L’ordine del discorso filosofico: Bourdieu, Derrida, Foucault
di Pierpaolo Cesaroni
[Questo saggio fa parte del volume collettivo Politiche della filosofia. Istituzioni, soggetti, discorsi, pratiche, curato da Pierpaolo Cesaroni e Sandro Chignola, e appena uscito per DeriveApprodi]
Cosa significa considerare la filosofia nella sua dimensione di discorso, nel senso determinato che Michel Foucault attribuisce al termine? Affrontare questo tema non consente solamente di chiarire il senso del lavoro filosofico svolto da Foucault, ma anche di affrontare più generalmente cosa possa significare oggi fare filosofia e come continuare a farla. Il testo più utile a questo fine è la risposta che Foucault indirizzò al saggio di Jacques Derrida Cogito e storia della follia contenuto in La scrittura e la differenza (1967). La risposta di Foucault ha due versioni, entrambe scritte nel 1972: quella più nota fu pubblicata in appendice della seconda edizione di Storia della follia, con il titolo Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco; una seconda versione, che verosimilmente è stata scritta per prima, fu invece pubblicata, nello stesso anno, nella rivista giapponese Paideia con il titolo Risposta a Derrida[1]; la rilevanza di questo testo consiste nel fatto che si apre con alcune pagine estremamente interessanti eliminate nella redazione successiva.
Per capire cosa significhi concepire la filosofia come discorso e perché ciò consenta di porre in modo nuovo la domanda sul suo statuto, è necessario chiarire preliminarmente rispetto a cosa si misuri questa novità. Per fare questo mi riferirò, in modo alquanto schematico, a due altri pensatori: da un lato Jacques Derrida, obbiettivo polemico principale di Foucault; dall’altro lato Pierre Bourdieu, il quale condivide con Foucault sia un atteggiamento critico nei confronti della filosofia sia l’individuazione di Derrida quale esponente paradigmatico di quest’ultima; i due tuttavia seguono delle strade diverse. Si può essere senz’altro d’accordo con Pierre Macherey, quando afferma che «con Bourdieu, come del resto con Foucault o Derrida, si impara a fare filosofia in modo diverso»[2], ma il punto fondamentale sta proprio nel misurare tutta la distanza che separa nei tre casi questo «modo diverso» di fare filosofia. Non intendo ovviamente seguire tutte le direzioni, nominerò quindi Derrida e Bourdieu in funzione puramente strumentale per far emergere l’originalità della posizione di Foucault.
1. La modalità più immediata e forse più logora di porre la domanda sullo statuto della filosofia, quella che in mille varianti continua a riemergere per tutto il Novecento, è la modalità che si situa ben all’interno del perimetro della filosofia stessa: lo specifico di quest’ultima risiederebbe proprio nella sua capacità di interrogarsi criticamente sulla propria definizione e insieme nell’impossibilità di formulare una risposta definitiva a tale domanda. In altre parole, la specificità di un approccio propriamente filosofico – che lo distinguerebbe generalmente dai “saperi positivi” – sarebbe quello di non dare per scontato il proprio oggetto e il proprio campo, ma di doverlo sempre ripensare da capo, in modo che in tale lavoro di interrogazione e di definizione sarebbe da vedere in fondo la sua occupazione principale. Poiché l’interrogazione filosofica, per essere tale, deve mostrare la propria insaturabilità rispetto a ogni possibile risposta che è stata data nel corso della storia, la domanda sullo statuto della filosofia si accompagna usualmente a una decostruzione o critica dei concetti filosofici sedimentati nella tradizione (per es. come critica della metafisica, dell’ontologia e così via). Il gesto autenticamente filosofico, insomma, sarebbe da riconoscere in quell’attitudine del pensiero che intende rilanciare continuamente l’ulteriorità della filosofia rispetto a ogni sua cristallizzazione, a ogni sua riduzione a un campo determinato, a un oggetto specifico, a un’organizzazione discorsiva e concettuale. Il punto suona ormai da lungo tempo come un frusto luogo comune: se un fisico si chiede «che cos’è la fisica?», si starebbe ponendo una domanda estranea al suo oggetto di studio, mentre un filosofo che si chieda «che cos’è la filosofia?» starebbe facendo proprio il suo lavoro.
Questo tema, che pone filosoficamente la domanda sullo statuto della filosofia e che ritiene anzi di trovare nella necessità di porsela il segno specifico dell’approccio filosofico, il suo contenuto più proprio e la sua destinazione ultima, è molto sfuggente: da un lato sembra che volerlo circoscrivere e riconoscere come dotato di una sua unità conduca inevitabilmente a delle semplificazioni e banalizzazioni, per la multiforme varietà dei contesti di pensiero in cui appare; dall’altro lato è difficile sottrarsi all’idea che, dietro a tale multiformità, esista qualcosa di unitario, come una sorta di condizione generale di possibilità per il darsi di molta produzione filosofica novecentesca[3].
