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Olismo o individualismo in Marx?
Sull’ultimo libro di Ernesto Screpanti, “Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843)”
di Luca Basso
In passato, anche sulla base di un “cortocircuito” fra valutazione del marxismo e critica dell’esperienza storica del socialismo reale, troppo spesso si è interpretato il senso complessivo del discorso marxiano all’insegna di una sorta di olismo, a scapito del riconoscimento delle capacità e delle facoltà individuali. Dall’altro lato, in particolare negli anni ’80, il marxismo analitico (Elster, Roemer…) ha fortemente valorizzato l’approccio dell’individualismo metodologico – seppur mitigato da politiche di redistribuzione sociale –, sottolineandone una potenziale compatibilità con la prospettiva delineata da Marx, e nello stesso tempo mettendo in luce, di quest’ultima, una serie di limiti e di possibili “cadute” olistiche. L’impostazione del marxismo analitico si rivela compatibile, per molti versi, con una pratica “riformista”, volta ad attutire le diseguaglianze prodotte dal sistema capitalistico, ma senza mettere in discussione in modo radicale quest’ultimo: così viene fortemente ridotto, se non annullato, l’elemento della lotta di classe, e quindi il carattere politicamente dirompente dell’orizzonte marxiano. Il libro di Ernesto Screpanti, Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843) (Petite Plaisance, Pistoia 2013), presenta, in primo luogo, il merito di sottoporre a critica qualsiasi interpretazione olistica del percorso marxiano, senza però con questo aderire a una visione che in qualche modo legittimi l’individualismo capitalistico, per quanto mitigato da una serie di misure sociali.
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“Il governo dell’uomo indebitato”
Introduzione
di Maurizio Lazzarato
Austerità
«I 500 più ricchi di Francia in un anno hanno aumentato la loro fortuna del 25%. In un decennio la loro ricchezza è quadruplicata e rappresenta oggi il 16% del Pil del paese. Equivale al 10% del patrimonio finanziario dei francesi, cioè un decimo della ricchezza è in mano a un centomillesimo della popolazione» («le Monde», 11 luglio 2013).
Mentre i media, gli esperti, i politici si riempiono la bocca di pareggi di bilancio, assistiamo a una seconda grande espropriazione della ricchezza sociale, dopo quella messa in pratica dalla finanza a partire dagli anni Ottanta. La particolarità della crisi del debito è che le sue cause vengono assunte a rimedio. Un circolo vizioso che non è sintomo dell’incompetenza delle nostre oligarchie, ma del loro cinismo di classe, poiché persegue un fine politico preciso: distruggere le residuali resistenze (salari, redditi, servizi) alla logica neoliberista.
Debito pubblico
Con l’austerità i debiti pubblici hanno raggiunto picchi da record, il che significa che anche le rendite dei creditori hanno raggiunto picchi da record.
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Per una fenomenologia della rete
di Angela Maiello
Adriano Ardovino pubblica per Carocci un importante testo su internet. L’obiettivo del volume è quello di raccogliere «riflessioni di ordine filosofico intorno alla quotidianità della rete, sostituendo all’approccio quotidiano un approccio filosofico», che in questo caso è quello fenomenologico, inteso come ricerca per la descrizione della realtà e delle sue condizioni di possibilità, nell’orizzonte di un quadro storico ben determinato.
Sin dalle prime pagine l’autore si preoccupa di indicare con precisione cosa vada inteso per “rete”, procedendo così a differenziare il termine da altri che altrettanto comunemente vengono usati. Se con il termine “internet” si indica propriamente l’infrastruttura tecnica che permette la connessione di più dispositivi mentre con il termine “web” una delle sue possibili applicazioni multimediali, «rete», dice Ardovino, indica più che altro «una forma di mondo» (p. 15), «la forma tecnologicamente raccolta di comunità e linguaggi estremamente disparati» (p. 17). La descrizione di questa forma di mondo che tecnologicamente si raccoglie è la posta in gioco del libro, che si articola in due parti: la prima, più strettamente filosofica, propone una ricognizione di alcune categorie utili in vista di un inquadramento delle pratiche del web; la seconda si articola attraverso i contributi più importanti dell’ultimo ventennio intorno al fenomeno di internet.
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A qualcuno piace freddo
Giorgio Salerno
Due consumati democristiani, Franco Marini e Pierferdinando Casini, hanno dato di Matteo Renzi, anch’egli di provenienza democristiana, un giudizio alquanto sprezzante; di valore il primo, di metodo il secondo. Marini ha definito il giovane sindaco di Firenze un ambizioso, il secondo un abile parlatore che usa molti fuochi d’artificio verbali. Ricorda un po’, il giudizio del segretario dell’UDC, quello che l’allora giornalista de l’Espresso Giampaolo Pansa affibbiò a Fausto Bertinotti, il 'parolaio rosso'. Siamo ora di fronte ad un parolaio ‘bianco’?
