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scenari

Vita quotidiana. Tra Freud e Heidegger

Enrica Lisciani-Petrini

Sigmund Freuds daughter Anna 1920.1 e1456402393657 1160x4801. Se c’è un aspetto sul quale val la pena di focalizzare l’attenzione – se si guarda, anche con uno sguardo di sorvolo, al quadrante storico che va da Baudelaire fino ai giorni nostri – è la pervasiva e crescente irruzione della vita quotidiana a tutti i livelli. Dall’arte (cinema, fotografia, letteratura, pittura, come anche nella musica) fino agli altri ambiti della realtà, emerge – con l’avvento soprattutto della vita metropolitana – una visione delle cose che si separa dalle forme spirituali, perfette, armoniose, dalle figure eroiche del passato, per lasciare il posto alle forme informi della vita anonima e brulicante, refrattaria ad ogni qualifica, del quotidiano. Sì che alla figura dell’eroe (ovvero dell’eroina) subentra quella dell’uomo qualunque, del “chiunque” anonimo, insomma dell’«uomo senza qualità» per dirla con la celeberrima espressione di Musil. Il che smantella quella nozione di soggetto che trova nel personaggio dell’eroe, effigiato in una luminosa aureola identitaria, quale soggetto incomparabile, individualmente unico e insostituibile, il suo emblema principe. Non a caso, del resto, il processo di progressiva, per dir così, “quotidianizzazione” del reale va di pari passo proprio con quella radicale dissoluzione della categoria di soggetto che ha attraversato, come ben si sa, l’intero Novecento.

Solo che – ecco il punto che in questa sede vorrei sviluppare – l’irruzione della vita quotidiana conferisce a quella dissoluzione una connotazione molto significativa. E cioè, dimostra che il soggetto è letteralmente afferrato dentro delle dinamiche impersonali – di cui la vita quotidiana è il luogo per eccellenza – da cui esso non può mai separarsi, né pretendere di governare, ma da cui anzi è letteralmente governato. La vita quotidiana rompe, dunque, quella visione che profila l’uomo come un “essere personale” o un “soggetto spirituale” centrato sulla propria autocoscienza razionale e ben perimetrato dentro la propria autonoma individualità, ovvero smantella esattamente quel conio personalista dentro il quale il soggetto moderno si è forgiato per secoli. Un conio che peraltro implica anche un certo rapporto mente-corpo, che viene anch’esso radicalmente messo in questione. Insomma la vita quotidiana svela – come diceva Blanchot – qualcosa che «fa paura» e che perciò è sempre stato “saltato” dalla riflessione concettuale: il lato anonimo, impersonale, di ciascun individuo, di ciascuno di noi.

Tutto questo è stato colto con uno sguardo assolutamente folgorante e profetico da due autori come Freud e Heidegger. Nel senso che sono stati i primi a intuire la portata dirompente della vita quotidiana sul dispositivo del soggetto personale. Ed è bene, dunque, rivolgersi a loro per capire che cosa è in gioco.

 

2. In vista di questa perlustrazione di alcuni “luoghi” di Freud e Heidegger, e proprio per vedere in modo nettamente profilato la diversa prospettiva che essi ci dischiudono, è bene prima ripercorrere, sia pure molto sinteticamente, i tratti specifici della nozione di soggetto-persona. Naturalmente qui mi è impossibile ricostruire in dettaglio il cammino semantico-culturale plurisecolare che ha determinato l’avvento di quella nozione. Mi limiterò a qualche punto, giusto per fissare i capi principali della questione.