Un’esemplificazione concreta, di livello molto alto, di questo tema può essere trovata nella riflessione di Jacques Derrida. Nel già nominato saggio del 1967 dedicato a Storia della follia, egli critica il libro di Foucault perché gli sembra voler scrivere la storia della partizione originaria fra ragione e sragione, ovvero proprio di quel che necessariamente si sottrae al linguaggio e alla storia. Infatti «ogni storia non è in ultima istanza se non la storia del senso, cioè della Ragione in generale» e allo stesso modo la scrittura, in quanto costringe a porsi all’interno dell’orizzonte linguistico, implica già l’essere caduti dal lato del campo razionale: «l’ordine è allora denunciato nell’ordine»[4]. Il tema della partizione ragione-sragione, ovvero il tema dell’origine del Senso in generale, non potrà mai trovare uno svolgimento storico o archeologico adeguato, ma implica un approccio filosofico, il quale deve avere però, a differenza della “metafisica”, la capacità di farsi carico della sua originaria aporeticità, che investe la stessa filosofia nella misura in cui è anch’essa discorso. Il proprium della filosofia, in altre parole, è quel «fondamento non storico della storia», quella différance fra senso e non senso, fra storia e storicità, che non può essere in alcun modo oggettivato in un evento storico o in un ordine discorsivo (sia pure quello della stessa filosofia), poiché è proprio ciò che sta “al di qua” e “al di là” di ogni storia e di ogni discorso: «Definire la filosofia come voler-dire l’iperbole, significa confessare – e la filosofia, forse, è questa gigantesca confessione – che nel dettato storico in cui la filosofia si rasserena ed esclude la follia, essa si tradisce da sé (o si tradisce come pensiero), essa entra in una crisi e in una dimenticanza di sé che sono un periodo essenziale e necessario del suo movimento»[5]. Di qui anche il fastidio mostrato da Derrida per la lettura che Foucault compie delle Meditazioni di Cartesio: relegandole, secondo lui, a espressione di un “momento storico” (l’età classica), egli fraintenderebbe la vera posta in gioco del testo, che apparirebbe invece solo «attraverso l’analisi interna ed autonoma del contenuto filosofico del discorso filosofico»[6].
Nei libri successivi a La scrittura e la differenza, pur dando al suo pensiero una sempre maggiore articolazione e complessità, Derrida non sembra modificare nella sostanza questa impostazione complessiva. Il suo progetto si costruisce attorno all’idea di una decostruzione dei concetti filosofici sedimentati nella tradizione metafisica, fonocentrica e logocentrica, in modo da far riapparire l’atto propriamente filosofico che in quelle cristallizzazioni necessariamente veniva oscurato[7]. Nel libro del 1990 Du droit à la philosophie, interamente dedicato allo statuto della filosofia (ci tornerò in seguito), appare chiaramente il permanere predominante di questo tema. Nella lunga introduzione Derrida scrive: «Una delle strutture rimarchevoli e paradossali del titolo filosofico, come di tutto ciò che legittima un contratto e autorizza un’istituzione sedicente filosofica, è che per una volta niente dovrebbe essere presupposto da tale alleanza o convenzione: nessun oggetto o campo di oggetti, nessun tema, nessuna certezza, nessuna disciplina, neppure il sedicente filosofo che si auto-intitolerebbe a partire da qualche formazione, identità di ricerca, orizzonte di interrogazione. La filosofia non ha orizzonte, se l’orizzonte è, come indica il nome, un limite, se “orizzonte” significa una linea che accerchia o delimita una prospettiva. Non è questo il caso, di diritto, per altre discipline o regioni del sapere»[8]. Se «il nome della filosofia si trova sottoposto a una sorta di torsione che lo ripiega verso un luogo eccessivo, debordante, inesauribile»[9], la decostruzione intende nominare proprio questa torsione, questa perpetua eccedenza della filosofia su se stessa, che prende per Derrida la forma di un compito o, come egli anche scrive, di una «promessa»[10].
2. Una modalità alternativa alla rivendicazione – filosofica – dell’internità alla filosofia della questione relativa al suo statuto è la prospettiva che intende piuttosto guardare la filosofia da fuori. Questo sguardo esterno intende far emergere per così dire la scena o il campo della filosofia: le strutture istituzionali di cui si dota o in cui è implicata, i meccanismi sociali e politici che la governano così come i conflitti che la attraversano. Un’analisi di questo tipo è stata svolta ampiamente – e polemicamente – in forma sociologica da Pierre Bourdieu; non è un caso, poiché quest’ultimo, come ricorda Macherey, è «un filosofo (è alla filosofia che deve la sua formazione e i suoi primi riconoscimenti) che si è “convertito” alla sociologia, abbandonando le proprie iniziali convinzioni per entrare nel santuario della scienza»[11].