Cerchiamo di capire Renzi partendo da ciò che egli stesso dice, scrive, dichiara e proclama; Renzi attraverso Renzi, leggendo le sue interviste e consultando i suoi ultimi libri.
Che Renzi sia un abile parlatore è fuori di dubbio ma quali sarebbero i fuochi d’artificio che evoca Casini? Renzi usa nei suoi discorsi molte figure della poesia e della retorica quali l’assonanza, la rima, l’ossimoro, l’anagramma, il gioco di parole, il calembour, battute ad effetto, a volte ironiche, a volte irridenti.
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Le mille bolle del mercato finanziario
Emiliano Brancaccio e Marco Veronese Passarella
Gli americani Eugene Fama (Università di Chicago), Lars Peter Hansen (Università di Chicago) e Robert Shiller (Università di Yale) sono i vincitori del premio Nobel 2013 per l’Economia, in virtù delle loro analisi sulla previsione degli andamenti dei mercati delle attività finanziarie e immobiliari. Nel motivare la scelta di quest’anno, l’Accademia svedese delle scienze ha molto insistito sugli elementi di continuità tra le ricerche degli studiosi premiati. In realtà, come vedremo, il loro successo è derivato soprattutto dagli elementi di rottura tra le loro analisi e dall’ampia letteratura che si è sviluppata in questi anni intorno ad essi.
Appartenente a una famiglia di origine siciliana emigrata a Boston ai primi del secolo scorso, Eugene Fama è annoverato tra i più intransigenti difensori della libertà dei mercati finanziari e della loro completa deregolamentazione. Questa posizione politica viene solitamente giustificata dai suoi epigoni in base alla tesi secondo cui il mercato utilizza al meglio tutte le informazioni disponibili utili alla determinazione del prezzo delle attività, e ogni eventuale nuova informazione viene istantaneamente incorporata nei prezzi delle attività. Nel caso della borsa valori, per esempio, il prezzo corrente delle azioni riflette le informazioni disponibili circa il valore attuale dei dividendi futuri attesi. Se dunque i prezzi che scaturiscono dalle contrattazioni sono determinati in base a un impiego ottimale di tutte le informazioni disponibili, nessuno potrà sperare di utilizzare quelle stesse informazioni per speculare, cioè per “battere il mercato”.
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La crisi come problema politico
∫connessioni precarie
La crisi sta finendo. O forse no. Non bisogna credere a chi, come se nulla fosse successo, ricomincia lentamente a celebrare le sorti progressive e magnifiche del capitalismo. Non si deve però nemmeno essere indulgenti verso chi prova quasi fastidio di fronte a questa eventualità, affidando al protrarsi della crisi la speranza di improvvisi rivolgimenti politici. È invece importante interrogarsi sulle novità di questa crisi, su come nei suoi esiti attuali le carte siano ridistribuite, insomma, sulla modificazione profonda dei processi sociali e sulle possibilità politiche che si aprono. Grazie alla crisi si sono determinate trasformazioni radicali nei rapporti di potere e nelle relazioni di dominio. Non si è trattato evidentemente di un processo a senso unico. La gestione della crisi non è stata per niente semplice per chi l’ha scatenata, ma essa ha aperto possibilità fino a poco tempo fa impensate. Ci sono state esplosioni che hanno mostrato l’esistenza di processi di lungo periodo che nella loro contraddittorietà non permettono giudizi univoci. Le rivolte sociali in Grecia e in Spagna, le rivoluzioni arabe, le insurrezioni in Turchia e in Brasile non possono essere lette né come esplosioni occasionali e locali più o meno sconfitte, né come reazioni meccaniche a situazioni di bisogno più o meno drammatico. Nemmeno gli attuali ripiegamenti dovrebbero essere letti come il segno di una sconfitta definitiva. Ci sono processi che non si esauriscono nelle esplosioni di massa, ma continuano nonostante le repressioni e le restaurazioni. Queste ultime non sono chiaramente indifferenti, ma leggere ogni evento nel tempo breve della rivolta impedisce spesso di coglierne le reali possibilità.
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All'origine delle crepe sul monolito PD
Giuliano Cappellini
Il PD non va a Congresso nelle migliori condizioni della sua breve vita. Molte sono le evidenze di una crisi interna come il drastico calo degli iscritti e la debolezza delle leadership, sia di quella decaduta dopo lo sconfortante esito elettorale che di quella provvisoriamente in carica, ma anche di quelle di cui si discute, ad esempio, quella di Renzi, destinata a radicalizzare le divisioni del partito.
Pur fortemente autoreferenziale, il PD soffre, poi, l’isolamento da molte intellettualità piccolo borghesi che lo hanno sostenuto e, a volte, (pateticamente) stimolato, ma che sono disilluse dal suo moderatismo, al quale imputano di aver ritardato la fine di Berlusconi. Oltretutto, la manovra di isolare la CGIL, che ha lasciato il sindacato senza referenti politici, gli si ritorce contro perché è piuttosto la maggiore Confederazione sindacale italiana [1] ad abbandonare il PD come partito di riferimento.