Com’è noto, il subjectum, nell’accezione con la quale ancora oggi solitamente lo usiamo e che costituisce la nozione basilare di tutti i discorsi attuali sull’uomo, nasce nel Seicento. Non con Cartesio – come si crede – bensì con Locke in particolare, attraverso una serie di passaggi e interpolazioni semantico-concettuali che trascorrono dalla romanità, lungo il medioevo, fino all’epoca moderna. Prima della modernità – va sottolineato – subjectum aveva tutt’altro significato. Indicava il fondamento, il sostrato (lo hypokeimenon) di qualcosa (più o meno nel senso in cui noi oggi, per esempio, diciamo «il soggetto di quel romanzo è…»). Orbene, Locke conduce una straordinaria operazione. Congiunge il principio ontologico medievale secondo il quale «actiones sunt suppositorum» – ossia: ogni azione deve avere il proprio supposto (fondamento/hypostasis), ovvero il proprio “soggetto” – con la nozione di “persona”, che, come si sa, fa il suo ingresso in filosofia tramite Boezio. Giacché il termine “persona” nell’età patristica era a sua volta sinonimo di hypostasis (fondamento). E poiché la persona è «sostanza individua» (come dice appunto Boezio), ecco come la nozione di persona conferisce al «soggetto agente» – fondamento delle proprie azioni – quella «unità» che ne fa il centro unico e individuale di tutti gli atti e di tutte le operazioni. Ma non basta. Locke plasma ulteriormente la nozione di soggetto tramite l’attributo della «coscienza». In quanto dotato di coscienza, il soggetto – Locke scrive – «ricorda al “sé” i pensieri e gli atti compiuti». In tal modo egli «ne diventa responsabile» e pertanto imputabile. Ecco come nasce il «soggetto agente personale» moderno – cardine di ogni umanesimo. Soggetto centrato sulla propria coscienza razionale e perimetrato nella propria invalicabile individualità.

Ma veniamo ora al punto nevralgico di tutta la questione. Com’è evidente, il «soggetto agente personale» si costituisce solo in quanto in esso si produce una spaccatura fra una parte di sé che slitta verso l’alto e guarda, «imputa» a sé stesso, gli atti compiuti da se-stesso, da una prospettiva per definizione “sovrana” (è la parte che, con un lessico più aggiornato, potremmo definire «la mente»); e un’altra parte di sé, che invece scivola verso il basso diventando la parte inferiore, dominata e dunque letteralmente “assoggettata” (il corpo). La prima – “persona” a tutti gli effetti. La seconda – propriamente “impersonale”. La principale e vistosa conseguenza di una simile dinamica è il definitivo impiantarsi di uno schema secondo il quale l’uomo, da una parte, è un’entità inconfondibilmente dotata di spirito razionale e dunque in stato di costitutiva trascendenza. Dall’altra egli ha sì un sostrato corporeo-biologico, che lo accomunerebbe agli animali e agli altri organismi viventi; ma tale sostrato, in virtù della «libera volontà sovrana», può esser “governato”, ovvero assoggettato e forgiato in modo da sottomettere – o meglio estromettere – l’originaria falda istintuale (impersonale) e farla diventare la manifestazione esteriore dell’interiore presenza della ragione personale (come tante volte si dice, sul volto di una persona appare il suo “spirito”).

Si tratta di un processo di lungo corso che, come si sa, arriva fino al «personalismo» novecentesco, come specifica corrente di pensiero che riannoda tutte le fila del discorso relativo al soggetto personale moderno, lungo una traiettoria che ancora oggi viene articolata da diversi teorici importanti. Dove lo snodo determinante è sempre lo stesso: l’instaurazione di una costitutiva trascendenza della ragione, della dimensione per dir così spirituale o mentale, e dunque personale, rispetto alla naturalezza empirica e impersonale del corpo. Il che si riverbera sull’intera visione generale delle cose, divisa fra un piano trascendente (superiore e “spirituale”) e uno immanente (inferiore e “materiale”) determinando una serie di conseguenze. Infatti – tanto per dirne una – è del tutto evidente che una società fondata sul principio dell’«individualità personale» non potrà che potenziare sempre più il mito dell’individuo, della persona – con tutte le degenerazioni e le aporie che ne seguono e che sono sotto i nostri stessi occhi. A partire da quell’accentuato individualismo o personalismo, che sembra essere ormai la caratteristica antropologica oggi dominante.

Ebbene, come dicevo all’inizio, l’insufficienza e le aporie interne della nozione di persona sono state colte innanzitutto da Freud e Heidegger, i quali hanno il merito di avere per primi individuato il risvolto impersonale della persona. E proprio attraverso una esplicita tematizzazione della vita quotidiana.