Nel post-scriptum al suo libro del 1979 La distinzione. Critica sociale del gusto, Bourdieu si scaglia contro le modalità usata dalla filosofia per definirsi, in quanto «il modo filosofico di parlare della filosofia derealizza tutto quello che si può dire della filosofia»[12]. Per Bourdieu il paradigma di questo atteggiamento, che impone a tutto ciò che si può dire della filosofia la forma di un enunciato filosofico, è proprio Jacques Derrida, la cui decostruzione, per quanto radicale voglia essere, «non si ritira mai dal gioco filosofico, di cui rispetta le convenzioni, financo nelle trasgressioni rituali, che possono scandalizzare soltanto gli intellettuali»[13]. Lo «smontaggio del dispositivo filosofico» operato da Derrida, così come il suo «sguardo deliberatamente sbieco, decentrato, liberato, se non addirittura sovversivo» nei confronti delle letture ortodosse del canone filosofico (in Meditazioni pascaliane Bourdieu parlerà a tal proposito di «accademismo anti-accademico»[14]), non sono in grado di dire nulla sulla verità in gioco nella filosofia, perché non sono altro che il modo che quel dispositivo ha trovato per poter continuare a riprodursi.
Questo esito appare a Bourdieu da un certo punto di vista inevitabile, in quanto dal filosofo non ci si può certo aspettare che esca dal gioco che lo legittima e che prevede il suo posto: «L’oggettivazione filosofica della verità del discorso filosofico trova i suoi limiti nelle condizioni oggettive della propria esistenza in quanto attività che aspira alla legittimità filosofica, cioè nell’esistenza di un campo filosofico che esige il riconoscimento dei principi che stanno alla base della sua stessa esistenza»[15]. La filosofia è costretta, pena la perdita di sé, a non vedere, anzi a disconoscere, il reale che costituisce il proprio campo, ciò che lo governa e che lo articola socialmente, politicamente e istituzionalmente. Questo lavoro può essere fatto invece, secondo Bourdieu, dalla sociologia, come lui stesso ha voluto dimostrare nei suoi libri, per esempio in Homo academicus, in cui ricostruisce (fra le altre cose) il posto della filosofia nel «campo accademico» francese, o in Meditazioni pascaliane, in cui mostra la stretta connessione fra riproduzione filosofica e «ragione scolastica».
La ricostruzione di Bourdieu, tuttavia, non è mai neutra, ma sempre fortemente colorata di tinte polemiche e quasi rancorose[16], perché c’è in gioco molto più che la descrizione di un gioco simbolico fra gli altri: la filosofia è il vero “nemico” delle scienze sociali poiché aspira a occuparne il posto senza esserne in grado, in quanto trasforma la scienza in «sterile speculazione» che «sistematicamente ignora i problemi della realtà concreta»[17]. Guardare la filosofia da fuori, ovvero determinare sociologicamente le regole (spesso meschine) della sua istituzione e della sua riproduzione, significa non solo mostrare il reale della filosofia, che essa stessa strutturalmente non può vedere, ma anche, più generalmente, svelare la sua incapacità a entrare in rapporto con la realtà, il suo ridursi a gioco accademico interessato solo a difendere il potere simbolico che si è riuscito ad accaparrare.
Ci si può chiedere se l’analisi di Bourdieu sia in grado fino in fondo di produrre insieme una definizione esaustiva dello statuto della filosofia, cioè una sua piena oggettivazione, e la definitiva vittoria delle scienze sociali su di essa e sulle sue pretese. Se per esempio si prende in esame il libro di Derrida Du droit à la philosophie, successivo all’attacco di Bourdieu contenuto in La distinzione e che vale anche esplicitamente come risposta ad esso, sembra che la cosa non sia così semplice. Derrida sostiene di non essersi mai voluto limitare «a un contenuto teorico, culturale o ideologico»; se così fosse, allora – sembra dire Derrida – Bourdieu avrebbe ragione: «Se la decostruzione si fosse attenuta, cosa che non ha mai fatto […], a una semplice decostituzione semantica o concettuale, essa avrebbe formato soltanto una modalità – nuova – dell’autocritica interna della filosofia. Avrebbe rischiato di riprodurre la proprietà filosofica, il rapporto della filosofia con se stessa, l’economia della messa in questione tradizionale»[18]. Derrida ammette insomma il rischio che la decostruzione, nella sua critica radicale allo statuto della filosofia, non sia altro che la riattivazione, in forme nuove, del vecchio meccanismo della sua auto-riproduzione. Tuttavia questo rischio è scongiurato poiché la decostruzione ha di mira non solo i concetti della filosofia, ma anche la sua scena: «È così da tempo necessario (coerente e programmato) che la decostruzione non si limiti al contenuto concettuale della pedagogia filosofica, ma affronti la scena filosofica, tutte le sue norme e le forme istituzionali così come tutto ciò che le rende possibili»[19]. Essa implica quindi una «messa alla prova storica e politica»: mostra il legame di fondo tra forme filosofiche, pedagogiche e istituzionali, principalmente a partire dalla «età di Hegel», in cui l’enciclopedismo sistematico si salda all’istituzione universitaria, a una certa figura di filosofo-professore e al suo indefinito riprodursi nelle strutture disciplinanti di insegnamento che vi sono connesse. Il logocentrismo, che da Hegel in poi si traduce in «onto-enciclopedia», è sempre anche una pedagogia volta principalmente alla riproduzione di sé nella forma istituzionale dell’università. È questa l’analisi che effettivamente Derrida conduce, almeno in parte (e sempre nel suo stile), nei saggi raccolti in Du droit à la philosophie.
