Friburgo ed il centro studi sull’economia di mercato di Berlino, rilevano che nel debito pubblico tedesco non rientrano le spese per assistenza, previdenza e sanità che rappresentavano nel 2013 un altro 110% del PIL, il che portava il debito tedesco di quell’anno al 194% 34 , situazione poi migliorata nel 2015 quando eravamo “solo” al 154% 35 .

Inoltre le cifre dell’indebitamento pubblico e privato non comprendono la massa enorme dei titoli derivati che assommano, secondo valutazioni molto elastiche (nessuno sa veramente quanti siano) da un minimo di 700 mila miliardi di dollari ad un massimo di 1,5 milioni di miliardi di dollari a livello mondiale 36 ; il PIL mondiale del 2012 era stimato a 72.700 miliardi di $ (stima “Economist”) il che dà l’idea del mare di debiti in cui stiamo annegando. Da questo deriva una situazione di fragilità finanziaria estrema, scrive Fubini: “Dei 10 episodi di massima volatilità finanziaria registrata dagli indici 8 sono di questi anni. Un’intensità ed una frequenza del genere non hanno avuto precedenti neanche nella grande Depressione…” 37 .

Davanti a questa montagna di debiti si prova un senso di sgomento e di sdegno per colori i quali vantano ancora i benefici della politica di austerità, una politica che stando ai dati è fallita completamente, avrebbe dovuto contenere il debito che invece ha raggiunto livelli senza precedenti, se devi spendere 3300 miliari di $ per salvare le banche americane e 4500 miliardi di € 38 per salvare quelle europee è evidente che il debito pubblico si impenna e l’austerità è solo una foglia di fico che copre il fatto che i costi dei salvataggi sono fatti ricadere sui soliti noti (operai, pensionati, classi medie impoverite). Ciò è ammesso chiaramente in un documento stilato dagli eurocrati di Bruxelles che scrivono: “Il fatto che certe multinazionali sembrano pagare pochissime tasse rispetto ai propri ricavi, mentre molti cittadini subiscono pesantemente l’impatto degli sforzi di risanamento, provoca scontento (…) questa percezione di mancanza di equità minaccia il patto sociale tra governo e cittadini e potrebbe persino impattare sulla fedeltà fiscale complessiva (…) c’è urgente bisogno di sfidare gli abusi fiscali e rivedere le regole tributarie sulle imprese, per contrastare meglio la pianificazione fiscale aggressiva (delle IM, A. Carlo)” 39 .

Qui gli eurocrati ammettono quello che da anni scrivo: l’austerità è il paravento che nasconde l’impotenza fiscale degli Stati verso le IM e dal momento che queste ultime non pagano le tasse qualcuno dovrà pure pagarle e si tratta dei soliti noti, come riconobbe esplicitamente il commissario Monti già nel lontano 1997 quando ammise che il carico fiscale si era spostato dal capitale a lavoro perché, non potendo gli Stati imporre il pagamento delle tasse alle IM, dovevano scaricare i costi della macchina statale sul resto della società 40 , ciò che può portare a una rottura del rapporto tra cittadini e governi come si paventa nel documento degli eurocrati citato in precedenza.

C’è, però, in questa vicenda un aspetto che è paradossale: di recente la Standard & Poor’s ha declassato il “ rating ” di 8 gigantesche banche USA perché nel caso in cui vi fosse un’altra grande crisi come quella del 2008 lo Stato non sarebbe in grado di salvarle 41 . Ironia della storia: le banche sono IM che si comportano fiscalmente come ogni IM, eludendo le tasse, e in più forniscono i loro canali, le loro consulenze per movimenti fiscali “evasivi”, in tal modo hanno impoverito gli Stati riducendoli in bolletta, il che significa che nell’eventualità di una nuova crisi, che nessuno si sente di escludere, non potrebbero essere salvate perché le casse dello Stato sono a secco e la tendenza a caricare tutto sulle spalle dei soliti noti ha un limite: a forza di porre carichi sulle spalle, le spalle alla fine si rompono.

Inutile dire, poi, che una simile politica di trasferire i pesi dell’evasione fiscale su operai, pensionati e ceti medi determina una pensante contrazione dei consumi 42 cui consegue una dinamica economica che tutti chiamano mediocre quando non viene definita stagnazione secolare.

 

C) La disoccupazione: un cancro incurabile (malgrado le statistiche per struzzi).

L’attuale livello di disoccupazione è considerato insopportabile dalla signora Lagarde come dal suo predecessore, e connazionale, il famoso DSK 43 ; tale livello si attesterebbe sempre attorno ai 200 milioni di unità a livello mondiale, quella giovanile sfiora i 75 milioni (l’11,7% un po’ più del periodo pre-crisi, secondo l’ILO) mentre 39 milioni di giovani, nei paesi OCSE, non studiano, non lavorano e non cercano lavoro 44 , dati in sé preoccupanti ma non catastrofici (in apparenza) anzi rispetto al picco del 2010/11 c’è stata qualche limatura statistica, il fatto è, però, che questi dati sono espressione di statistiche scritte da struzzi per altri struzzi, in altre parole gli statistici da anni, anzi da decenni, si arrabattano per sostituire la parola disoccupato con altre parole. In realtà quello che conta è il tasso di occupazione o di attività che indica le persone in età da lavoro che effettivamente hanno un lavoro e nell’ultima inchiesta fatta dall’ILO e dall’OCSE nel 2011 risulta che il tasso di occupazione a livello mondiale è solo del 60%, il che significa che solo 3 persone su 5 in età da lavoro, lavorano effettivamente, per cui un tasso di disoccupazione del 5-6% a livello mondiale appare veramente irrisorio; in realtà vengono considerati disoccupati solo quelli che hanno perso un lavoro e continuano a cercarlo, chi il lavoro non lo ha mai avuto e non lo cerca è un inattivo, chi lo cerca è un inattivo che tenta di trovare un primo lavoro, il disoccupato che non cerca più lavoro è considerato uno scoraggiato che scompare dalle statistiche del lavoro e non partecipa più alla forza lavoro, come si vede una varietà di definizioni per nascondere il fatto che il lavoro non c’è.

Al fondo di questa posizione c’è una giustificazione grossolana al livello di un fumetto reazionario degli anni ’30: “ Anna l’orfanella” in cui si narravano le imprese anticrimine fatte da una piccola orfana adottata da un grande e generoso miliardario che, davanti alla disoccupazione dovuta alla Grande Depressione diceva: “Io vedo solo da una parte persone che vogliono lavorare e dall’altra persone che non vogliono lavorare” 45 . In altre parole la colpa della disoccupazione è del disoccupato, la vittima della crisi viene trasformata in responsabile della stessa, in realtà se la gente non cerca lavoro, o non lo cerca più non è perché è improvvisamente impigrita ma perché il lavoro non c’è, per contro quando il lavoro esiste l’economia reagisce allargando il mercato del lavoro e assorbendo lavoratori potenziali che prima erano emarginati. Gli esempi tipici sono quelli delle guerre quando il bisogno di lavoro aumenta ed occorre sostituire la forza lavoro maschile che si trova al fronte: allora le donne si trasformano da angeli del focolare in operai dell’industria bellica; emblematico fu il caso della guerra civile americana (oltre ovviamente le due guerre mondiali): il Sud doveva mettere in campo un esercito di 850 mila unità su una popolazione bianca di soli 6 milioni, per cui lo sforzo bellico, che fu enorme nel settore dell’industria militare, fu sostenuto essenzialmente dalle donne che si trasformarono rapidamente da angeli del focolare in operaie dell’industria che producevano proiettili, mortai e mitragliatrici 46 ; analogo fenomeno si ebbe con l’emigrazione quando un intero continente (l’America) venne popolato da masse enormi di emigrati che si trasferivano lì, con grandissimi sacrifici, perché di lavoro ce n’era e in abbondanza; analogo discorso si può fare per il lavoro parziario che è subito dai lavoratori in molti casi, in Europa il 22,3% dei lavoratori parziari vorrebbe lavorare di più (Eurostat); in USA esiste un tasso di disoccupazione allargata che comprende i parziari involontari e che porta a raddoppiare il tasso di disoccupazione ufficiale 47 .