 

3. Partiamo dunque da Freud, che è stato senz’altro il primo, in senso assoluto, a intuire e concettualizzare la portata dirompente della vita quotidiana e della potenza impersonale in essa contenuta. Non per caso a lui si deve un testo – per non dire “il” testo – emblematico a riguardo: Psicopatologia della vita quotidiana (significativamente denominato, all’inizio, solo La vita quotidiana dallo psicoanalista, nelle lettere a Fliess e collaboratori) pubblicata esattamente all’inizio del Novecento. In quest’opera – come del resto nell’Interpretazione dei sogni – Freud, infatti, si occupa dei fenomeni che si «verificano nelle persone sane» e nelle condizioni di vita «normali». In breve nella vita quotidiana. A chiunque capita quotidianamente non solo di sognare, ma anche di dimenticare le chiavi o qualcosa in genere, di non ricordare un nome e veder apparire al suo posto una parola bizzarra, strattonare un oggetto e farlo cadere etc. È con questo materiale «proveniente da una persona normale e carico di molteplici riferimenti della vita quotidiana» (Interpretazione dei sogni, 106) che Freud elabora il proprio discorso. Dunque: l’analista porta sotto i riflettori non la follia, non la malattia conclamata, non l’eccezionalità o la straordinarietà, ma l’assoluta normalità, la mera ordinarietà, persino la banalità. Cosa che fin lì quasi nessuno aveva mai fatto.

Ma perché Freud mette sotto la lente d’ingrandimento la vita quotidiana più banale? Perché intuisce che proprio in essa è contenuto qualcosa che fa problema, che «perturba» e dev’essere portato alla luce. «Tutta una serie di fenomeni della vita quotidiana di persone sane – le dimenticanze, i lapsus verbali, le sbadataggini, una certa categoria di errori», scrive Freud, «debbono la loro insorgenza ad un meccanismo psichico» per il quale – facciamo attenzione a quanto ora viene detto – «alla fine giungo a pensieri che mi sorprendono, che non ho conosciuto in me, che non soltanto mi sono estranei, ma anche spiacevoli […]. Abbiamo avuto l’impressione che la formazione [di tali pensieri] si svolgesse come se una persona, che dipende da una seconda, avesse da dire qualcosa che deve riuscire spiacevole a quest’ultima» (Il sogno, 36-37; 41; l’ultimo corsivo è mio). Insomma, quando ci succede qualcosa di irrazionale, come dimenticare il gas acceso o le chiavi, fare una gaffe, strattonare un oggetto e farlo cadere etc., è come se un’altra persona – che abita dentro di noi, ma che noi non conosciamo – volesse dirci qualcosa di spiacevole, qualcosa che non vogliamo sapere, che rimuoviamo e che tuttavia ci determina nei nostri comportamenti senza che ce ne rendiamo conto. Si tratta di un meccanismo per il quale ci accorgiamo dunque che la nostra persona è alla lettera una maschera – “persona”, appunto, secondo l’etimologia greca  –, sotto la quale si nascondono altre figure (o maschere), dentro le quali la nostra individualità soggettiva si scompone e si frantuma, rompendo il perimetro della persona identitaria e univoca che crediamo o pretendiamo di essere e facendola slittare verso una dimensione propriamente impersonale.

Lo stesso avviene nelle turbe della memoria relativa ai «nomi propri», che portano allo scoperto un vertiginoso scambio di ruoli da cui può essere afferrata e decentrata una (la) persona. Nel capitolo, sempre nella Psicopatologia, intitolato Dimenticanza di nomi propri, Freud narra in prima persona e analizza un’amnesia occorsagli, per la quale, al posto del nome da ricordare, gli spuntano sulla bocca «nomi sostitutivi» volti in realtà a coprire la dimenticanza intenzionale di qualcosa che lo «perturba» e che rinvia ai complessi di «altre persone». Insomma, l’intera Psicopatologia ci mette sotto gli occhi una “dinamica espropriativa” che dissolve continuamente l’identità personale in un gioco di rifrazioni speculari inafferrabile e impersonale. E che viene allo scoperto inaspettatamente – ecco il punto che ci interessa – solo nelle particolari insensatezze della vita quotidiana. Sicché nel momento in cui il soggetto dimentica un certo nome e lo sostituisce con un altro che lo riecheggia in modo deformato, egli si accorge che queste «persone estranee» e ciò che le riguarda si sono come “impossessate” di lui espropriandolo da sé e creando delle «interferenze ignote» e una sorta di «contro-volontà» (Psicopatologia della vita quotidiana, 188). Col risultato non poco sconcertante di vedersi o accorgersi di essere come rifratti in due identità, diverse ma inscindibili, che spezzano la presunta identità originaria: quella «intenzionale» e quella «involontaria»; una propria e l’altra «straniera»; una familiare e l’altra estranea, strana; l’una governata e l’altra prepotentemente refrattaria ad ogni controllo ed anzi tale da insinuarsi e determinare i gesti e le parole. Lo scienziato stesso commenta in termini inequivocabili: «una potenza psichica ignota […] deruba della disponibilità dei nomi propri pertinenti alla […] memoria» (Psicopatologia della vita quotidiana, 75; corsivo mio).