Non è tutto: nel riprendere all’interno del proprio orizzonte decostruttivo il problema della scena della filosofia, Derrida è convinto di poter infine ribaltare la situazione: non è che Bourdieu guardi la filosofia da fuori, ma al contrario ci si ritrova in mezzo, senza saperlo né volerlo. Il tentativo di fare una «analisi oggettiva» della filosofia è per Derrida un’impresa ambigua e autocontraddittoria, poiché deve assumere proprio quella posizione che intende descrivere. Bourdieu sa che «l’oggettivazione è completa solo se oggettiva anche il luogo dell’oggettivazione»[20], ma dal punto di vista di Derrida ciò significa, in un modo o nell’altro, ricascare dentro la filosofia[21]. Infatti se Bourdieu vuol intendere, con questo, il progetto di una «oggettivazione portata a compimento», conclusa, allora egli ha bisogno di «ricostituire il metalinguaggio di un sapere assoluto che porrebbe la “sociologia” al posto della grande logica e che le assicurerebbe l’egemonia assoluta, ovvero filosofica, sulla molteplicità delle altre regioni del sapere»[22]. L’idea di un’oggettivazione completa da parte della sociologia renderebbe insomma quest’ultima una “scienza sovrana”, facendola confluire proprio nel progetto dell’«onto-enciclopedia» filosofica. Ma è improbabile, aggiunge sarcasticamente Derrida, che Bourdieu sia così ingenuo; probabilmente bisogna intendere questo progetto in un altro modo, quello secondo cui il problema della «verità» dell’oggettivazione «non appartiene più all’ordine dell’oggettività», «non ha più la forma dell’oggetto», ma anzi costringe a «mettere in questione l’autorità dell’oggettività»[23]. Ma questo modo di intendere il progetto non è altro che quello messo in atto dallo stesso Derrida con la sua decostruzione, la quale, come visto, intende riprendere, ma in termini filosofici (cioè non in termini di pura oggettivazione), il problema del “campo” della filosofia.
Le poche pagine che Derrida, in Du droit à la philosophie, dedica a Bourdieu sono la messa in scena di un meccanismo logico, discorsivo e stilistico simile a quello che si trova nel saggio su Foucault di vent’anni prima e che si ripete spesso, con le variazioni del caso, in Derrida: non è mai possibile stare al di fuori della filosofia e ogni tentativo di sottrarsi ad essa non fa altro che implementarla in modo inavvertito; ovunque si può trovare una «filosofia implicita» (in Bourdieu, in Foucault, così come nella riforma Haby che è l’obbiettivo polemico principale di Du droit à la philosophie[24]); ma una filosofia implicita non è altro che “cattiva filosofia”, la quale è comunque in un certo senso necessaria alla “buona” filosofia, quella in perpetuo eccesso su se stessa, perché le dà l’occasione di potersi esercitare. Proprio per questo motivo, del resto, è facile pensare che il modo in cui Derrida re-inscrive all’interno della sua prospettiva ciò che ne dovrebbe costituire il fuori non metterebbe in crisi Bourdieu, ma anzi lo confermerebbe nelle sue posizioni. Nella risposta di Derrida infatti egli ritroverebbe limpidamente esposta l’«oggettivazione a metà» propria della filosofia che si vuole «radicale»; tale approccio «consente di collocarsi, al tempo stesso, dentro e fuori [del campo filosofico], nel gioco e al di fuori del gioco, […] punti da cui si possono prendere le distanze maggiori possibili dal suo interno, senza però cadere fuori da esso (cioè nelle tenebre esterne, nella volgarità del non-filosofico, nella grossolanità del discorso “empirico”, “ontico”, “positivista”, ecc.) ed in cui si possono sommare i vantaggi della trasgressione, quelli di un compimento esemplare del discorso filosofico e quelli dell’esplicitazione della verità oggettiva di questo discorso»[25].