In realtà però anche nel mondo ufficiale si comincia ammettere largamente che viviamo in un mondo in cui gli sbocchi occupazionali si contraggono stabilmente, non certo per la pigrizia dei lavoratori; già prima della crisi del 2008 due economisti conservatori di notevole rilievo l’uno italiano (esponente di punta della scuola di Chicago) e l’altro indiano (per vari anni direttore dell’Ufficio studi del FMI) hanno ammesso: “Una popolazione attiva sempre più ridotta dovrà sostenere un gruppo sempre più numeroso di cittadini inattivi. La quantità dei contributi che ogni lavoratore deve versare per garantire agli anziani i sussidi pensionistici continuerà a crescere. Se le cose non cambieranno, le generazioni future di lavoratori sborseranno sempre di più per gli anziani e allo stesso tempo riceveranno sempre di meno per la propria vecchiaia 48 .

Frasi profetiche scritte nel 2003 e qualche settimana fa il prof. Boeri presidente dell’INPS ci fa sapere che le generazioni degli attuali trentenni dovranno lavorare fino a 75 anni per avere un vitalizio inferiore del 25% a quello attuale, ma la situazione non è solo italiana ma è mondiale dato il basso livello di occupazione delle persone in età di lavoro.

Ma vediamo più da vicino le previsioni ufficiali FMI sui tassi di disoccupazione per il biennio 2015/2016

Tabella n. 249

Stime e previsioni FMI sulla disoccupazione

Paesi

Anno 2015

Anno 2016

Area Euro

11%

11%

Germania

4,7%

4,7%

Francia

10,2%

9,9%

Italia

12,2%

11,9%

Spagna

21,8%

19,9%

Belgio

8,5%

8,3%

Grecia

26,8%

27,1%

Irlanda

9,6%

8,5%

Finlandia

9,5%

9,5%

UK

5,6%

5,5%

USA

5,3%

4,9%

Giappone

3,5%

3,5%

 

In Cina la disoccupazione era al 4,5% (media 2000/12) in India nel 2012 era al 3,4%50.

A parte l’area Euro le cifre non sembrano catastrofiche, ma se vediamo più da vicino i paesi più grandi come il Giappone e gli USA il quadro in realtà cambia. Il Giappone con il suo 3,5% sembra a livelli molto bassi ma in realtà in quel paese l’occupazione femminile è inferiore alla nostra e cioè è inferiore al 47% delle persone in età da lavoro, inoltre su 135 paesi analizzati il Giappone si trova al centunesimo posto per quanto concerne l’occupazione femminile, in sostanza i livelli di occupazione femminile in Giappone sono africani o da repubblica bananiera, epperò le donne in questione (attorno a 20 milioni) non sono considerate disoccupate, per i motivi che abbiamo detto, ma solo inattive51; è questo un altro caso di statistiche scritte da struzzi per altri struzzi. Quanto agli USA nei 68 mesi che vanno dal marzo 2010 all’ottobre 2015 hanno creato 13,5 milioni di posti di lavoro e la disoccupazione è crollata al 5% da oltre il 10% che era all’inizio del 2010, mediamente sono stati creati 199mila posti di lavoro al mese. Tanti si dirà, pochi in realtà: sfogliando un mio vecchio articolo del 2005 scopro che nel febbraio 2005 si creano più di 260 mila posti di lavoro in USA e la disoccupazione cresce dello 0,2% 52 . Adesso si creano meno di 200 mila di posti al mese e la disoccupazione crolla, come mai? Anche qui un miracolo meramente statistico ad uso degli struzzi: se sei disoccupato e non cerchi più lavoro, dopo 7 mesi scompari dalle statistiche sul lavoro americane, non fai più parte della forza lavoro presente sul mercato e quindi vieni ignorato; in altre parole non vieni più conteggiato tra i disoccupati anche se continui a non avere lavoro. Quanto sosteniamo è rilevabile altresì confrontando i tassi di partecipazione al mercato del lavoro in USA ed in UE: negli ultimi mesi del 2015 il nostro tasso di partecipazione della forza lavoro al mercato del lavoro era in media del 72,3%, in USA nel settembre-ottobre 2015, eravamo al 62,4% (in Italia eravamo al 63,6%), eppure la disoccupazione americana è molto più bassa di quella europea, formalmente almeno. Il mistero si spiega col fatto che in Europa mediamente le persone che hanno perso il lavoro continuano a cercarlo molto più che in USA e quindi sono presenti sul mercato del lavoro per quanto disoccupati, in USA invece, scompaiono e non vengono più conteggiati tra i disoccupati. In altre parole la disoccupazione c’è ma non viene conteggiata e tutto questo viene rappresentato come un elemento di forza dell’economia americana laddove è fin troppo evidente che si tratta di un elemento di debolezza. La disoccupazione reale americana è molto più elevata di quanto non dicano delle statistiche da struzzi.

A ciò si aggiunga che buona parte dei nuovi posti di lavoro sia in USA che in Europa sono lavori a tempo parziario 53 ed è assurdo che si metta sullo stesso piano nella categoria degli occupati chi lavora 20 ore settimanali e chi ne lavora 40, anche questo è un modo per mascherare la sottoutilizzazione della forza lavoro che è una variante della disoccupazione.

Ancora: in Germania la riforma di Schroeder ad inizio millennio ha creato i cosiddetti minijobbers e cioè i lavoratori a tempo parziario che guadagnano 450 € al mese e che sono circa 1/4 della forza lavoro tedesca (tra i 7 e gli 8 milioni) 54 e che sono considerati occupati come i dipendenti della grande industria che guadagnano 4 volte tanto e lavorano a tempo pieno; ora però se un lavoratore di questo tipo equivale ad 1/3 o ad 1/4 di un lavoratore a tempo pieno (in termini di orario e di reddito) metterli nella stessa categoria statistica significa nascondere un consistentissimo fenomeno di disoccupazione reale: se 7-8 milioni di minijobbers equivalgono a 2-3 milioni di lavoratori normali ci troviamo di fronte ad una disoccupazione nascosta di 4-5 milioni di unità.

Quanto ad India e Cina la loro disoccupazione è inferiore a quella dei paesi ricchi, ma già nel 1976 l’ILO (o BIT) rilevò che nei paesi emergenti (allora si diceva Terzo mondo) il vero problema non è la disoccupazione che era attorno al 5% ma la sottoccupazione che era intorno al 36% 55 , il che significava orari senza limiti, salari da fame, mancanza pressocchè totale di welfare , una situazione peggiore della disoccupazione stessa.

Vedremo ora come il problema non sia venuto meno ma anzi si sia aggravato nel tempo.

 

D) La sottoccupazione nei paesi emergenti ed in quelli ricchi.

Col termine sottoccupazione si possono intendere varie cose: a) sottosalari da fame; b) mancanza di un decente sistema di welfare ; c) lavoro a tempo ridotto spesso con salari orari medi inferiori al salario orario di un operaio a tempo pieno. I primi due tipi di sottoccupazione sono dominanti nei paesi emergenti, la terza prevale in quelli avanzati. Ora per quel che concerne i paesi emergenti siamo passati da una sottoccupazione da fame che nel 1976 colpiva il 36% della popolazione lavorativa (come si è visto) ad una situazione che nel 2005 coinvolge il 58,7% della popolazione lavorativa dei paesi emergenti (49,7% della popolazione lavorativa a livello mondiale), il che significa in cifra assoluta 1,2 miliardi di persone che vivevano nel 2005 con 1-2 $ di salario giornaliero 56 .

In seguito l’ILO, nel corso del 2014 ha precisato che solo 800 milioni di lavoratori a livello mondiale sarebbero in quella situazione, epperò a mia volta ho rilevato che nei paesi emergenti i prezzi sono saliti molto dal 2005 per cui la situazione reale non è mutata e in alcuni paesi è anche peggiorata 57 .

Nei paesi emergenti è normale lavorare per salari da fame con sistemi di welfare carenti o addirittura assenti 58 , il che significa che la sottoccupazione in quei casi è peggio della disoccupazione: un disoccupato svedese o danese (ma anche italiano) vive meglio di un sottoccupato indiano, africano o cinese. Inoltre l’ILO e Save the children rilevano che il lavoro minorile illegale, al limite della schiavitù, coinvolge a livello mondiale 168 milioni di bambini per lo più, ma non solo, nei paesi emergenti. Quanto ai paesi ricchi la sottoccupazione (tempo parziario o lavoro precario) esplode dopo la crisi del 1973-75, allora si parlava per gli USA di un tempo parziario che concerneva il 15% circa della forza lavoro adesso si parla del 40% 59 . In Italia il tempo parziario e altre forme di lavoro precario rappresentano ormai una fetta assai larga del mondo del lavoro 60 , dei minijobbers tedeschi si è detto, ed esistono in Germania altre forme di lavoro precario documentate dalle eccellenti inchieste di Walraff dagli anni ’80 ad oggi 61 ; in Inghilterra esiste il lavoro a zero ore che riguarda un milione di lavoratori: si rimane a casa in attesa della chiamata del datore di lavoro e si può essere impegnati, quando è richiesto, per orari lunghissimi 62 , ciò che avviene anche in Germania 63 .

