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Pacifismo istituzionale italiano: maglia nera del pianeta
Intervista a Patrick Boylan
Alla Manifestazione nazionale "Facciamo insieme un passo di pace" (Firenze, 21-9-2014) è andato come osservatore il nostro Patrick Boylan. Invece di chiedergli un resoconto scritto, abbiamo voluto intervistarlo, in modo che, parlando a tu per tu e a titolo personale, egli potesse esprimersi più liberamente. Non ha avuto peli sulla lingua (25 settembre 2014)
REDAZIONE: Sei andato come osservatore, a titolo personale, alla Manifestazione nazionale Facciamo insieme un passo di pace tenutasi domenica scorsa (21-9-2014) a Firenze, nel magnifico piazzale Michelangelo che sovrasta la città. L'iniziativa è stata indetta dalla Rete della Pace, dalla Rete Italiana per il Disarmo, da Sbilanciamoci e dal Tavolo Interventi Civili di Pace per “dare voce a chi resiste e si oppone in modo nonviolento alle guerre, alle pulizie etniche, alle politiche di guerra, ai regimi dittatoriali, al razzismo, all’apartheid.” Che impressione ti ha fatto?
PATRICK BOYLAN: Terrificante. Un'enorme dispiegamento di mezzi per incanalare nel nulla l'angoscia che provocano nella gente le guerre sempre più vicine a noi: in Afghanistan, in Siria e in Iraq, in Ucraina, in Libia... Tranne per gli interventi sulla Palestina, l'evento sembrava costruito per smorzare le angosce, senza proporre azioni di contestazione – ad esempio, atti di disubbidienza civile che obbligano i manovratori delle guerre ad uscire allo scoperto.
Confesso che, da statunitense, mi sono assai stupito che gli USA non siano stati quasi mai nominati – un primato per una manifestazione contro la guerra nella nostra epoca. Ma non sono stati nominati, o solo raramente, nemmeno i governi presenti e passati italiani e degli altri paesi europei.
Eppure le truppe USA ed europee occupano ancora l'Afghanistan, no? L'aviazione USA ed europea ha devastato con le bombe la Libia ieri e ricomincia a farlo ora in Iraq e in Siria, no? Sappiamo che il conflitto in Ucraina è stato innescato da un golpe armato a Kiev preparato nelle caserme NATO della Polonia, dove venivano addestrate milizie neonazisti ucraine. Quindi sono stati gli USA e gli europei ad innescare il conflitto in Ucraina, no?
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Lo specchietto per le allodole dell’articolo 18
Militant
La discussione intorno al cosiddetto “jobs act” rischia di essere monopolizzata da una diatriba assolutamente fuorviante, quella cioè sulla presunta conservazione o abolizione dell’articolo 18. Non è quello il centro del discorso, anzi paradossalmente è l’aspetto meno decisivo della riforma proposta. Intendiamoci, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non solo è un perno centrale dei diritti dei lavoratori sul posto di lavoro perché protegge effettivamente i lavoratori dai licenziamenti ingiustificati, ma anche perché li protegge simbolicamente. Senza quel simbolo, vero e proprio argine ideale allo strapotere capitalista anche nei rapporti insiti nella formalità contrattuale, la deriva sarebbe inevitabile. Per intenderci, basta fare un esempio: in Spagna l’abolizione di un vincolo simile all’articolo 18 ha visto non solo l’aumento indiscriminato dei licenziamenti senza giustificato motivo, ma il corrispettivo indennizzo economico al lavoratore licenziato si è mano a mano ristretto fino a diventare una ridicola liquidazione di poche mensilità, anche solo due. Insomma, l’argine dell’articolo 18 permette anche – o forse soprattutto – il mantenimento di un alto eventuale indennizzo economico per cui potrebbe optare il lavoratore licenziato. L’azienda, cercando di impedire ad ogni costo il reinserimento del lavoratore, con l’articolo 18 è portata a pagare tanto l’eventuale licenziamento.
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La crescita dell’estrema destra e la fine del mito svedese
di Lorenzo Battisti*
Anche se ormai da tempo non corrisponde più alla realtà, per molti italiani l’immagine della Svezia è legata al mito di paese tollerante e solidale, con uno stato sociale avanzato e accogliente verso gli immigrati. Il famoso modello svedese che i socialdemocratici di tutto il mondo indicano come obiettivo.