L’esigenza di Bourdieu di guardare la filosofia “da fuori”, per svelarne il suo vero statuto e il suo vero funzionamento, è ben comprensibile ed è perfettamente adeguata all’obbiettivo che Bourdieu si prefigge, ovvero quello di giustificare il suo abbandono della filosofia – che viene così liquidata – al fine di abbracciare il lavoro scientifico della sociologia. Tuttavia se il fine è un altro, quello di capire se è possibile, non abbandonando la filosofia, rispondere alla domanda circa il suo statuto in un modo diverso da quello che abbiamo trovato esemplificato in Derrida, l’approccio di Bourdieu non è sufficiente. Esso infatti, proprio perché, nel mostrare il “fuori” della filosofia, si pone deliberatamente al di fuori di essa, lascia paradossalmente intatto il suo santuario interno, non prende in considerazione fino in fondo i modi intrinseci al suo dispiegamento e consente quindi alla filosofia che dovrebbe venire “oggettivata” di inglobare questa “oggettivazione”, di renderla ancora una volta un suo contenuto e un’occasione per la sua ripetizione. Derrida è perfettamente in grado di scrivere dei saggi molto convincenti sulla scena della filosofia, sulle sue «norme e forme istituzionali» così come sulla «enorme organizzazione (sociale, politica, economica, pulsionale, fantasmatica, ecc.)» che vi si accompagna[26], senza abbandonare le modalità di procedere tipiche del suo stile filosofico.
3. L’originalità della prospettiva di Foucault sta nella possibilità di sottrarsi a questa alternativa secca fra comprensione tutta interna e sguardo esterno. Questo non nel senso che in lui si troverebbe una posizione “mediana” o una sorta di “superamento dialettico” dell’alternativa, in obbedienza a uno dei dettami più logori dell’andamento argomentativo della letteratura filosofica. Come Bourdieu, anche Foucault intende offrire uno sguardo esterno e critico rispetto alla filosofia e, come Bourdieu, egli trova proprio in Derrida il paradigma del suo obbiettivo polemico. Tuttavia l’esteriorità alla filosofia che Foucault chiama in causa nel definire il suo statuto non è solo, né principalmente, quella della sua “scena”, cioè della posta in gioco sociale, politica, istituzionale che vi è connessa (di cui del resto Foucault non si è mai occupato direttamente, a differenza, come si è visto, di Bourdieu e dello stesso Derrida), ma è anche, e soprattutto, l’esteriorità del discorso[27]. Il problema che emerge in Foucault è quello che si potrebbe chiamare dei modi di produzione del discorso filosofico – ovviamente di un discorso filosofico ben determinato, quello della «filosofia nella maniera in cui essa viene praticata e insegnata in Francia»[28] -. Quando Foucault scrive che «quel che [in Derrida] si manifesta in maniera assai visibile» è una «piccola pedagogia storicamente ben determinata»[29], sta parlando in primo luogo proprio di una pedagogia del discorso, cioè di un certo modo di produrre e concatenare gli enunciati affinché essi possano essere riconosciuti come “filosofici”. Quindi ciò che Foucault vuol fare, e che Derrida non accetterà mai di fare, è proprio il concepire la filosofia come una pratica discorsiva fra le altre: «Quel che ho cercato di mostrare (anche se non era certo del tutto chiaro ai miei occhi quando scrivevo Storia della follia) è il fatto che la filosofia non è né storicamente né logicamente fondatrice di conoscenza, e che ci sono delle condizioni e delle regole di formazione del sapere alle quali il discorso filosofico si trova sottomesso in ogni epoca, come qualunque altra forma di discorso a pretesa razionale»[30]. L’esteriorità propria del discorso non arriva a turbare la filosofia da fuori, come poteva apparire per la sua scena, ma si trova proprio al suo cuore, ben dentro il suo santuario, nel suo modo intrinseco di prodursi come filosofia. Se si volesse ridislocare un concetto coniato da Jacques Lacan per il campo analitico, si potrebbe nominare estimità questo nucleo discorsivo della filosofia[31].