Le correnti del partito che fino a qualche anno fa parlavano un linguaggio largamente comune, marcano, ora, distanze importanti. Forze alla ricerca di un’identità di sinistra si misurano con altre, più legate ai diversi centri di potere e aperte solo alle politiche di compromesso che non modificano i rapporti di forza politici e sociali.
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Imprenditori arrabbiati
di Sergio Cesaratto
Intervento integrale all’incontro di Reimpresa, Roma 13 ottobre 2013
Cari amici,
ieri mi sono letto ben tre documenti politici. Il documento congressuale di SEL, quello di Gianni Cuperlo e il documento economico (“Documento dei 5 scenari”) predisposto da alcuni militanti qui presenti e indirizzato ai parlamentari M5S (che mi risulta l'abbiano più o meno ignorato). Sui primi due presto detto: il vuoto totale. Infarciti di chiacchiere, e naturalmente SEL è più brava in questo. Nessuna analisi seria e concreta sull'Italia e l'Europa. Un vero documento di un partito della sinistra spenderebbe una sola riga all'inizio per ribadire che la giustizia sociale e piena occupazione nella libertà sono gli assi centrali del partito da perseguire, aggiungerei, con riguardo particolare per il nostro popolo in un ambito di cooperazione internazionale, per poi andare giù pesanti nelle analisi e nelle prospettive di lotta e di governo. Il senso dei due documenti è in una frasetta che Cuperlo scrive all'inizio: Quello che per loro contava nella Terra Promessa non era la Terra, era la Promessa.
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Crisi e intelligenza della merce
Postfazione di "Banche e crisi"*
di Gian Enzo Duci
L’attuale crisi economica e finanziaria del capitalismo mondiale, forse la più estesa e complessa di sempre, ha avuto il merito di suscitare il riemergere del pensiero critico sopito in tempi in cui si era arrivati anche a sostenere che la storia fosse finita.
Non è il caso di Sergio Bologna, che non ha mai smesso di esercitare questo ruolo magistrale nella sua lunga carriera di militante, studioso e consulente del passato e del presente della società industriale e del movimento operaio.
Con un merito in più, di essere stato tra i primi e tra i pochi (secondo me: il primo e il più autorevole) che ha sdoganato e fatto conoscere al pubblico della Sinistra e non solo (sic!) il settore dei trasporti, introducendo la dimensione della circolazione della merce nell’analisi delle strutture, dei processi, dei meccanismi e delle contraddizioni del sistema di produzione del plusvalore.
Basti citare l’inchiesta sui camionisti di Bruno Zanatta ospitata da Bologna nella rivista «Primo Maggio» da lui fondata e diretta a metà degli anni Settanta, quando, per la Sinistra, i lavoratori dell’autotrasporto erano coloro che con i loro scioperi «corporativi» avevano aperto la strada ai golpisti cileni che avevano ucciso Salvador Allende e fatto cadere il suo governo socialista.
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Gli effetti perversi del consolidamento fiscale
di Domenico Mario Nuti
Il consolidamento fiscale (aumento di imposte più tagli della spesa del governo) ha l'effetto di fare aumentare, anziché diminuire, il rapporto debito pubblico/Pil
Nel periodo 2011-2013 vari documenti e saggi dell'FMI hanno riveduto al rialzo le stime precedenti dei moltiplicatori fiscali, che per quarant’anni dal 1970 al 2009 il Fondo e altre organizzazioni internazionali ipotizzavano in media intorno a un valore di 0,5 nei paesi avanzati (Blanchard e Leigh 2012, 2013; Batini et al. 2012, Cottarelli e Jaramillo 2012 e altri ricercatori associati all'FMI).
La revisione al rialzo si applica dal 2010 ed ha varie giustificazioni: l’inefficacia dell’espansione monetaria vicino al limite inferiore zero del tasso di interesse; la mancanza di opportunità per svalutare il tasso di cambio soprattutto nell’Eurozona; l’esistenza di un ampio gap fra reddito potenziale ed effettivo (perché i moltiplicatori sono più elevati nella recessione che nel boom); nonché la simultanea realizzazione di recenti consolidamenti in diversi paesi. Inoltre, contrariamente a conclusioni precedenti, le ricerche recenti indicano che il moltiplicatore fiscale per tagli di spesa è molto più elevato (fino a dieci volte) che per gli aumenti di imposte.
In parole povere, il consolidamento fiscale è più costoso in termini di perdite di produzione di quanto non si credesse in precedenza. Ma c’è di più e di peggio: tanto maggiori sono i moltiplicatori fiscali, e tanto maggiore è l’indebitamento pubblico, tanto maggiore è la probabilità che il consolidamento fiscale abbia l’effetto perverso di far aumentare il rapporto fra Debito Pubblico e PIL.