Il rilievo è dirompente. Ma il punto decisivo è che, come dicevo, tutto questo sta dentro la vita quotidiana ed emerge da essa come da strappi che inaspettatamente si aprono e ci permettono di penetrare con lo sguardo nella tessitura del suo normale e silenzioso scorrimento, facendoci vedere il lato pre-personale – o impersonale – che sfonda la nostra persona, il nostro «Io», facendolo come fuoriuscire da sé e immettendolo in altri «Io». E dunque rivelandoci che – normalmente, e non eccezionalmente – noi siamo come “doppiati” da una dimensione, da un rovescio vivente impersonale, a cui aderiamo senza potercene separare con un atto di trascendenza coscienziale (secondo quella impostazione soggettivistica e sovrana di cui dicevo prima). Si tratta della dimensione anonima e indistinta del vivere di tutti i giorni in cui siamo sempre immersi, che non solo sta prima e al di qua delle singole persone, ma opera dentro la persona stessa che pensiamo di essere, che “ci” vive, senza che ce ne possiamo mai veramente appropriare, come una forza occulta, qualcosa di «ignoto», «di riposto” (Psicopatologia della vita quotidiana, 262, 278), che abita dentro di noi e a cui non possiamo sottrarci. Il che destruttura e confonde i normali confini separanti e individualizzanti, ossia personali. Perché quella dimensione costituisce la zona di pensiero diffuso di cui nessuno è propriamente detentore e continuamente circolante, a cui passivamente ci rifacciamo in infiniti e molteplici gesti, e soprattutto in una continua trasmigrazione di identità, per cui tutti ci rispecchiamo gli uni negli altri e di continuo assorbiamo, introiettandoli e facendoli nostri, pensieri, convinzioni, gesti, dei molteplici altri che ci circondano.

Ecco, allora, quanto Freud porta in primo piano: un’aderenza non separabile della nostra personale identità ad un flusso anonimo, impersonale e inappropriabile, che scompone il profilo unitario e compatto del «soggettopersona», e ci sottrae alla chiusura dentro un perimetro identitario che si crede convinto di costituire un soggetto autonomo e unico, totalmente “appropriato” a se stesso e dunque sovranamente libero delle proprie azioni. Ed è questo “meccanismo chiasmatico fra personale e impersonale” – da cui la persona, che si mascheri o no a se stessa, che ne sia o no consapevole, è sempre dominata ed espropriata – il «perturbante», il «non familiare», contenuto nella vita quotidiana, ossia nel più «familiare»: ciò che in essa, quando improvvisamente si rivela, ci sgomenta.

La scoperta è, come dicevo, dirompente – per quella che era stata fin lì (ed è tuttora per molti versi) l’autorappresentazione dell’uomo. In tal senso il discorso di Freud è un battistrada irrinunciabile nel cammino verso il rovesciamento del rapporto persona/impersonale e la individuazione di una diversa idea di soggettività. Ma questo cammino trova un’ulteriore tappa – fondamentale per la filosofia – in Heidegger.