Il concetto di “discorso” viene determinato da Foucault in L’archeologia del sapere: esso è l’«insieme degli enunciati che appartengono a uno stesso sistema di formazione»[32]. Questo significa, molto in breve, che un discorso è un insieme di enunciati regolati da una serie di funzioni che determinano, per essi, gli oggetti, i soggetti, i concetti e le strategie discorsive che vi possono apparire. Nell’Archeologia del sapere, Foucault intende proprio determinare la possibilità di un’analisi del fatto linguistico che abbia di mira la dimensione enunciativa, ovvero le regole che organizzano di volta in volta i modi in cui un fatto linguistico può di diritto entrare a far parte di uno specifico orizzonte discorsivo: gli oggetti di cui si parla, i concetti che vengono utilizzati, le posizioni di soggetto che vi sono previste. Questo reticolo, questa griglia invisibile accompagna silenziosamente ogni cosa detta o scritta e la assegna alla specifica formazione discorsiva a cui appartiene. L’obbiettivo di Foucault, quello che egli ritiene di aver perseguito nei libri precedenti a L’archeologia del sapere, è proprio quello di mirare di rendere visibili tali griglie: «in questo modo potrò parlare di discorso clinico, di discorso economico, di discorso della storia naturale, di discorso psichiatrico»[33] e anche – si potrebbe aggiungere – di discorso filosofico.
Un’analisi di questo tipo rivolta alla filosofia è proprio ciò che Foucault abbozza nelle prime pagine della Risposta a Derrida, prima versione di Questo corpo, questo foglio, questo fuoco. Egli individua «tre postulati» (ma sarebbe meglio parlare di tre regole di formazione degli enunciati) che «formano l’armatura dell’insegnamento della filosofia in Francia», anche se «fra tutti coloro che oggi, in Francia, fanno filosofia all’ombra di questi tre postulati, senza dubbio Derrida è il più profondo e il più radicale»[34]. Il primo postulato si basa sull’assunto che «ogni conoscenza, e più in generale ogni discorso razionale, intrattenga con la filosofia un rapporto fondamentale, e che tale razionalità o tale sapere si fondino proprio in virtù di tale rapporto»[35]. Foucault non si sta riferendo qui all’attitudine sistematica di quella che Derrida chiama «onto-enciclopedia», ma più generalmente al meccanismo secondo cui ogni discorso, in quanto razionale (o in quanto aspira alla razionalità), nasconde necessariamente una «filosofia implicita» (un tema tipicamente derridiano, come si è visto) che dovrà essere liberata – ovviamente dalla filosofia – al fine di vagliare il suo senso ultimo.
La lettura filosofica mostrerà inevitabilmente – siamo qui al secondo postulato – la strutturale mancanza di ogni discorso non filosofico in relazione al proprio fondamento. Queste «colpe» («fautes») non sono dei semplici «errori» circoscrivibili e isolabili, bensì sono «quasi un misto fra peccato cristiano e lapsus freudiano»[36]. Questo perché valgono da sintomi di una rimozione originaria, da parte del discorso, del proprio rapporto fondamentale alla filosofia e allo stesso tempo sono colorati di una venatura di peccato, in quanto esprimono una certa resistenza o rifiuto a farsi illuminare dalla verità filosofica. Il passaggio fondamentale è però il terzo: perché la filosofia possiederebbe la capacità di riconoscere tali «colpe»? Questo è possibile per il fatto che essa esprime, nel suo discorso, la propria ulteriorità rispetto a ogni discorso, a ogni evento, a ogni positività: «la filosofia non è che ripetizione di un’origine più che originaria, e che eccede indefinitamente, nel suo arretramento, tutto quel che essa potrà dire in ciascuno dei suoi discorsi storici»[37]. La filosofia è in perpetuo eccesso sul suo stesso darsi: ciò che vi sarebbe di “autenticamente” filosofico in essa sarebbe esattamente ciò che sopravanza il suo stesso prodursi discorsivo – un’eccedenza che le consentirebbe così di entrare in rapporto con il problema “originario” intrinseco in ogni sapere, discorso, razionalità – . Ogni enunciato perde di importanza in confronto al movimento filosofico che lo fonda (o che – la sostanza non cambia – lo mostra nella sua originaria infondatezza) (kkkke che si manifesta nel gesto infinitamente ripetuto della filosofia. Questo “eccesso” è ciò che Derrida nel saggio dedicato a Foucault chiama per esempio «fondamento non storico della storia», «storicità» o «différance», e che ancora in Du droit à la philosophie compare nei termini di «supplemento di oggettivazione che non appartiene all’ordine dell’oggettività» e più in generale come «decostruzione». Questi tre postulati sono all’opera nella critica di Derrida a Foucault in Cogito e storia della follia, ma hanno una valenza ben più ampia: «formano l’armatura dell’insegnamento della filosofia in Francia» e consentono ad essa di apparire insieme come critica universale di ogni sapere, come ingiunzione morale e come commentario infinito dei propri stessi testi (siano essi i testi “canonici” o quelli “secondari”)[38].