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La moneta corrente del liberismo
Christian Marazzi
C'è sempre un po' d'azzardo editoriale nella pubblicazione di testi apparsi ormai nel corso di alcuni decenni, a maggior ragione quando si passa dal Marx che studia, come corrispondente del New York Daily Tribune, la prima crisi monetaria e finanziaria «moderna» (1856-1857), alla storia del rapporto tra petrolio e mercato mondiale, alla funzione della logistica e dei porti come «integratori di sistema» e come riedizione della logica della crisi dei subprime, esempio dell'intreccio tra processi produttivi e di circolazione delle merci e finanziarizzazione, con saggi pubblicati tra il 2012 e il 2013. Per chi questi scritti li ha letti man mano che uscivano, si tratta di una bella occasione per rivivere alcuni passaggi fondamentali della storia del pensiero critico di un «operaista indipendente» quale è sempre stato Sergio Bologna, ma per un giovane di vent'anni che, immerso anima e corpo nella crisi odierna che ha una gran voglia di agire e di costruire collettivamente nuovi strumenti di analisi e interpretazione del capitalismo finanziario (fatiscente? ipermaturo?), la fruizione de Banche e crisi. Dal petrolio al container (DeriveApprodi, pp. 200, euro 17), non è immediatamente evidente. Oltretutto in un periodo in cui la letteratura sulla crisi finanziaria è ormai sterminata e la lettura quotidiana del Sole 24 Ore o del Financial Times per capire dove va lo spread, i rendimenti sui titoli del debito sovrano, il tasso di cambio tra Euro e dollaro, le decisioni della Federal Reserve sui tassi d'interesse direttori e altre cosucce del genere, lascia poco tempo allo studio delle contraddizioni strutturali del sistema economico capitalistico.
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Fisica. Quando il vuoto è pieno
di Emilio Del Giudice e Giuseppe Vitiello
Il Premio Nobel per la Fisica 2013 è stato assegnato ai fisici Higgs e Englert per la loro previsione teorica, datata 1962, del cosiddetto "Bosone di Higgs", una particella elementare evidenziata sperimentalmente per la prima volta la scorsa primavera al CERN, con il grande contributo di molti fisici italiani. Qual è il senso profondo di tale scoperta, solo apparentemente esotica? Lo hanno spiegato qualche mese prima del Nobel, sulle pagine di Left, i fisici Vitiello e Del Giudice. Riproponiamo anche qui il loro splendido articolo. Buona lettura. La Redazione di Megachip.
Dalla nascita della fisica quantistica, agli inizi del '900, alla recente scoperta del bosone di Higgs. Oggi la materia non è più concepita come inerte. Ed è un vero cambio di paradigma. Che curiosamente ha radici antiche.
La scoperta nel 2012 del cosiddetto "bosone di Higgs" è stata un evento di grande importanza nella storia della fisica contemporanea, il coronamento di uno sforzo tecnologico di grande complessità. L'aspetto che vogliamo qui sottolineare è che questa scoperta conferma la validità di uno schema concettuale che ha rivoluzionato la nostra visione della natura.
Questo approccio rivoluzionario alla comprensione della natura è cominciato agli inizi del '900 con la nascita della fisica quantistica. La materia non era più concepita come inerte, come un insieme di corpi indipendenti, in principio isolabili gli uni dagli altri. La novità è che ogni oggetto fisico, sia esso un corpo materiale o un campo di forze, è intrinsecamente fluttuante in modo spontaneo anche in assenza di forze esterne. Il suo stato di minima energia, chiamato "vuoto" nel gergo dei fisici, non è perciò più lo stato in cui a causa dell'assenza di forze esterne c'è un vuoto di energia, ma è lo stato "pieno" delle fluttuazioni spontanee dell'oggetto dato.
Già nel 1916 Walther Nerst, uno dei pionieri del nuovo punto di vista, avanzò l'ipotesi che le fluttuazioni quantistiche in oggetti fisici differenti potessero sintonizzarsi tra di loro dando così luogo a sistemi complessi aventi un comportamento unitario.
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Ce n’est qu’un debut
Verso e oltre il 18 e il 19 ottobre
Collettivo “Noi saremo tutto” Genova
La posta in palio
Le giornate di mobilitazione generale del 18 e 19 ottobre possono rappresentare un passaggio importante se non addirittura decisivo per la messa in forma di un movimento antagonista in grado di “unificare” le lotte e le tensioni politiche e sociali che la crisi obiettivamente produce. Per molti versi è un’occasione non secondaria per dare una forma politica a quell’insorgenza sociale manifestatasi nella giornata romana del 15 ottobre la cui radicalità non ha trovato uno sbocco politico/organizzativo capace di trasformare quella rabbia in progetto politico. Ciò non è stato evidentemente un caso e neppure l’esito di una incapacità politica, piuttosto ha dimostrato la difficoltà di buona parte della stessa sinistra radicale e anticapitalista a fare realmente i conti con gran parte della sua storia passata e, al contempo, a confrontarsi positivamente con quella “nuova composizione di classe” che, l’attuale modello di produzione capitalista, ascrive e circoscrive ogni giorno che passa nell’ambito della marginalità e dell’esclusione sociale.