In questo caso si passa dalla inattività (l’attesa della chiamata del datore di lavoro) che non è retribuita ad orari massacranti.

Al consuntivo anche nei paesi ricchi, a cominciare negli USA, la grande massa della forza lavoro è formata da inattivi (siano essi disoccupati, scoraggiati o persone che non hanno mai cercato lavoro) o da sottoccupati (anche il 40% delle persone attive), una situazione che nel complesso è semplicemente disastrosa. Ovviamente questa debolezza della situazione della forza lavoro sul mercato del lavoro si traduce in una debolezza salariale della stessa, secondo l’ILO i lavoratori hanno perso negli anni della crisi l’1,2% del PIL mondiale pari al 2% dei consumi mondiali; la tendenza era in atto a livello mondiale anche prima della crisi, con i paesi ricchi in testa: basti pensare che dopo il 2000 in USA i lavoratori hanno perso 15 punti nella partecipazione al PIL 64, e in tutti i paesi industriali il trend è in corso sin dalla fine degli anni ‘70 65 .

 

E) Le cause socio-economiche della disoccupazione e della sottoccupazione.

Da oltre 35 anni rilevo che nelle società capitalistico-industriali decadenti i contrappesi alla disoccupazione sono venuti meno, e la tendenza del capitalismo a produrre di più con meno addetti opera in modo selvaggio e devastante. Alcuni dati emblematici: negli ultimi anni il settore manifatturiero USA ha aumentato produzione e produttività ma ha distrutto 5 milioni di posti di lavoro 66 ; dal 1970 ad oggi negli USA produzione e produttività nel settore del terziario avanzato aumentano enormemente, ma si distruggono la metà dei posti di lavoro 67 .

Un tempo il settore dei servizi fungeva da spugna per i posti di lavoro distrutti nell’industria e nell’agricoltura, adesso non più anche i servizi si razionalizzano e distruggono posti di lavoro. Un esempio emblematico è la Walmart che è il più importante datore di lavoro privato nel mondo con 1,8 milioni di dipendenti in 15 paesi e con un fatturato pari ad 1/160 del PIL mondiale: se tutte le imprese avessero il rapporto prodotto-addetti della Walmart si produrrebbe il PIL mondiale con 300 milioni circa di lavoratori con un piccolo esubero di oltre 2 miliardi di lavoratori che non si saprebbe dove mettere 68 ; si noti poi che la catena commerciale citata è pur sempre una catena di supermercati, non siamo cioè ancora ad Amazon il negozio senza negozi e con pochissimi dipendenti. Le prospettive per il futuro non sono per nulla rosee è normale ormai che centri di ricerca specializzati prevedano nei prossimi anni posti a rischio per il 50% dei lavoratori impiegati 69 .

Negli anni ’80 era chiaro, per chi volesse vedere (ed eravamo allora in pochi), che i settori avanzati erano in grado di raddoppiare ogni 5 anni la produzione senza incrementare per nulla l’occupazione 70 ; questi settori inoltre fornivano agli altri comparti dell’economia i mezzi per fare altrettanto ( computer e programmi di produzione) 71 : solo uno struzzo professionale poteva pensare che una simile spinta non avesse conseguenze dirompenti sull’occupazione anche perché l’ultima spugna rimasta (l’assunzione di personale nella P.A.) era messa a dura prova dall’evasione fiscale crescente ed incontrollabile del capitale 72 , che spingeva gli Stati verso una situazione di fallimento reale ancorchè non giuridico.

Oggi, però, la situazione è cambiata nel senso che uomini che esprimono il sistema ammettono che andiamo verso un mondo con sempre meno lavoro, all’accoglienza irritata che ebbe (negli anni ’90 del secolo scorso) il libro del prof. Rifkin 73 si è sostituito un atteggiamento quanto mai preoccupato, si ammette che i profitti non creano lavoro ma lo distruggono, il prof. Prodi, non proprio un bolsceviko, scrive: “Il problema del lavoro rimarrà a lungo drammatico non solo in Italia ma in tante parti del mondo. Il nuovo progresso tecnologico ci pone sempre più davanti alla prospettiva di una crescita senza occupazione 74 ”.

E ancora. Il governatore della Banca d’Italia Visco osserva che le nuove tecnologie determineranno a livello mondiale “Una grandissima perdita dei posti di lavoro, per cui avremo una domanda vacillante e quindi una mancanza di capacità reale di potere di acquisto che possa sostenere l’aumento incredibile della produzione. Chi acquisterà i beni e i servizi che produrranno i robot?” 75 .

Occorrerebbero, dunque, delle politiche attive per creare lavoro, ma quali siano queste politiche e dove trovare i soldi per praticarle (con Stati indebitati fino agli occhi) nessuno lo sa. In margine alla riunione dei banchieri centrali europei che si è tenuta a Lisbona nel maggio 2015, si è osservato seccamente: “Sulla disoccupazione i governi occidentali non sanno che pesci pigliare”. 76

In altre parole le imprese contraggono l’occupazione sia nell’industria che nei servizi perché è più profittevole aumentare la produzione contraendo l’occupazione, chi non lo fa è emarginato dal mercato e viene eliminato o fagocitato, mentre Stati e governi pieni di debiti assistono impotenti al massacro occupazionale. Non rimane allora che sviluppare una pratica inaugurata sin dagli anni ’70: falsare le statistiche sull’entità reale della disoccupazione. Il trionfo degli struzzi e dello “struzzismo”.

 

F) Il fallimento delle politiche economiche.

Da quanto scritto in precedenza si evince che tutte le politiche tentate contro la crisi sono state un colossale flop sia sul terreno della ripresa economica che su quello dell’occupazione e del debito pubblico. Queste politiche si riducono a due varianti: la politica dell’austerità (tagli di bilancio, riduzione del welfare , aumenti delle tasse, controllo salariale) e quella della spesa pubblica e delle iniezioni di liquidità; la prima è stata praticata prevalentemente in Europa, la seconda in USA da Obama e dalla Fed, oltre che il Giappone. In realtà tra queste due politiche non esiste una totale incomunicabilità: Obama ha dovuto negli anni passati concedere molto nel campo dei tagli ai repubblicani che hanno controllato prima un ramo del Congresso e poi entrambi, per contro in Europa con la presidenza Draghi della BCE ci si è aperti ad una politica di forti iniezioni di liquidità all’interno del sistema economico. Entrambe queste politiche però sono fallite proprio sul terreno dell’occupazione poiché non si può imporre al capitalismo di funzionare in modo non capitalistico senza cioè tentare di produrre di più con meno addetti. Anche però sul terreno della lotta all’evasione fiscale, assolutamente necessaria per salvare i bilanci statali in dissesto, si è completamente fallito. Varie volte negli ultimi anni si è parlato di una lotta decisiva e definitiva contro l’evasione fiscale 77 tutto però è rimasto come prima: qualche anno fa un poderoso studio della Banca Mondiale attribuiva all’evasione fiscale un peso pari a 21mila miliardi di $ di liquidità nascosti nei paradisi fiscali 78 , cifra enorme ma che va precisata meglio: nei paradisi fiscali i capitali sono parcheggiati momentaneamente, per venire ripuliti (si parla di “laundering” ) rietichettati e riciclati, per poi essere investiti a livello mondiale anche nei paesi di origine. C’è dunque un andirivieni continuo di capitali dai paradisi fiscali: se, dunque, in un momento dato si trovano in essi 21 mila miliardi di $ (in pochi milioni di conti) molti altri miliardi saranno stati rietichettati e smistati a livello mondiale nei mesi e negli anni precedenti, questo dà un’idea approssimativa del carattere semplicemente monumentale del fenomeno. Epperò pochi anni dopo il Tax Institute Network (una delle più prestigiose organizzazioni sullo studio del fenomeno) sposta in avanti le asticelle, i capitali in fuga oscillano tra 21 mila miliardi di $ e 32 mila miliardi 79 , il dato di ieri è il minimo di oggi. Adesso, però, si dice che siamo alla soluzione finale del problema: dal 2017 scatterà la trasmissione automatica di informazioni tra Stati (niente più, dunque, segreto bancario) e fine dei giochi, si spera. Per l’intanto però le informazioni non potranno andare indietro di 5 anni (prima del 2012) 80 il che significa una sanatoria per i vari reati fiscali che non siano caduti in prescrizione e questo non depone bene sulla volontà degli Stati di perseguire veramente l’evasione fiscale.