 

4. Infatti, una cosa va detta subito e senza mezzi termini: è con Heidegger che la vita quotidiana fa il suo ingresso ufficiale nella riflessione filosofica, in tutta la sua portata decostruttiva del soggetto personale. I testi ai quali occorre riferirsi sono, in particolare, quelli connessi ai primi corsi a Friburgo degli anni 1919-1923, in particolare Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele e Ontologia. Ermeneutica della fatticità.

Nei due corsi in questione intanto è Heidegger stesso che dice di voler imprimere alla propria indagine una svolta «in senso radicale» proprio attraverso l’analisi della «vita fattizia» (das fatktische Leben), ossia la vita quale di fatto è e la viviamo «tutti i giorni» (alltäglich). E fissa un punto cardine decisivo: non vi è una realtà diversa da quella in cui si consuma la vita di tutti e di ciascuno, non si dà una dimensione esterna e trascendente, e neppure trascendentale, rispetto a quell’ambito, «fondamentale» e unico, che è l’«esserci effettivo». È soltanto dentro questo che si determinano gli incontri «oggettivi» con le cose o gli animali o gli altri, nonché l’istituzione soggettiva della categoria «Io» (Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, 126-7). Infatti, prima e al di qua di qualsiasi «condizione “soggettiva”» c’è la vita fattizia – con la sua intrinseca «motilità», con la sua singolare «inquietudine». Una inquietudine che si esplica innanzitutto come una «inclinazione» a cadere nell’ordinario «aver-cura» dei propositi mondani (Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, 150-1 e sgg.), fra i quali sono compresi tanto i progetti culturali quanto la dispersione spensierata. Ed è tale inclinazione che trova il suo terreno di dispiegamento nella quotidianità vera e propria: «Una determinazione dell’esser di-volta-involta è l’Oggi, il permanere di volta in volta nel presente, quello di volta in volta proprio (l’Esserci come storico, il suo presente. L’esser-nel-mondo, essere vissuto dal mondo; presente-quotidianità)» (Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, 36). Dove l’Oggi quindi – lungi dall’essere una modalità difettiva o spregiativa – è il «Come», un modo d’esserci costitutivo della vita effettiva stessa (Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, 26), già da sempre aderente al proprio scorrimento giornaliero, rimessa alla sequenza dei giorni, distesa nel di-volta-in-volta presente di una giornata. Dal quale, dunque, l’Esserci non solo non si può separare, ma dal quale addirittura «è vissuto» (Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, 37) e di cui non si può mai appropriare.

Ma questo che cosa comporta? Che è impossibile staccare da sé la vita effettiva per renderla l’«oggetto» esterno di un «soggetto» sovrano. Scrive Heidegger: «L’esistenza non è mai “oggetto”» (Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, 27). Ma questo fa cadere automaticamente anche il soggetto. Dice infatti Heidegger in modo del tutto esplicito: la «effettività […] non include nessuna idea di “io”, persona, io-polo, centro dell’atto» (Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, 35-6). Proprio perché «la persona» in particolare – specifica il filosofo con l’acribia storico-filologica che lo contraddistingue –, originata nella concezione vetero-testamentaria, è intesa dalla tradizione cristiana come quell’essere «factus ad imaginem et similitudinem Dei» che ne ripete i tratti essenziali del «liberum arbitrium intellectualis» e della «potestas» (ovvero del possesso di se stesso) e che dunque separa drasticamente l’esserci dalla sua effettività assoggettandola. Laddove quest’ultima è, esattamente al contrario, ciò che si sottrae a qualsiasi “potestà” soggettiva e personale. Dunque è propriamente “impersonale”.

Comunque, questo è solo l’esordio del discorso di Heidegger. Ben altro affondo teorico si dispiega in Essere e Tempo.

E difatti la prima cosa che balza agli occhi è che, nella I Parte di Essere e Tempo, là dove si tratta della definizione esistenziale del Dasein, la quotidianità viene subito presentata come il solo orizzonte attraverso cui si può accedere alla realtà dell’Esserci – poiché l’Esserci «di fatto [faktischnon ha altra dimensione che quella quotidiana. Questa impostazione, come già nei corsi friburghesi, implica immediatamente una netta presa di distanza nei confronti di qualsivoglia idea di «Io» o «soggetto» o «persona» come basamento pensante e autocostituente di ogni approccio al mondo. Non c’è prima di tutto un “soggetto” che istituisce il rapporto col mondo  e pone il mondo o la vita come “oggetti” esterni a sé. Prima di tutto c’è la vita effettiva (o quotidiana) che li coinvolge entrambi. Difatti, solo a partire dal commercio, innanzitutto quotidiano, con le cose e gli altri, ovvero solo perché «disperso» nel suo fuori non personale (o impersonale), l’Esserci può ripiegarsi su di sé e comprendersi. Sia in rapporto con le cose, sia in rapporto con gli altri.