Al di là della specifica ricostruzione dei «tre postulati», ciò che emerge più generalmente in queste pagine è un tentativo di pensare in un modo originale il “fuori” della filosofia. Se quest’ultima si mostra richiusa su se stessa, «senza rapporto ad alcuna esteriorità», non è tanto l’esteriorità delle poste in gioco direttamente politiche, istituzionali, sociali, di prestigio accademico e così via che essa esclude dal suo santuario, quanto l’esteriorità del suo proprio discorso, cioè dei meccanismi che presiedono alla formazione di enunciati identificabili come “veracemente” filosofici, situati dunque proprio nel cuore del dispiegarsi della filosofia come tale. Si può comprendere meglio, allora, cosa Foucault intenda quando afferma che i suoi testi «si collocano effettivamente al di fuori rispetto alla filosofia»[39]: non si tratta certamente di ripetere con altri nomi quell’eccesso estenuante del “filosofico” rispetto a ogni sua sedimentazione discorsiva, come fa nel modo più arguto e intelligente Derrida, ma neppure di assumere il punto di vista di un’altra disciplina, per esempio della sociologia, in modo da poter poi guardare la filosofia “da fuori”, come fa invece Bourdieu. L’esteriorità rivendicata da Foucault non è “alla filosofia” in generale, ma «alla filosofia, nel modo in cui la si pratica e la si insegna in Francia»[40], e più precisamente alle regole di produzione che vi sono connesse: «forse, sono proprio questi tre postulati che dovrebbero essere rimessi in discussione. In ogni caso, è da questi che nel mio lavoro tento di affrancarmi, nei limiti in cui è possibile liberarsi da quelli che, così a lungo, le istituzioni mi hanno imposto»[41].
4. L’analisi di Foucault può certamente, al pari di quella di Bourdieu, essere di nuovo introdotta all’interno dell’oggetto della sua analisi, cioè nella “filosofia”. È un po’ quel che suggerisce Derrida, non solo – come si è visto – nei confronti del sociologo, ma implicitamente anche nei confronti dello stesso Foucault, nel testo in cui nel 1992 ritornò sulla vecchia e ormai lontana polemica. Nel suo ripercorrere i temi della controversia, Derrida afferma di «voler considerare la storia della follia a parte subjecti, dalla parte dove si scrive e non dalla parte di ciò che lei descrive»[42], cioè di voler riflettere sul “punto di vista” assunto da Foucault. La domanda sottesa a ciò, che ha anche un’evidente carica polemica, può essere formulata così: come è possibile svolgere un’analisi del discorso, nel senso di Foucault, se non re-installandosi ancora surrettiziamente nella posizione del soggetto-filosofo, che si auto-rappresenta come in grado di padroneggiare sovranamente l’intero campo del sapere, di produrre cioè ancora una «oggettivazione completa», questa volta non più – come in Bourdieu – del campo sociale, ma del campo discorsivo? E il discorso che si fa sul discorso, per poter essere veramente tale, non necessita forse di raggiungere un piano ulteriore a quello che esso assegna al proprio oggetto? In altre parole: il progetto di una descrizione delle formazioni discorsive non implica proprio la riproduzione di quel «rapporto fondamentale» a ogni conoscenza e a ogni razionalità che Foucault stesso aveva individuato come prima regola di formazione degli enunciati filosofici? Ancora una volta la filosofia si rivelerebbe un gorgo senza via d’uscita: se la si ignora, le si lascia libero corso; se si cerca di determinarla, si assume, volenti o nolenti, il suo punto di vista e si subisce in maniera incontrollata (quindi “ingenua”, “oggettivistica”, “metafisica”, ecc.) proprio il meccanismo che si intende descrivere.
La traduzione dell’analisi di Foucault in questi termini è ovviamente una possibilità praticabile dal pensiero, tuttavia non sembra fare presa fino in fondo. La prospettiva foucaultiana infatti non ha di mira tanto la “filosofia” in generale, quanto il modo concreto in cui essa si articola discorsivamente: le modalità con le quali essa costituisce i suoi oggetti, i suoi concetti, le posizioni di soggetto e riconosce così ciò che può valere da “enunciato filosofico”. L’obbiettivo di questa analisi non è dunque principalmente una «critica» della filosofia (tanto è vero che Foucault si disinteresserà subito di questi temi[43]), bensì il tentativo di praticare altre strade, cioè di scrivere dei libri che obbediscano ad altre regole di formazione degli enunciati. Si può riconoscere qui ancora una volta l’approccio genealogico foucaultiano, che consiste (per semplificare al massimo) nel problematizzare un dispositivo dato (qui il dispositivo del discorso filosofico) al fine di liberare la possibilità delle sue trasformazioni[44]. Per questo motivo, non ha molto senso chiedersi se i libri di Foucault siano o meno “filosofici”: in tal modo si presuppone il fatto che la “filosofia” abbia uno specifico assetto discorsivo, immediatamente riconoscibile e assunto in maniera a-problematica; ciò che si deve fare, piuttosto, è capire quali siano le regole di formazione degli enunciati all’opera in tali libri, che, se si vuole, proprio per questo possono essere considerati come dei tentativi di fare filosofia in modo nuovo.