Il problema però non si risolve con l’informazione poiché è noto a tutti che le IM mettono le loro sedi nei paesi fiscalmente benevoli, la stampa ha denunciato più volte questa prassi diffusissima, il problema allora non è l’informazione ma la concorrenza tra Stati che fanno a gara per attrarre gli investimenti delle IM come denunziò nel 1997 il commissario Monti 81 , né da allora la situazione è cambiata , basti ricordare la vicenda della tassa del 75% che Hollande voleva imporre ai suoi superricchi (inferiore al 91% esistente in USA nel 1957 con un governo repubblicano) 82 , ci fu allora una gara tra vari paesi (Inghilterra, Belgio, Russia), per invitare i ricconi francesi a rifugiarsi sotto la propria ala protettiva; ancora nell’ottobre del 2014 si scopre che il governo del Lussemburgo forniva consulenze fiscali alle IM per eludere il fisco dei paesi di origine e nessuno ha chiesto nella UE a Juncker, politico principe del Granducato, di lasciare la poltrona di leader della commissione europea ricevuta qualche mese prima. Inoltre il territorio di paesi come gli USA rigurgitano di paradisi fiscali ( Nevada, Deleware, Puerto Rico, etc.) e lo stesso avviene in Europa dove Inghilterra, Francia , Spagna hanno i propri paradisi fiscali, per non parlare del Lussemburgo che abbiamo poc’anzi citato. La severità fiscale degli Stati che oggi viene sbandierata puzza di imbroglio lontano un miglio. Ognuno di questi paesi per essere credibile dovrebbe iniziare la lotta ai propri paradisi fiscali che invece ospita e protegge. Inoltre bisognerebbe vietare la pratica della segretezza del libro dei soci (tipica di molti paradisi fiscali) e quella delle azioni al portatore attraverso cui si nascondono i veri proprietari di determinati capitali, per farlo occorrerebbe un sistema fiscale mondiale e cioè uno Stato mondiale che al momento non si vede da nessuna parte. Ancora: occorrerebbe vietare la pratica dei prezzi di trasferimento con cui le IM trasferiscono a prezzi di favore i propri beni ad un’impresa madre che opera in un paradiso fiscale dove i profitti sono tassati in modo quanto mai favorevole, e così si trasferiscono artificiosamente i profitti alla casa madre, che rimangono detassati 83 . Anche qui per impedire il fenomeno ci vorrebbe un sistema mondiale in grado di controllare i prezzi delle merci in modo ferreo, ancora una volta ci vorrebbe un potere politico mondiale e cioè uno Stato in grado di porre in essere una politica rigorosa di controllo sui bilanci di gruppo delle IM. I vari convegni, chiamati G7-8-20, sono solo una finzione di un potere mondiale che non c’è: nel 2012 Cameron, in margine ad un G7 che si tenne in Nord Irlanda, ammise che fino ad allora i vari incontri avevano prodotto solo un cimitero di documenti 84 , nel 2014 a Brisbane in Australia, un G20 ambizioso si concluse con grandi promesse cui non seguì nulla, nel 2015 ad Antalya in Turchia ennesimo G20 che rinvia tutto 85 , cosa del resto che è una prassi consolidata. In altre parole la massima di questo capitalismo decadente è molto semplice: ognuno per sé e nessuno per tutti.

 

2) Segue: La diseguaglianza tra Stati e all’interno degli Stati.

Che nel mondo le diseguaglianze siano crescenti è largamente, ma non unanimemente, ammesso, per ciò che attiene le diseguaglianze tra gruppi sociali all’interno dei singoli paesi, mentre si ritiene che il divario tra paesi e Stati si sia attenuato. Procederemo, dunque, ad analizzare separatamente i due problemi.

 

A) Diseguaglianze tra Stati.

Per molti lo sviluppo bloccato è finito, i paesi un tempo sottosviluppati (il vecchio Terzo mondo) sono divenuti paesi emergenti o addirittura miracolosi (India, Cina, Brasile). Eppure questo mondo appare ancora caratterizzato da diseguaglianze profonde e tenaci che non sembra possano essere seriamente intaccate in un futuro che non sia biblico. Così nel 2012 su un PIL mondiale di 72.700 miliardi di $ gli USA ne controllavano 16.245, la zona Euro 12.213, il Giappone 5.961, l’UK 2.476, l’Australia 1.760 ed il Canada 1.532 con un totale di oltre 40 mila miliardi e con soli 750 milioni di abitanti, l’11% della popolazione mondiale che controlla il 55% del PIL, il che significa una distanza abissale per quel che concerne il PIL procapite; inoltre questi paesi hanno livelli di produttività enormemente più elevati di Cina e India per cui controllano le alture dominanti di scienza e tecnologia 86 .

La tendenza però, sarebbe verso una rapida riduzione delle distanze (si sostiene) ed allora andiamo a verificare il trend per ciò che attiene il livello procapite del PIL dei paesi emergenti confrontato, sia in termini di percentuali che in differenze di cifra assoluta, con il PIL procapite USA.

Tabella n. 387

PIL procapite paesi emergenti confrontato con PIL USA

Paesi

Anno 2002

Anno 2012

Bangladesh

330$ (- 35.660 $) 0,92%

750$ (- 51.000 $) 1,45%

Brasile

2590 $ (- 33400$) 7,2%

11.340$ (-40.140$) 21,9%

Cina

980$ (-35.010$) 2,72%

6090$ (-45.660$) 11,77%

Egitto

1280$ (- 34.710$) 3,57%

3260$ (- 48.490$) 6,3%

India

490$ (- 35.500$) 1,36%

1500$ (- 50250$) 2,9%

Indonesia

790$ (- 35.200$) 2,2%

3560$ (- 48.190$) 6,9%

Messico

6260$ (- 29.730$) 17,4%

9750$ (- 42.000$) 18,85%

Nigeria

360$ (- 35.630$) 1%

1560$ (- 50.190$) 3%

Pakistan

400$ (- 35.590$) 1,1%

1260$ (- 50.490$) 2,44%

Sud Africa

2360 (- 33.630$) 6,6%

7.350$ (- 44.400$) 14,2%

Russia

2430$ (- 33.560$) 6,75%

14.040$ (- 37.710$) 27%

Turchia

2680$ (- 33.310$) 7,45%

10.670$ (- 41.080$) 20,6%

 

Il PIL USA procapite era pari a 35.990 $ nel 2002 per diventare 51.570 $ nel 2012.

Alcune considerazioni si impongono subito: i progressi dei paesi emergenti sono lentissimi, la Cina recupera appena 9 punti in 10 anni rispetto al PIL procapite americano, con questo trend raggiungerebbe gli USA tra un secolo circa, ma il fatto è che lo sviluppo cinese non è più a due cifre ma inferiore al 7%, che per la Cina è quasi una recessione tecnica, con questo ritmo raggiungere gli USA diventa un’ipotesi proibitiva; quanto all’India, altro paese miracoloso, nel corso di 10 anni recupera solo 1,5 punti sugli USA il che significa che con questo ritmo ci vorranno più o meno 600 anni per raggiungere i livelli procapite americani. Analoghe considerazioni possono farsi per gli altri paesi con l’eccezione del Brasile e della Russia che, però, sono fermi e non si sa quando e se ripartiranno e comunque rimangono molto lontani. Il distacco tra i ricchi, rappresentanti simbolicamente dagli USA, e gli emergenti rimane enorme e non superabile in tempi che non siano biblici; né vale consolarsi considerando esclusivamente il PIL globale in cifra assoluta poiché molto più importante è, ai nostri fini, il PIL per testa: la Cina , infatti, ha una popolazione immensa e con l’ampliarsi della base demografica crescono i problemi perché aumenta il numero delle bocche da sfamare, dei corpi da curare, dei posti di lavoro da creare, dei cervelli da istruire e così via. Maggiore popolazione significa maggiori problemi e rimane il fatto che la Cina disponeva nel 2012 solo di 6.090 $ a testa per sviluppare investimenti, consumi, sanità, ricerca scientifica etc., molti di più del 2002 ma molti di meno dei livelli americani, anzi la distanza con gli USA in cifra assoluta è cresciuta: nel 2002 gli USA disponevano di 35.010 $ a testa in più dei cinesi per realizzare i propri obiettivi, 10 anni dopo la distanza è di 45.660 $ a testa, le percentuali hanno indubbiamente il loro peso ma non meno rilevante è la distanza in termini di dollari procapite da cui si evince che gli USA nell’arco di 10 anni hanno visto progredire la propria disponibilità di ricchezza per cittadino di oltre 10.000 $ rispetto ai cinesi; secondo poi le stime correnti per il 2015 il PIL procapite cinese dovrebbe arrivare a 7.800 $ contro un PIL americano di 55.000 $ con una differenza di 47.200 $.