I comportamenti di questo nuovo segmento di classe, che le statistiche ufficiali indicano ormai come maggioritario dentro l’attuale ciclo produttivo, si manifestano il più delle volte in maniera anarchica e nichilista finendo con il reiterare persino in ambito metropolitano pratiche non distanti dal luddismo.
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Cattive abitudini
di Sergio Cararo
Balza agli occhi la divaricazione tra le contraddizioni che presenta la fase storica e politica che stiamo attraversando, con la capacità soggettiva di volgerle a favore delle classi subalterne e dei loro interessi.
Sullo sfondo di una crisi che mette in discussione i rapporti di forza internazionali consolidatisi dal dopoguerra a oggi (vedi l’empasse dell’egemonia statunitense) la situazione nel nostro paese – la “anomalia italiana” – sembra ripresentarsi in tutta la sua pesantezza. La recessione sul piano economico-sociale e le difficoltà di avviare un governance adeguata agli standard gerarchici imposti dall’Unione Europea, continuano ad avvitarsi di passaggio in passaggio. A poco sembrano essere serviti i colpi istituzionali inferti dal Quirinale e dalle lettere-diktat della Bce.
Ma tutto questo non sembra ancora fornire materia sufficiente per una rivoluzione culturale nella sinistra italiana. Non possiamo nasconderci però che anche negli ambiti della sinistra antagonista si stenta non poco nel cercare di mettere al passo esperienze soggettive, anche importanti, con una sintesi più avanzata e ipotesi ricompositive.
Emblematica di questa situazione è la genesi e la proposta della manifestazione del 12 ottobre a difesa della Costituzione. Nata dall’appello di alcune personalità (Rodotà, Landini etc.) questa iniziativa si trascina dentro tutte le cattive abitudini che hanno portato la sinistra alla crisi e alla distruzione del “tesoretto” ereditato dallo scioglimento del PCI.
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«Stabilità»?
Cambiamenti veri e presunti di una nuova fase politica
Leonardo Mazzei
Dunque, da una settimana siamo «stabili». Il che, detto nel cuore della peggior crisi economica del dopoguerra, non dovrebbe suonare troppo rassicurante per nessuno. La ripresa delle solite diatribe all'interno della maggioranza (ancora sull'IMU!) sta ora spegnendo le grida di trionfo del partito trasversale della «stabilità». E' dunque il momento di ragionare più a freddo su quanto avvenuto, sulla sua portata, le sue conseguenze, i suoi possibili sviluppi.
Di certo nessuno poteva prevedere il pittoresco dietrofront di Berlusconi. Quest'uomo, che ha costruito il suo successo sull'«immagine», ha chiuso la sua presenza in parlamento consegnando alle amate telecamere l'immagine di una persona distrutta, incerta, spaesata, tradita... E tuttavia convinta di poter in qualche modo congegnare l'ultima furbata.
Quanto sarà stata furba quest'estrema furbata ce lo dirà la storia. Al momento tanto scaltra non sembra: il Pdl è diviso e in netto calo nei sondaggi, la scissione sembra solo rimandata, il duo Letta-Napolitano è ben saldo al posto di comando, mentre il noto truffatore che a loro si appellava si acconcia ormai ai «servizi sociali».
Ma andiamo oltre. La vicenda personale di Silvio Berlusconi è strettamente intrecciata con la politica italiana da vent'anni ma, almeno da questo punto di vista, i fatti del due ottobre segnano una svolta. Concentriamoci allora sulle prospettive, ed in particolare sulle caratteristiche che avrà la nuova fase politica che la sconfitta del Cavaliere, nel partito da lui stesso fondato, ha evidentemente aperto.
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"Liberare" i migranti senza "arrestare" i capitali? Un suicidio politico
di Emiliano Brancaccio
Contestare il reato di immigrazione clandestina senza aprire una contesa più generale per il controllo dei movimenti di capitale e per un’alternativa di politica economica, costituisce un suicidio politico. Spunti di riflessione per una “sinistra” allo sbando, da tempo incapace di dare coerenza logica alle fondamentali battaglie contro l’avanzata dei movimenti xenofobi e razzisti
Pubblicato sul Financial Times il 23 settembre scorso, il “monito degli economisti” denuncia la mancata volontà delle classi dirigenti europee di concepire una svolta negli indirizzi di politica economica, e individua in tale mancanza una causa delle “ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa” e dei relativi “sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo”. La recente tragedia di Lampedusa costituisce un esempio terrificante delle conseguenze di questa palese ignavia politica. Il riferimento non è solo al raccapricciante tentativo del Presidente della Commissione europea Barroso di mettere un velo su questa vicenda ricorrendo a una elemosina. Il problema sta pure nel modo in cui le forze di sinistra si sono lanciate in una battaglia per l’abolizione del reato di immigrazione clandestina previsto dalla legge Bossi-Fini.