Per quanto riguarda il rapporto con le cose: l’Esserci è, innanzitutto, già da sempre operante – in modo pre-tematico, ossia non concettualizzato – con le cose, assunte per la loro utilizzabilità (Zuhandenheit: esser alla mano). Il che significa che l’Esserci «innanzitutto e per lo più non è se stesso» (Essere e Tempo, 146), non è colto e non può cogliersi, appunto, come un soggetto autonomo e autocosciente. È quanto emergeva prima anche a proposito di Freud. Innanzitutto e per lo più, noi viviamo inseriti in un flusso di relazioni che ci precede e ci sopravanza. E se questo effetto potentemente decostruttivo e spersonalizzante già viene in luce nell’analisi dell’«utilizzabile a portata di mano», tanto più si fa evidente nel rapporto con «gli altri». Questo rapporto rompe l’involucro soggettivo dell’identità personale rivelando che «non c’“è”, né è mai dato innanzitutto un soggetto senza mondo», ovvero «un io isolato» (Essere e Tempo, 147) e che ciascuno di noi è innanzitutto e da sempre disperso – impersonalmente – in un esser-con-gli-altri, in un «con-esserci», da cui neppure si distingue (cfr. Essere e Tempo, 149, 158) .

Ebbene dice Heidegger, proprio questo nostro «esserci», irretito potremmo dire nelle cose e negli altri, «è un esistenziale ed appartiene, come fenomeno originario, alla costituzione positiva dell’Esserci» (Essere e Tempo, 161). È qui il punto nevralgico. L’universo del «Si» quotidiano – pur traducendo continuamente il qualcuno nel nessuno, pur rovesciando inestricabilmente il personale nell’impersonale, e benché in questo senso possa essere dichiarato «inautentico», come dice Heidegger, proprio perché livella e spegne ogni originalità personale – non è un «nulla». Anzi, è la modalità più concreta di esistenza. Ma allora, è qui che autentico e inautentico, proprio e improprio, vita quotidiana e vita appropriata a se stessa o qualificata, perdono la loro connotazione univocamente contrapposta e – come già era apparso nei corsi degli anni Venti – si rivelano in un intreccio speculare che li rende l’uno il rovescio dell’altro. Infatti si potrebbe dire – come del resto Heidegger fa – che non solo «inautentico» non significa affatto che l’Esserci perde il proprio essere «autentico» quasi che l’uno sia esclusivo dell’altro, ma che, al contrario, sono talmente l’uno inclusivo dell’altro che l’unica forma di autenticità per l’Esserci è di scoprirsi irrimediabilmente inautentico, ovvero quotidiano. Detto altrimenti – senza tornare sulla discussa distinzione lessicale tra «proprio» e «autentico», entrambi adottati per tradurre eigentlich, ma non del tutto sovrapponibili ed anzi il primo più efficace del secondo – il “proprio” della quotidianità non solo è l’“improprio”, ma è tale da rovesciare in forme di “improprietà” (= inautenticità) ogni tentativo di “autentico” accesso ad essa.

L’esito è radicale: la quotidianità avvolge l’intera dimensione dell’Esserci. Talché – ecco la conclusione lapidaria e decisiva di queste straordinarie pagine heideggeriane – la stessa «esistenza autentica non è qualcosa che si libri al di sopra della quotidianità deiettiva; esistenzialmente, essa [l’esistenza autentica] è solo un afferramento modificato di questa» (Essere e Tempo, 219; corsivo mio).