Inutile dire che tale discorso si può fare per gli altri paesi considerati nella tabella: la distanza dagli USA (e i paesi ricchi) e quelli emergenti rimane comunque abissale.

 

B) Le differenze all’interno delle singole società.

Di recente la Banca Mondiale ha dichiarato che solo 702 milioni di persone vivono con un reddito che arriva ad 1,9$ al giorno (partendo da 0 ovviamente) il che sembra essere un miglioramento netto rispetto al passato e sembrerebbe smentire la tesi di coloro che asseriscono essere la globalizzazione un fenomeno che impoverisce sempre più vaste fasce della popolazione mondiale 88 .

A queste tesi è facile rispondere che i criteri della Banca mondiale per determinare le soglie della povertà sono molto discutibili: osserva l’ultimo Nobel per l’economia, Angus Deaton, che con queste manipolazioni e questi cambi repentini di criteri è accaduto che 175 milioni di indiani siano stati promossi da poveri a “non poveri” nell’arco di qualche settimana, senza che la loro situazione fosse minimamente mutata 89 , egli osserva inoltre quanto segue: “Infine, i difensori della tesi della povertà globale potrebbero osservare, a ragione, che con 22 rupie al giorno si conduce una vita miserabile anche in India e che essere povero in questo paese significa per adulti e bambini se non soffrire la fame di certo rientrare tra le persone più denutrite al mondo” 90 .

In altre parole il livello fissato dagli istituti internazionali riguarda solo la povertà estrema, chi guadagna meno di 1,9 $ al giorno è estremamente povero, mentre chi supera quel livello di 1-2 $ è sempre povero ma non estremamente, come dice Deaton non muore di fame ma è comunque un denutrito; se vogliamo usare questi criteri per valutare la decrescita della povertà ci stiamo semplicemente prendendo in giro, come quando diamo credito alle statistiche sulla disoccupazione. La verità è che la fascia della povertà reale e consistente va ben oltre i 700 milioni di cui parla la Banca mondiale: ad esempio in India la popolazione che lavora in agricoltura è il 47,2% della forza lavoro totale nel 2012 , e questa massa enorme di popolazione (non meno di 600 milioni con le famiglie) si divide un PIL agricolo di appena 340 miliardi di $ il che implica un reddito procapite bassissimo; in Cina, nello stesso anno, il 34,8% della forza lavoro opera in agricoltura, con le famiglie arriviamo a 500 milioni di persone che si dividono 823 miliardi di reddito agricolo 91 e anche qui si tratta di cifre assolutamente modeste ed impensabili per i livelli dei paesi ricchi, costoro direbbe la Banca mondiale, sono poveri ma non estremamente. Analoghe considerazioni possiamo fare analizzando la spesa per la sanità nei due grandi colossi sottosviluppati, Cina ed India: in Cina si stima che nel 2012 sia stato speso il 5,4% del PIL nel settore sanitario mentre per l’India siamo al 4% (“Economist”), per contro siamo al 10,9% in Canada, all’11,7% in Francia, all’11,3% in Germania, al 9,4% in UK, al 17,9% negli USA, e al 9,2% in Italia 92 .

Ora però se dividiamo la spesa cinese o indiana per la popolazione di quei paesi abbiamo che in Cina si spendono 442,25 miliardi di $ per 1.356,6 milioni di abitanti più o meno 330 $ a testa, mentre in India si spendono 74,36 miliardi di $ per 1.258,4 milioni di abitanti il che significa una sessantina di $ a testa; se invece consideriamo l’Italia (paese tra i più avari dell’Occidente) si spendono da noi 185,38 miliardi di $ per 61 milioni di abitanti, intorno ai 3.000 $ a testa 93 . Ciò significa che la popolazione indiana o cinese non può accedere ad uno standard minimo di cure mediche, e analogo discorso si può fare per i vari paesi considerati nella tabella n. 3.

Va ulteriormente considerato, poi, che queste popolazioni con i loro miseri redditi mettono insieme una quota quanto mai modesta del PIL mondiale: chi guadagna da un centesimo a 1,90 $ al giorno, anche considerando una media elevata vicino al massimo della fascia di reddito considerata e cioè 1,5 $ al giorno, arriverà a mettere insieme circa 350 miliardi di $ l’anno (considerando 700 milioni di persone a 1,5 $ al giorno) meno dello 0,5% del PIL mondiale del 2012, una miseria.

Si pone dunque il problema di capire come ha funzionato negli ultimi decenni la distribuzione dei redditi a livello mondiale e la stessa Banca mondiale 94 non ha dubbi: chi è ricco si è arricchito sempre di più, e chi è povero è divenuto relativamente sempre più povero (nel senso che la quota di ricchezza globale a lui spettante si è contratta in termini relativi).

A tal proposito è rilevante una ricerca condotta da “Il Sole 24 ore” con la fondazione Hume, che quel giornale presenta come un’illustrazione del fatto che il mondo attuale sia “un po’ meno diseguale” 95 ; il giornale si apre con un articolo trionfalistico di un sociologo ex sessantottino che se la prende con “la leggenda delle diseguaglianze crescenti” 96 , ma in realtà la ricerca finisce col documentare proprio la crescita delle diseguaglianze a livello mondiale. Infatti, considerando il mondo come un unico grande paese, la distribuzione della ricchezza, utilizzando il coefficiente di Gini, passa da 0,36 a 0,44 nel periodo 1960-2012 mentre escludendo Cina ed India la crescita passerebbe da 0,36 a 0,39 dal 1960 al 1996 per poi stabilizzarsi 97 . Si noti che una crescita di 3 punti del coefficiente di Gini è considerata rilevante mentre una crescita di 8 punti è considerata rilevantissima (ovviamente nel senso dell’aumento delle diseguaglianze). Ora le diseguaglianze, escludendo Cina ed India, sono cresciute di 3 punti dopo il 1960 e di 8 punti includendo questi due paesi, in altre parole passiamo da una crescita rilevante ad una rilevantissima; peraltro escludere la Cina e l’India è estremamente arbitrario e fa trasparire la volontà di attenuare il fenomeno evidentissimo della crescita delle diseguaglianze, escludere, infatti, dal computo due paesi che rappresentano il 37­38% della popolazione mondiale è un arbitrio incomprensibile. È evidente dunque che la ricerca in questione documenta in modo quanto mai incisivo proprio il fatto che il mondo sta diventando più diseguale.

Ma che significa concretamente che il coefficiente di Gini è cresciuto di 8 punti dopo il 1960? Significa una cosa molto semplice che nel 1960 il 20% più ricco della popolazione mondiale guadagnava 30 volte di più di quanto guadagnava il 20% più povero, all’inizio degli anni ’90 siamo passati a 60 volte di più; alla fine degli anni ’90, lo rileva l’ONU, siamo arrivati ad un rapporto che è di 1:86, in altre parole il 20% più ricco si taglia l’86% della torta e il 20% più povero si deve contentare dell’1% 98 .

Ancora: nel 2011 alla conferenza annuale che si tiene a Davos in Svizzera, cui partecipa il Gotha del capitalismo mondiale, si è rilevato che il 10% superiore della popolazione si taglia adesso l’83% della ricchezza mondiale il che significa che l’altro 90% si deve contentare del residuo 17% 99 . Ma non è tutto. Nella citata analisi de “Il Sole 24 ore” si riporta una ricerca del Credit Suisse da cui risulta che l’1% superiore della popolazione mondiale si tagliava nel 2000 il 48,7% della ricchezza netta mondiale che cala al 44% negli anni a cavallo della crisi per tornare al 48,2% nel 2014, il commento è secco: la forbice si allarga 100 .