Naturalmente, nessuno qui nega che sia giusto cercare di intercettare il moto di sdegno che ha attraversato il paese, di fronte alla notizia che i superstiti del disastro di Lampedusa subiranno anche la beffa di essere imputati per il reato di clandestinità. Ma bisogna rendersi conto che oggi più che mai la politica non può esser fatta solo di sdegno o di mani passate sulla coscienza. Soprattutto in tempo di crisi, la politica è alimentata in primo luogo dalla volontà dei singoli e dei gruppi di difendere i propri interessi, di dar voce alle proprie istanze.
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A chi serve la menzogna?
Sull’informazione economica negli Stati Uniti
di Alfio Neri
“Il wasn’t a natural disaster. The Bubble was man-made” (Elisabeth Warren)
1. Lo scorso gennaio, quando ero in California, negli Stati Uniti, mi piaceva leggere il Wall Street Journal. Scritto in un disagevole americano standard, sembrava esporre ovvie verità con un linguaggio crudo, franco, colloquiale. Il suo argomentare diretto contrastava molto con il tono professorale del New York Times, una specie di versione colta del Corriere della Sera, adatto solo ai laureati in una qualche disciplina umanistica. Leggevo questi due giornali perché altri decenti non ce n’erano. Il terzo quotidiano nazionale, USA Today, aveva molte foto, molto sport e mi sembrava più adatto a proteggere i senzatetto dal freddo che alla lettura. Altri importanti giornali nazionali non ne vedevo. Esistevano altre testate. Mi ricordo ad esempio il Los Angeles Times. In ogni caso questi fogli, sinceramente, mi sembravano più quotidiani locali che vere fonti informative. Mi trovavo in una situazione molto strana. Una situazione interessante e per me decisamente nuova. Negli Stati Uniti esisteva (esiste) una specie di collo di bottiglia informativo di dimensioni nazionali. La situazione era così esplicita che, un paese con molti quotidiani come l’Italia, poteva apparire come una specie di covo di intellettuali d’alto livello. Questa ripetuta esperienza di lettura mattutina mi aveva intrigato. A me è sempre piaciuto leggere e trovavo conforto nella vista di altri lettori, in genere barboni, senzatetto e vecchiette rimbambite. I miei simili, i lettori di libri e giornali, sono considerati degli strambi, gente molto particolare. L’americano medio guarda la televisione.
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Quanto è abbastanza
Recensione del libro di R. ed E. Skidelsky
di Pierluigi Fagan
Questo è il titolo del libro uscito quest’anno ad opera di Robert ed Edward Skidelsky. Il primo, Robert, è un Lord britannico, professore emerito di economia, politicamente inquieto aderì ai laburisti, uscì per fondare il partito socialdemocratico, poi divenne conservatore ed infine membro del gruppo misto dei Cross Bencher. Il secondo, Edward è il figlio ed insegna filosofia. E’ autore di un rilevante studio su E. Cassirer. Skidelsky padre è meglio conosciuto come il più importate biografo ed esegeta di J. M. Keynes di cui curò una monumentale biografia in tre volumi e di cui esiste anche una utile riduzione (R. Skidelsky, Keynes, Bologna, Il Mulino, 1998).
Il principale merito del libro è portare un ulteriore contributo a quella posizione di pensiero che si muove in critica ed alternativa al pensiero economico dominante, in particolare per quanto attiene al dogma della crescita infinita. Dalla decrescita, all’economia della felicità, agli ecologisti, agli economisti dello stato stazionario, la pattuglia degli “obiettori della crescita”, include oggi anche un punto di vista keynesiano. E’ questo un segnale importante per il formarsi di una consistenza a favore di nuovi paradigmi ed è rilevante anche che questo contributo provenga dall’ambito anglosassone che è altresì l’Urheimat del dogma crescista, mercatista, liberale ed econocratico.
La tesi è doppiamente fondata. Da una parte sul concetto di “abbastanza”, cioè su una limitazione quantitativa che Skidelsky sr deriva da Keynes ed in particolare da un testo (da noi più volte citato) scritto nel 1931 “Possibilità economiche per i nostri nipoti” (in J.M.Keynes, Sono un liberale? Milano, Adelphi, 2010, p. 233).