Certo, va detto che nella Seconda Sezione della Prima Parte di Essere e Tempo, quella sulla quale l’opera, come si sa, si chiude, il discorso sulla quotidianità viene ripreso e lentamente fatto rotare nel senso di un suo superamento. Anche attraverso una riconsiderazione del tempo tutta volta ormai a piegare la «Zeitigung inautentica» alla fondazione della storicità autentica. Ciò che inevitabilmente ricostituisce il quadro categoriale attinente al «principio di soggettività» – da Heidegger così potentemente smantellato. Infatti in questa Seconda Parte il filosofo ripropone – secondo un gesto del tutto tradizionale – l’auto-trascendimento della quotidianità attraverso la comprensione di sé come «totalità strutturale unitaria» prodotta dalla morte. La morte è vista ora come la «possibilità più propria dell’Esserci» (Essere e Tempo, 314), ovvero come ciò che perimetra la vita rendendola un «tutto» in sé conchiuso, invalicabile, s-tagliandolo sulla e separandola dalla dispersione e dall’impersonalità quotidiana. E non a caso da questo lato rientrano anche, nel discorso heideggeriano, il lessico dell’eroismo e della «decisione» condensato nella figura dell’eroe. Difatti, in quelle pagine finali leggiamo: «Solo l’essere libero per la morte offre all’esserci il proprio fine puro e semplice […] e porta l’Esserci al cospetto della semplicità del suo destino» (Essere e Tempo, 452) – come fanno appunto gli eroi (Essere e Tempo, 454).

Come si vede, si tratta di un netto mutamento di registro lessicale e concettuale che conduce a quel «gergo dell’autenticità» denunciato da Adorno e che peraltro condurrà Heidegger a scelte – come ben sappiamo – nefaste. In questo modo l’enigma della vita quotidiana – analizzata da Heidegger per almeno un decennio con una ricchezza insuperata – può dirsi risolto e insieme dissolto. Il quotidiano cede il passo ad altri motivi che ne costituiscono la sublimazione e al contempo l’abbandono. Come del resto tutta la produzione successiva di Heidegger ampiamente confermerà (si pensi al discorso ieratico sulla cosa, sulla brocca etc.) – determinando il congedo dal tema che egli, per primo, aveva portato al cospetto della filosofia.

Cionondimeno la portata radicale delle analisi heideggeriane – e prim’ancora freudiane – ci spinge a proseguire lungo la strada dai due autori aperta e a cercare di pensare – se è vero, come dice Deleuze, che la filosofia è creazione di concetti – ad un altro concetto di soggetto. Non più personale, ma, come io ho provato a chiamarlo, «impersonale», ossia tale da riunire in sé le due dimensioni fin qui separate (quella della persona e quella propriamente impersonale). Tale da implicare la consapevolezza che noi siamo sempre immessi in campi di forze che ci eccedono, ci estroflettono da noi stessi aprendo i nostri confini perimetrali personali, facendo di noi stessi «un centro del tutto virtuale» – come diceva Merleau-Ponty – nel quale si coagulano «vortici d’esperienza» che sono del reale – prima di appartenere a noi stessi come persone e soggetti individuali, dotati di una coscienza e di un pensiero autonomi e (presuntivamente) esclusivi – e che coinvolgono persino le cose come «membrature della nostra stessa vita». Del resto, molti fenomeni attuali, ormai, rendono sempre più evidente come la categoria di «soggetto personale» sia inadatta alle complicate dinamiche trasformative del mondo contemporaneo – dall’arte ai flussi sociali, dalla scienza alla politica – a cui siamo continuamente sottoposti, che non padroneggiamo affatto e che ci determinano nei nostri più piccoli gesti. Dinamiche, perciò, sempre più sfuggenti alle tradizionali dicotomie gerarchiche, che distinguono fra mente e corpo, ragione e passione, universale e singolare, “dentro” (ciò che riteniamo essere la nostra “interiorità”, il nostro pensiero individuale ed esclusivo) e “fuori” (ciò che ci sta intorno nell’ambiente esterno). Ciò che ho chiamato “soggetto impersonale” – naturalmente ancora tutto da pensare – vorrebbe essere un tentativo di risposta a questa esigenza.

Tratto da Fenomenologie e visioni del mondo. Tra mente e corpo, a cura di Pio Colonnello, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015

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