Si noti poi che le ricerche in questione partono dai redditi ufficiali e prescindono dai redditi occultati a fini fiscali e che trovano rifugio nei paradisi fiscali, di tali redditi abbiamo visto l’entità enorme, considerando questi ultimi il coefficiente di Gini impazzirebbe.

La verità è che le diseguaglianze sono cresciute dappertutto, sia pure con ritmi differenti, nei paesi emergenti come in quegli avanzati. In USA è noto che un americano su 7 (circa 50 milioni) è considerato povero e sopravvive normalmente con i buoni pasto del governo (4,45 $ al giorno), ma la fascia di povertà è assai più diffusa per cui esiste una fascia così detta di quasi povertà in cui stazionano quelli che hanno un reddito del 25% superiore ai poveri 101 , ma anche quella non sembra sufficiente se è vero che prima dell’attuale “grande crisi” nel 2005 si rilevava che solo in 4 delle oltre 3000 contee che formano il territorio degli USA, un operaio poteva, col suo salario, pagarsi il fitto di una monocamera con bagno 102 , sicchè erano assai frequenti i casi di persone che vivevano in alloggi impropri ( roulottes, camper , barche, camere di motel etc.) oppure in coabitazione per dividere il fitto e questo anche tra lavoratori con un posto di lavoro stabile 103 .

In Europa si è elaborato un concetto più ampio di quello di povertà in senso stretto (troppo delimitato) e si parla di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale che ormai costituiscono una quota consistente della popolazione, infatti: “Per Eurostat il dato medio di questo esercito sulla popolazione complessiva comunitaria è salito dal 24,3% del 2011 al 24,5% nel 2013 nell’UE, con picchi in Portogallo (27,5% contro 24,9% nel 2011), Spagna (27,3% contro 24,7%), Irlanda (29,5% contro 25,7%), Grecia (35,7% contro 24,7%), Italia (28,4% contro 24,7%)” 104 . Inoltre in UK siamo al 22% mentre in Francia, Austria e Germania la quota rimane stabile tra il 18% e il 20%105. In Italia il Censis ha rilevato che ci sono 2,7 milioni di giovani che vivono autonomamente ma che ricevono 4,4 miliardi di aiuti dalle famiglie per pagare le bollette, pur avendo un reddito lordo annuo di 22.000,00 €, cifra molto più elevata della soglia attuale di povertà (€ 9.600 annui nel nostro paese)106 .

In sintesi parlare di una diseguaglianza che si riduce, sia pure di poco , mi sembra una battuta da umorismo nero o da struzzo.

 

C) Le ricadute della diseguaglianza sullo sviluppo economico.

Il prof. Deaton osserva che la diseguaglianza può essere, in linea di principio, un motore per lo sviluppo, ma nelle dimensioni che ha assunto oggi è un pericolo per lo sviluppo stesso e per gli equilibri sociali, infatti: “Ritengo che la diseguaglianza sia una delle minacce più gravi per la società poiché influenza tutto (…) temo un mondo dove i ricchi fanno le regole e gli altri devono obbedire. C’è molta gente che sta soffrendo a causa della globalizzazione. Persone di mezza età, istruite e non che vedono svanire le promesse di benessere con cui erano cresciute e crollare i loro redditi (…) non dico che tutto questo sia provocato in modo diretto dalla diseguaglianza, ma certamente l’estrema diseguaglianza sta peggiorando le cose, creando questa emergenza che ora studio” 107 .

Il prof. Deaton, spesso considerato a destra come il contraltare di Piketty (a torto evidentemente) ha perfettamente ragione. La debolezza sul mercato del lavoro della classe operaia (e anche della media borghesia impiegatizia) ha determinato la debolezza dei salari e degli stipendi sul mercato del lavoro, cui si accennava prima; ciò evidentemente ha influenzato anche il commercio mondiale, scarsamente dinamico (ristagno dei consumi) ed ha causato nel primo trimestre del 2015 un calo su base annua dell’1,5%, il più alto dal 1996 108 . Né questo è un fenomeno congiunturale: Obama in un’intervista al “Financial Times” di fine 2015 ha ammonito l’Europa che gli USA, con la crescita dei loro consumi, non possono trainare più l’economia europea e mondiale come era avvenuto negli anni di Clinton (sia pure ricorrendo largamente all’indebitamento del consumatore). La tabella che segue illustra chiaramente le tendenze in atto.

Tabella n. 4 109
Peso % dei consumi americani sul PIL mondiale

 

Anni

% consumi USA sul PIL mondiale

Volume in miliardi di $

2002

22,46%

7257,7

2003

21,26%

7719

2004

19,87%

8210,1

2005

19,5%

8716,7

2006

19%

9201,6

2007

17,7%

9667

2008

16,51%

10006

2009

17,2%

10024,5

2010

16,67%

10584,5

2011

15,41%

10793,5

2012

15,42%

11209

 

Il trend è chiarissimo: la crescita di povertà e diseguaglianze taglia il potere di acquisto delle famiglie americane, puoi ricorrere al debito, ma se il reddito cala in termini relativi non trovi più credito ed i consumi conseguentemente ristagnano o sono scarsamente dinamici. L’Europa segue a ruota: l’Eurozona passa dall’11,75% del PIL mondiale nel 2002 al 9,74% nel 2012, l’UK passa dal 3,22% (2002) al 2,48% (2012), il Giappone dal 7,1% (2002) al 4,96% (2012)110. Questo calo è compensato in parte, ma solo in parte, dalla crescita dei paesi emergenti: così la Cina passa dall’1,8% (2002) al 3,96% (2012), l’India dall’1% (2002) all’1,53% (2012). Al consuntivo i consumi mondiali calano dal 63% del PIL al 60% (2002-2012), una flessione non catastrofica ma chiara e netta. Bisogna poi considerare che la crescita del consumo dei paesi emergenti è una crescita di consumi relativi a beni di bassa tecnologia e qualità gli unici cui possa accedere la grande massa dei consumatori poveri di quei paesi. Un esempio per tutti: in Cina nel 2011 si vendono 13 milioni di auto e 490 milioni di biciclette 111. Abbiamo, dunque, una élite (150 milioni di persone più o meno) che può accedere a consumi elevati ed una grande massa di consumatori (oltre un miliardo) il cui sogno è una bicicletta e che non potrà mai acquistare un’auto, un computer, un maglione di Loro Piana o di Cucinelli, un Hi-fi etc. 112.

Un’ulteriore conseguenza della diseguaglianza è la tendenza ad un capitalismo sempre più speculativo e finanziario piuttosto che produttivo, crescono cioè in numero e peso le manovre speculative come i futures sul petrolio e sul grano che sono autentiche scommesse sui prezzi, oppure la speculazione sulle monete, in ragione di 4000 miliardi di $ al giorno (un milione di miliardi l’anno) 113 , manovre che non hanno nulla a che vedere con il volume del commercio mondiale (qualche decina di trilioni l’anno), tutte operazioni che non creano ricchezza ma trasferiscono soldi da una tasca all’altra. Ciò avviene perché la produzione è scarsamente dinamica e non è in grado di assorbire tutto il capitale esistente, ma il capitale se non è investito è carta straccia e quindi rifluisce verso attività speculative che rendono l’attività economica più simile alla bisca di un casinò che non ad una economia vera e propria. Ne consegue una estrema instabilità economica dove impazza la speculazione e dove le crisi diventano normali: secondo un recente studio nel periodo 1970-2011 ci sono state più di 400 crisi finanziarie, bancarie e monetarie, oltre 10 l’anno, quasi una al mese 114 il cui costo ha avuto dimensioni esorbitanti: basti pensare che la crisi finanziaria giapponese del 1989 ha avuto un costo pari all’equivalente di 12.000 miliardi di € attuali 115 . Se queste perdite fossero state computate nel PIL giapponese del 1989 il PIL stesso sarebbe finito ai numeri negativi, ma statisticamente questa falcidia non riguardava il prodotto lordo di quell’anno ma lo stock di capitale e risparmio tesaurizzato negli anni precedenti, stock che si liquefò in buona parte, e questo pesò indubbiamente negli anni successivi sul declino dell’economia giapponese che frenò bruscamente passando da un tasso di sviluppo del 3-3,5% dei primi anni ’80 ad una crescita dell’1,5% nel 1990-98 116 , cui è seguita una situazione che oscilla tra recessione e ristagno come si è visto 117 .