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“Dopo il futuro: Dal Futurismo al Cyberpunk”
di Tiziana Terranova
Franco Berardi (Bifo), Dopo il futuro: Dal Futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della Modernità, DeriveApprodi, Roma 2013, pp. 136, € 14.00
In una delle sue lezioni al Collège de France, Michel Foucault offre questa spiegazione del rapporto tra il sapere dell’intellettuale e la lotta. Non spetta all’intellettuale esortare il popolo alla lotta (‘battetevi contro questo in tale o talaltro modo’), piuttosto quello che il sapere dovrebbe fare è dire, rivolgendosi a coloro che vogliono lottare, ‘se volete lottare, ecco dei punti chiave, delle linee di forza, delle zone di chiusura e di blocco’1. È chiaro che nonostante il titolo del nuovo libro di Franco Berardi sia carico di parole quale ‘dopo il futuro’ e ‘esaurimento’, esso non può fare a meno o non intende dissaduere dalla lotta, dalla ricreazione del futuro, non è un libro cioè che ci dissuade da quell’atto fondamentale per qualsiasi pratica politica costituente che è credere nel mondo. E tuttavia, da schizoanalista qual è, si tratta di un libro che pone pesantemente l’accento sui blocchi del desiderio e quindi delle lotte, o nei termini del libro, esso pone la centralità della questione della sensibilità, dell’empatia e dell’etica. Si tratta di un libro che pratica l’arte schizoanalitica della diagnosi, mettendo in evidenza tutta una serie di sintomi, culturali e sociali, che mostrano l’evoluzione e l’esaurimento di quella idea di futuro che ha giocato un ruolo fondamentale nei movimenti politici del novecento, e le conseguenze oggi del suo esaurimento.
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Inchiesta operaia e lavoro di riproduzione
di Alisa Del Re
Dall’ultimo numero di “Viewpoint Magazine” sull’inchiesta operaia, appena pubblicato
Uso politico dell’inchiesta operaia
La proposta originaria di una “inchiesta statistica sulla situazione delle classi lavoratrici” fu formulata per la prima volta da Marx nelle Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio dell'associazione internazionale dei lavoratori, nel 1867, poi ripresa nel 1880. L'intento era di portare alla luce quei "fatti e misfatti", relativi all'organizzazione del lavoro e al processo di produzione e di vita, che il potere borghese deliberatamente occulta o quanto meno mistifica.
Nel 1964 Raniero Panzieri[1] interviene sul tema “Scopi politici dell’inchiesta”[2] presentandolo in questi termini: “Noi abbiamo degli scopi strumentali, evidentemente molto importanti, che sono rappresentati dal fatto che l'inchiesta è un metodo corretto, efficace e politicamente fecondo per prendere contatto con gli operai singoli e gruppi di operai. Questo è uno scopo molto importante: non solo non c'è uno scarto, un divario e una contraddizione tra l'inchiesta e questo lavoro di costruzione politica, ma l'inchiesta appare come un aspetto fondamentale di questo lavoro di costruzione politica. Inoltre il lavoro a cui l'inchiesta ci costringerà, cioè un lavoro di discussione anche teorica tra i compagni, con gli operai ecc., è un lavoro di formazione politica molto approfondita e quindi l'inchiesta è uno strumento ottimo per procedere a questo lavoro politico”.
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Il "Nuovo Ardito Accordo Transatlantico"
Mentre i media ci informano assiduamente sui colpi di scena del teatrino politico nazionale, le trattative proseguono: istituzioni sovranazionali e grande business stanno negoziando l'accordo transatlantico per il commercio e l'investimento (TTIP) tra Unione Europea ed USA, che dovrebbe essere concluso per la fine del 2014. Corporate Europe Observatory pubblica un dettagliato report sulle conseguenze economiche, sociali e ambientali di questo nuovo patto. Con ogni probabilità s'innescherà un'altra corsa al ribasso sulle condizioni del lavoro e gli standard ambientali. A riprova di un semplice fatto: quando si lascia decidere al potere, il potere decide per se stesso.
Abbiamo tradotto la prima parte del report.
Introduzione
Il commercio transatlantico & l’utopia delle multinazionali
"Il gruppo più impaziente è il settore imprenditoriale. Siamo franchi su questo. Lo sapete, ovvio che intendo che la cosa è guidata politicamente, è guidata strategicamente. La questione di fondo è che il business vuole che questo avvenga, il business da entrambi i lati dell'Atlantico"
Andras Simonyi, della Johns Hopkins University 2
Il 13 febbraio 2013 il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e i leader dell’Unione Europea si sono impegnati ad avviare negoziati per un accordo transatlantico per il commercio e l’investimento (TTIP), noto anche come TAFTA (Accordo transatlantico per il libero commercio).
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Imperialismo globale e crisi
M. Castaldo intervista Ernesto Screpanti
È appena uscito il libro di Ernesto Screpanti L’imperialismo globale e la grande crisi. Lodevolmente, è stato pubblicato in edizione online scaricabile gratis. È un tentativo di spostare avanti, adeguandolo ai tempi, il dibattito sull’imperialismo. La globalizzazione sta realizzando una nuova forma di dominio imperiale nella quale il grande capitale multinazionale, attraverso il mercato, priva di sovranità e di autonomia politica le organizzazioni locali, i sindacati, i partiti e le istituzioni deliberative. La grande crisi del 2007-13 ha fatto esplodere le contraddizioni tra stato e capitale. Nello stesso tempo sta accelerando il processo di affermazione dell’imperialismo globale. Si configura come una crisi di transizione fra il sistema tardo-novecentesco delle relazioni e dei pagamenti internazionali e un nuovo sistema basato sul multilateralismo, su un Super-Sovereign Currency Standard e su una forma del tutto inedita del potere mondiale del capitale. Ho rivolto delle domande a Ernesto Screpanti per chiarire alcune questioni cruciali e per portare alla luce il senso in cui la sua analisi, che si presenta come altamente innovativa pur entro la tradizione marxista, ci permette di capire l’attuale fase dell’accumulazione capitalistica.