La proposta foucaultiana assume così una portata che va al di là di quanto fatto dallo stesso Foucault, in quanto dà delle possibili indicazioni su come continuare a fare filosofia oggi. Il punto fondamentale riguarda l’assunzione problematica del suo nucleo discorsivo, al di là della sclerotizzazione che lo investe sia nella cosiddetta “letteratura accademica” o “secondaria” (irrigidita nella forma discorsiva del commento[45]), sia nella filosofia “alta”, che cioè non vuole limitarsi all’indagine storiografica ma intende proporre contenuti filosofici “nuovi”. In quest’ultimo caso la filosofia riconosce se stessa, come si è visto prendendo schematicamente in esame Derrida, nella rivendicazione della propria “assenza di orizzonte”, insomma nella propria “eccedenza” rispetto non solo a ogni sapere determinato, in qualunque modo poi questo eccesso venga articolato, ma anche rispetto al proprio stesso farsi discorso. Poiché però la filosofia deve pur prodursi discorsivamente, il modo per rimarcare tale eccedenza sembra essere quello di conferirsi una completa libertà nella scelta delle forme di questa produzione; di qui il ricorso caotico e volutamente non padroneggiato a ogni genere di procedimenti discorsivi (giochi di parole, strumenti linguistici come l’etimologia o la metafora, oscurità, utilizzo fuori contesto di concetti scientifici e così via), che non sembra per nulla casuale o inavvertito, ma anzi volto a un fine ben preciso: mostrare la superiorità della filosofia sulle costrizioni del discorso, riflesso linguistico della sua rivendicata irriducibilità a ogni sapere positivo. L’analisi compiuta da Foucault con i suoi «tre postulati» è importante perché smonta questo ingranaggio: anche questa “eccedenza sul discorso” presenta in realtà una logica discorsiva ben precisa.
Per sottrarsi a questo esito, si può pensare piuttosto a una filosofia che non nega la sua dimensione discorsiva e che dunque si impegna riflessivamente nella comprensione e nella problematizzazione dei modi che di volta in volta assume per istituirsi in discorso[46]. Questo significa in primo luogo certamente riflettere sulla specificità degli oggetti che sono chiamati a comparire nel discorso filosofico (di cosa si parla?). Ma un’analisi di questo tipo non può essere svolta se non è accompagnata da una ancor più importante riflessione controllata sui concetti e sui soggetti implicati e insieme prodotti da tale discorso. Innanzitutto, che tipo di organizzazione concettuale specifica mette in campo la filosofia, secondo quali strutture si svolge il suo procedere e anche che tipo di rapporto si instaura con i concetti propri di altri saperi. Il lavoro genealogico di Foucault può essere considerato un esempio possibile di un approccio di questo tipo. In secondo luogo, quale posizione o quali posizioni è chiamato a occupare il soggetto di un discorso che intende costituirsi come filosofico. Ben prima del «ritorno all’antico» compiuto negli anni Ottanta, Foucault abbozza questa strada già nella risposta a Derrida, quando registra, nel discorso costituito dalle Meditazioni di Cartesio, la presenza intrecciata di due piani differenti, quello della dimostrazione e quello della meditazione, i quali implicano due diverse posizioni di soggetto enunciante: nella prima esso «resta fisso, invariante e per così dire neutralizzato», mentre nella seconda è «mobile e modificabile dall’effetto stesso degli eventi discorsivi che vi si producono»[47]. Una formazione discorsiva implica sempre la costituzione non solo di una specifica concatenazione concettuale, ma anche di specifiche soggettivazioni.
All’incrocio di questi due assi, che potrebbero essere definiti un’epistemologia del concetto e un’etica del soggetto, si apre una concreta modalità di praticare la filosofia. A conclusione di una conferenza tenuta nel 1990 alla Société des amis de Jean Cavaillès, Georges Canguilhem afferma: «Non posso concludere senza ricordare che uno di coloro che hanno contribuito a screditare la filosofia dei professori, Jean-Paul Sartre, sapeva bene dove cercare la filosofia. Nel suo “Autoritratto a 70 anni” (conversazione con Michel Contat, Situations X), Sartre ha dichiarato: “Ho sempre avuto della simpatia per gli stoici”, simpatia che, personalmente, condivido. Ma lo stoicismo non è solo la serenità delle reazioni di fronte agli eventi determinati da Zeus; è la pratica di una logica»[48].
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