Valutare quanta ricchezza è stata distrutta nelle oltre 400 crisi che ci hanno interessato a partire dal 1970 è impossibile, ma è chiaro che si tratta di cifre enormi che danno l’idea di un sistema che ormai spreca e distrugge molto più di quanto crei.

Infine l’ultima conseguenza negativa delle diseguaglianze. Il prof. Deaton teme che si possa verificare una situazione in cui una ristretta élite di capitalisti e finanzieri faccia le regole e le imponga agli altri 118 . Questo però non è, purtroppo, un rischio ma una realtà consolidata. Già negli anni ’80 sostenevo che gli Stati nazionali erano una realtà putrescente scavalcata e umiliata ogni giorno dal prepotere delle IM 119 , e due economisti conservatori (ma non struzzi) come Zingales e Rajan osservano che “chi ha l’oro fa le regole” 120 .

Il guaio è che la finanza e le IM non hanno nessun progetto di governo della economia mondiale, poiché non costituiscono una cupola, come erroneamente si dice, ma un complesso di centri di potere o di cupole in conflitto tra loro tra cui si formano spessissimo alleanze che mutano in continuazione. Emblematica è la vicenda della Trilaterale nata nel luglio del 1973 e attorno a cui esiste ancora una cortina di mistero: in realtà si trattava di un centro che metteva in contatto intellettuali, politici di rilievo e grandi imprese multinazionali. Ne facevano parte sia gli uomini dell’auto che quelli del petrolio e ad ottobre del 1973 gli uomini dell’auto e gli uomini del petrolio si scannarono nella grande crisi di fine 1973 in cui il loro conflitto trascinò l’economia mondiale in un baratro da cui in realtà non è mai venuta fuori 121 . Questo significa che la Trilaterale altro non è stata che un supergruppo di pressione privato che chiedeva agli Stati di dimagrire, di ridurre la spesa sociale e i diritti sindacali lasciando mano libera al capitale e ai suoi movimenti senza interferire minimamente in essi. Mancava totalmente un progetto di stabilizzazione e sviluppo dell’economia mondiale, che nessuno era in grado di proporre anche perché ognuno esprimeva interessi contrapposti e incompatibili con quelli degli altri componenti di quell’organismo, c’era solo una richiesta di lasciare mano libera al mercato e a chi nel mercato aveva una posizione dominante.

In un simile mondo l’unica regola che vale ormai è che non esistono regole e che ognuno se ne ha la forza prevarica sui propri concorrenti e sul mercato anche a costo di far saltare gli equilibri dell’economia mondiale, facendo riesplodere disoccupazione di massa e inflazione galoppante come avvenne con la pesantissima crisi del 1973-75. In sintesi un sistema in cui la crescita delle diseguaglianze produce crescita della povertà, ristagno dei consumi e della dinamica produttiva, degenerazione speculativa del sistema, instabilità crescente che esplode in crisi violente e frequentissime.

 

3) Gli USA. Un’economia stagnante e sommersa dai debiti. Falsità dei dati sulla disoccupazione.

L’andamento dell’economia USA, è stato sottolineato in precedenza, presenta una dinamica molto contenuta nettamente inferiore sia al periodo 2002-2007 (2,9%) sia al periodo 1994-2004 (3,3%). Questo andamento incerto ed oscillante, è evidente dalla tabella che segue che prende in considerazione gli ultimi 13 trimestri dell’economia americana per i quali si hanno dati definitivi.

Tabella n. 5122

Crescita PIL USA negli ultimi 13 trimestri 

Trimestri

Anno 2012

Anno 2013

Anno 2014

Anno 2015

I trim.

-

1,9%

-0,9%

0,6%

II trim.

-

1,1%

4,6%

3,9%

III trim.

0,5%

3%

4,3%

2,1%

IV trim.

0,1%

3,8%

2,1%

-

 

Come si vede l’economia USA potrebbe crescere ad un tasso pari al 5% l’anno (sfiorato in alcuni trimestri) ma la media del triennio 2012/14 (di recente corretta in lieve ribasso) è del 2%, esiste dunque una enorme capacità di sviluppo potenziale che rimane inutilizzata (cosa già rilevata negli anni passati). Sono inoltre in arrivo le previsioni per il IV trimestre del 2015 che non sono rosee: “Infatti è pur vero che l’America sta rallentando. Dopo la caduta dell’ISM manifatturiero (sotto 50 zona di contrazione), dopo la forte flessione di quello dei servizi (…) dopo il deludente andamento delle vendite al consumo e l’ampliarsi del disavanzo commerciale, l’economia USA potrebbe crescere nel IV trimestre appena dell’1,5%, come stima la Fed di Atalanta: così il 2015 si chiuderebbe con un progresso di circa il 2%, il più basso dopo la grande recessione del 2008-­2009123”. 

Si teme addirittura una nuova recessione nel 2016 poiché: “L’analisi di Citi, più che poggiare sui dati macroeconomici, parte proprio dalla sostenibilità dei margini reddituali delle società americane. Gli analisti notano come questi margini abbiano toccato il picco storico 15 mesi fa e da allora siano in continuo declino, affaticati da modeste crescite salariali, da una globale deflazione e dalla mancata crescita della produttività. Noi aggiungiamo anche dal forte rialzo del dollaro124”.

Riolfi nota, altresì, che per ironia della sorte la Fed si appresta a metà dicembre 2015 ad alzare (sia pure di poco) il tasso di sconto (cosa poi avvenuta) questo mentre l’inflazione è ancora molto bassa, l’economia è poco dinamica, il debito privato e pubblico è elevatissimo e l’incremento del costo del danaro porterebbe all’apprezzamento del dollaro colpendo le esportazioni125; l’aumento del costo del danaro, inoltre, potrebbe causare l’aumento del costo del debito sia pubblico che privato, danneggiando sia i consumi privati che il bilancio statale nonché il bilancio degli enti pubblici diversi dallo Stato, assai spesso in difficoltà negli ultimi anni126.

Quanto al lavoro ed ai livelli di disoccupazione non posso che confermare quanto ho detto in precedenza sulle falsità delle statistiche USA, qui mi limiterò ad aggiungere che a settembre 2015 la disoccupazione cala al 5,2% dal 5,4% di agosto ma si creano appena 142 mila posti di lavoro, meno della media dei 68 mesi che vanno dal marzo 2010 all’ottobre 2015, e pochi per i bisogni di un’economia come quella americana, il calo però della disoccupazione è dovuto al fatto che scompaiono dalle statistiche 300 mila disoccupati americani perché scoraggiati, anche qui i disoccupati si riducono non perché siano riassorbiti ma perché gettano la spugna e scappano dal mercato del lavoro. Ancora una volta ci troviamo davanti ad esercizi statistici che vanno bene soltanto per gli struzzi professionali che si accontentano di simili finzioni; non a caso l’anno scorso il sig. Rubin, a suo tempo Ministro del tesoro di Clinton, ha dichiarato al “Corriere della sera” che a quelle statistiche in America non crede veramente nessuno 127 .

La situazione occupazionale è resa ancor più pesante dall’estendersi del lavoro parziario che riduce drasticamente la settimana lavorativa media USA a poco più di 34 ore, a fine 2015 siamo a 34,5 ore 128 : ciò si spiega col fatto che la durata della settimana lavorativa è data dalla media di chi lavora fino a 44 ore settimanali (il vecchio limite stabilite nel 1938) e chi lavora 15, 20, 24 ore settimanali. Alla fine degli anni ’70, quando il lavoro parziario era molto meno esteso, la durata media della settimana lavorativa era nettamente superiore: 1968: 40,7 ore, 1975: 39,4 ore, 1977: 40,3 ore, 1978: 40,7 ore 129 , questo significa che rispetto alla fine degli anni ’70, anni di crisi sul mercato del lavoro, la durata media si è ridotta di un buon 15% il che significa altresì che la forza lavoro USA è sottoutilizzata per un 15% circa che diventa un 22% circa se consideriamo la possibilità di occupazione oraria massima; anche questo è un fenomeno che nasconde una disoccupazione sostanziale della forza lavoro.

Questa debolezza sul mercato del lavoro si ripercuote nella debolezza dei salari, gli operai USA hanno perso dopo dal 2000 15 punti di partecipazione al PIL 130 e la situazione attuale non può certo favorire una ripresa dei salari data la disoccupazione reale che è molto più elevata di quanto dicano le statistiche.