La differenza tra le tue tesi e quelle di Lenin sono legate a una nuova fase dell’accumulazione del capitale o si tratta di una diversa impostazione teorica nell’affrontare la questione?
Dai tempi di Lenin è cambiata non solo la fase dell’accumulazione, ma anche la forma del capitalismo. L’analisi di Lenin era adeguata per il capitalismo trustificato dell’era degli imperi coloniali.
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Cina: epicentro emergente del conflitto mondiale tra capitale e lavoro?
Beverly J. Silver - Lu Zhang
Nel modo in cui è spesso presentata, l'ascesa della Cina sarebbe parte di quel più grande, ed incontenibile, processo di globalizzazione che spinge le aziende ad internazionalizzarsi alla ricerca di bassi costi della manodopera. I lavoratori di tutto il mondo sarebbero così messi in competizione tra loro in una "corsa verso il fondo". Quello che Beverly Silver e Lu Zhang mostrano bene in questo articolo scritto nel 2008 è come anche nel caso cinese i lavoratori invece dimostrino di essere qualcosa di più che meri soggetti passivi di questi processi: "laddove va il capitale, segue il conflitto", come mostrano seguendo le lotte portate avanti dagli operai in Cina negli ultimi anni e di fatto anticipando la crescente importanza, innanzitutto numerica, dei conflitti operai nel gigante asiatico dimostrata dall'ondata di scioperi del 2010.
Una valutazione del ruolo della Cina nella divisione internazionale del lavoro e dei limiti che incontra la capacità del Capitale di governare la classe lavoratrice attraverso le classiche strategie di "riorganizzazione tecnologica e di prodotto", mostra come le lotte dei lavoratori cinesi stiano mettendo in discussione alcuni degli assi portanti dell'ordine capitalistico globale – come la competizione internazionale tra lavoratori e l' "ingannevole patto sociale del Neoliberismo" che garantisce la sostenibilità sociale della compressione dei salari reali proprio attraverso l'afflusso di merci a prezzo stracciato dalla Cina ed altri luoghi. Che questo poi si traduca in un miglioramento nelle condizioni di vita dei proletari di tutto il mondo, e che non si rischi piuttosto di passare "dalla padella alla brace", dipende anche da quello che noi, qui, sapremo farci degli effetti di queste lotte.
Dove va il Capitale, là corre il conflitto
Un tema diffuso nella letteratura sulla globalizzazione è che la rapida crescita dell’industria in Cina segna la fine della capacità di resistenza collettiva dei lavoratori nel Nord e nel Sud globalizzati.
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Il lato "oscuro" dell'eccezionalismo americano
di Diego Angelo Bertozzi

Nel suo discorso all'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 24 settembre scorso, il presidente statunitense Obama ha rilanciato il temi dell' "eccezionalismo americano" e della indispensabilità dell'impegno a stelle e strisce per il bene del mondo intero.
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L’unione monetaria europea e la crescita economica
Jacques Sapir
Gli esperti hanno affermato per anni che l’implementazione dell’unione monetaria europea, ossia l’”Eurozona”, avrebbe avuto degli effetti estremamente positivi sull’economia degli stati membri. Ricerche accademiche solidamente supportate dai dati contraddicono queste pretese.
L’argomento iniziale e le illusioni
E' stata largamente diffusa l’illusione che una zona monetaria con una sola valuta avrebbe generato un rapidissimo aumento dei flussi commerciali tra gli stati membri. Questa aspettativa deriva da studi teorici ed empirici, in particolare da quelli di Andrew K. Rose[1]. Questi scritti, basati su un gravity model [2], attribuivano grande importanza alla vicinanza geografica degli aderenti. Dando luogo a quello che è stato battezzato come l’”effetto Rose” e a una letteratura estremamente favorevole all’unione monetaria, questi studi consideravano le valute nazionali come un “ostacolo” al commercio internazionale [3]. L’integrazione monetaria doveva consentire una migliore interazione tra i cicli economici dei paesi aderenti [4]. Avrebbe anche dovuto portare a un accumulo di conoscenze, consentendo un forte incremento di produzione e di potenziali scambi [5].
In un certo senso, l’Unione Monetaria avrebbe creato le condizioni adatte al successo di un’”Area Valutaria Ottimale” [6], seguendo dinamiche che sembravano essere endogene [7]. Da cui le famose dichiarazioni di molti politici riguardo al fatto che, con la sua sola esistenza, l’Euro avrebbe portato una forte crescita tra gli stati membri.
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