Il guaio è che non è solo la classe operaia ad impoverirsi ma anche la classe media, scrive in proposito Myra Longo: “Questo recentissimo allargamento della forbice sociale che era ai massimi dal dopoguerra è frutto dell’intervento pubblico nell’economia. Dato che i soldi stampati dalla Fed sono finiti sui mercati finanziari e quelli del governo sono andati in buona parte in soccorso alle banche, è ovvio che la prima beneficiaria della ripresa sia stata Wall Street: dall’inizio del “quantitative easing” ha guadagnato il 144%. Ed è ovvio che a godere di questo rally di borsa sia stato chi in borsa ha grandi capitali: cioè i più ricchi. Quello che appare meno ovvio è che la maggior parte delle tasse (servite allo Stato per salvare ad esempio le banche) non vengano pagate dai super ricchi ma dalla classe media, come più volte ha segnalato Warren Buffet. Era il 2011 quando il finanziere denunciò che i ricchi come lui pagavano tasse pari al 17% mentre per i redditi medi l’aliquota era del 33%. Di fatto i più poveri hanno sostenuto i redditi dei benestanti 131 ”. Questo sulle colonne del giornale della Confindustria e sorge il sospetto che da quelle parti si legga di nascosto Marx, che è morto solo per gli struzzi. Al consuntivo per i poveri (operai e classe media impoverita) tasse pesanti e salari che crescono del 2-3% l’anno, (mentre i repubblicani si oppongono con successo all’aumento dei salari minimi proposto da Obama) 132 , per i ricchi tasse basse e redditi in crescita del 144% dopo il salvataggio pagato dai poveri.

Ingiustizie enormi certo, ma anche una crescente forbice tra capacità di investimento (potenzialmente enormi) e capacità di consumo stagnanti ed inadeguate. La forbice che turbava i sogni di Keynes e che spinge l’economia americana e mondiale verso una stagnazione di lungo periodo senza nessuna possibilità di soluzione.

 

4) Cina. Addio senza ritorno ai miracoli.

Ho già accennato al fatto che per la Cina una crescita del 7% è l’equivalente di una recessione tecnica, ed il piano quinquennale 2016-2020 fissa l’obiettivo al 6,5% 133 , ma ci sono analisti che parlano ormai di un 5% e qualcuno abbassa ulteriormente le stime per un prossimo futuro. I miracoli sono finiti, irreversibilmente e tutti i nodi vengono al pettine. Parallelamente l’indice PMI che misura la crescita di un paese nei settori dell’industria e dei servizi, si è collocato negli ultimi anni sotto il livello di 50 che segna lo spartiacque tra sviluppo e contrazione 134 , ciò che è avvenuto anche nel corso del 2015 varie volte.

Il problema della Cina in realtà è molto semplice: il modello export led , che ha permesso l’espansione a due cifre negli anni passati, non tira più per il ristagno del mercato mondiale ed allora bisognerebbe puntare sull’espansione dei consumi interni che sono relativamente depressi; la Cina negli ultimi anni ha visto i consumi delle famiglie ancorati al 35% del PIL contro il 69-70% degli USA, il 60% dell’India ed il 46,3% della stessa Cina ma nel 2002 135 . Ora, però, per realizzare un’espansione rapida dei consumi interni che compensi i vuoti aperti dal mercato mondiale, occorrerebbero varie condizioni che in Cina mancano. Per far crescere i salari operai e i redditi dei contadini (presupposto indispensabile per una crescita stabile dei consumi) occorrerebbero le libertà sindacali (incompatibili con un regime autoritario come quello cinese), degli elevati livelli di produttività che in Cina mancano (in media almeno) ed un mercato del lavoro in cui non sia privilegiato il datore di lavoro ed anche questo manca del tutto, non tanto per i livelli ufficiali di disoccupazione (attorno al 4% o poco più) 136 , ma per l’enorme sottoccupazione soprattutto agricola che fornisce ai capitalisti una massa enorme di potenziali operai disposti a lavorare per salari da fame. Si tratta di cose che , come ho evidenziato nei miei precedenti articoli, non sono mutate negli ultimi anni e la dirigenza cinese non sa come affrontare e risolvere il problema; cerca disperatamente di acquisire la tecnologia occidentale che permetterebbe di produrre di più con meno addetti creando in un paese come la Cina, a bassa produttività e con un’enorme popolazione, una massa sconfinata di “esuberi”. Ancora: nel nuovo piano quinquennale il governo promette l’estensione dell’assistenza gratuita a 650 milioni di cinesi, ma solo per le malattie più gravi 137 . Questo significa che delle spese che oggi sono a carico dei cittadini cinesi graverebbero sullo Stato e quindi si renderebbero disponibili più risorse per i consumi privati. Troppo poco e troppo tardi perché i cinesi sono ormai vicini ai 1400 milioni (a parte i 200 milioni nascosti nelle campagne per la vecchia legge sul figlio unico) e 650 milioni non sono nemmeno la metà della popolazione; inoltre la copertura riguarderebbe solo le malattie più gravi, lo Stato cioè interverrebbe solo quando si è a rischio morte o grave invalidità, per le malattie normali e per la prevenzione (che assorbe larga parte della spesa medica) assolutamente nulla.

Inoltre una seria politica di sostegno ai redditi da lavoro urterebbe contro le scelte delle IM straniere, largamente presenti in Cina, dove investono anche per i livelli salariali contenuti e per la mancanza di diritti sindacali e di oneri previdenziali elevati. La strada, dunque, è impervia e in salita per il governo cinese che procede a tentoni in modo confuso e contraddittorio: tra l’11 e il 13 agosto 2015 vengono operate tre mini svalutazioni dello yuan 138 al fine di sostenere le esportazioni. Il fatto è però che le svalutazioni colpiscono il potere d’acquisto interno e deprimono il consumo, il contrario di quello che il governo dice di voler realizzare. Le misure, tuttavia, hanno avuto un effetto perverso e contraddittorio rispetto ai fini che si vorrebbero perseguire: a settembre 2015 le importazioni, rese più costose, calano del 17,7% ma le esportazioni calano anch’esse sia pure dell’1,1%; ad ottobre le importazioni calano del 18% e le esportazioni del 6,9% 139 . In sostanza la decisione del governo cinese ha fatto male agli altri paesi (che vendono di meno sul mercato cinese) senza ottenere risultati positivi per l’economia cinese. La cosa non è inspiegabile, se svaluti in una fase di ristagno del mercato mondiale non è detto che riesci ad esportare di più, se i consumatori a livello mondiale hanno sempre meno da spendere il calo dei prezzi cinesi del 3­5% può non essere molto appetibile. Anche qui il problema è sempre lo stesso per aumentare strutturalmente i consumi a livello mondiale si deve aumentare il numero ed il peso delle buste paga, ciò che non sta avvenendo (al contrario).

Non solo ma la svalutazione ha prodotto anche panico e crisi borsistiche: molti risparmiatori hanno perso tutto o in parte i risparmi di una vita: la Tv manda in onda nell’agosto del 2015 le immagini di persone anziane che seguono i corsi delle azioni e si coprono il viso con le mani. Non è per questa via che si rilanciano i consumi e neanche con una riduzione col tasso di sconto, cosa che la Banca di emissione cinese ha fatto per ben 6 volte negli ultimi tempi. La riprova è nella politica del BCE e della Fed che hanno quasi azzerato il costo del denaro (nel 2008 era al 3,5% in USA e nel 2009 al 3,75%a nell’Eurozona) con risultati assai poco brillanti e certo non risolutivi come abbiamo visto; ancora una volta per far crescere i consumi devi aumentare numero e peso delle buste paga, il resto può avere un’incidenza solo accessoria.

Sempre in campo monetario la Cina ha avuto un successo di prestigio: il FMI ammetterà lo yuan tra le monete di riserva assieme a dollaro, euro, sterlina e yen, ciò dagli ultimi mesi del 2016. Questa vittoria, però, ha un suo costo salato: entro il 2020 lo yuan dovrà diventare pienamente convertibile soggetto al mercato e non solo alle decisioni della Banca Popolare cinese che non potrà più manovrarlo politicamente, il governo dunque perderà il controllo (almeno in parte) di uno dei pilastri fondamentali della propria politica economica e monetaria. In sintesi la politica del governo cinese appare oscillante ed inadeguata ad affrontare i nodi strutturali di un’economia che, ormai, anche esteriormente non ha più nulla di miracoloso.

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