La cultura popolare, da Stiegg Larsson a Henning Mankell, ci aveva avvertito che la Svezia non corrispondeva più a questo mito e che qualcosa di nero stava crescendo al suo interno. Sarebbe bastata un’osservazione più attenta per vedere i tanti mutamenti di questo paese oltre il mito. Con le elezioni di quest’anno, se non fossero bastate quelle del 2006 e del 2010, questo mito va in frantumi in maniera evidente e clamorosa.
Il social-liberismo trionfa anche in Svezia
Ha davvero dell’incredibile come questa visione mitica della Svezia abbia potuto resistere così a lungo. Il suo crollo infatti è cominciato molti anni fa, quando negli anni ‘70 il Partito Socialdemocratico è prima sceso sotto il 50% ed ha poi perso la guida del governo per la prima volta dopo 40 anni.
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Classi popolari: la "sinistra" prepara la vittoria di Marine Le Pen
Giuseppe Allegri
Il grande dibattito scatenato in Francia dal libro di Christophe Guilluy, La France périphérique. Comment on a sacrifié les classes populaires, un cowboy solitario percorre le lande desolate della sinistra che porterà al potere la destra reazionaria e sovranista del Front National.
***
Classes populaires. Le livre qui accuse la gauche. Questo il titolo a tutta pagina di Libération del 17 settembre (qui il resto del dibattito).
Mentre così apostrofa il celebre settimanale Mariannedella stessa settimana:“Le vere fratture francesi: un'opera esplosiva che spiega l'avanzata di Marine Le Pen”. Aggiungendo che c'è un solo libro che devono leggere Hollande, ma anche Valls, Mélenchon, Bayrou, Juppé, Sarkozy. Cioè tutta la classe dirigente repubblicana francese, dai socialisti moderati e al governo (Valls e Hollande) a quelli pseudo-radicali (Mélenchon), fino alla destra gollista ancora in apnea dopo la sconfitta presidenziale (Juppé e Sarkozy).
Qui l'intero dibattito del settimanale Marianne.
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Dalla povertà si possono tirare fuori un sacco di soldi
Ma anche un paio di premi Nobel (di troppo)
Arundhati Roy
A prima vista il mio libro potrebbe sembrare una critica un po' dura, ma nel rispetto di quella tradizione che riconosce il merito ai propri avversari, potrebbe anche essere letto come riconoscimento della visione, della flessibilità, della raffinatezza, e della determinazione incrollabile di un sistema al quale molti hanno dedicato la loro vita, riuscendo con il loro impegno a far sì che questo mondo restasse solidamente nelle mani del capitalismo.
È una storia coinvolgente, forse svanita dalla memoria del mndo contemporaneo, una storia che cominciò negli Stati Uniti all'inizio del XX secolo, quando venne trovata una forma legale - una legge - che istituiva le fondazioni, fu così che la filantropia delle aziende più ricche e potenti) cominciò a sostituirsi al ruolo finora svolto dalle attività missionarie per aprire la strada al capitalismo (e all'imperialismo) e ai sistemi di controllo del sistema.
Tra le prime fondazioni istituite negli Stati Uniti ci furono la Carnegie Corporation, finanziata nel 1911 con i profitti della Carnegie Steel Company, e la Fondazione Rockefeller, finanziata nel 1914 da JD Rockefeller, fondatore della Standard Oil Company. I più grossi finanzieri del loro tempo.
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Articolo 18, che? Renzi, Camusso ma soprattutto noi
di Andrea Fumagalli e Cristina Morini
In questi giorni si discute tanto dell’art. 18, un refrain che a fasi alterne diventa il fulcro della discussione sulle politiche del lavoro in Italia. Si tratta in realtà di una discussione surreale, perchè da tempo in Italia tale questione ha perso di qualsiasi parvenza di realtà. La “verità” è un’altra. L’art. 18 è già morto. Sul suo cadavere si gioca ben altra partita: il controllo diretto sui lavoratori/trici e l’istituzionalizzazione della condizione precaria come paradigma del rapporto capitale/lavoro.
* * * * *
Il dibattito sull’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è già superato nei fatti. La discussione in corso è puramente ideologica, strumentale per entrambe le parti in causa, cioè governo da un lato e sindacati tradizionali (specie la Cgil) dall’altro. Il governo accusa, ideologicamente, i sindacati di essere ideologici e di non occuparsi delle persone, di essersi sempre occupati solo degli occupati e non dei disoccupati, dei (supposti) garantiti e non dei precari (surreale: potremmo, proprio noi, dargli torto?). La Cgil risponde, su un piano altrettanto ideologico, che depotenziare ulteriormente l’art. 18 significa attaccare direttamente i diritti dei lavoratori, così come fece la Thatcher in Inghilterra alla fine degli anni Settanta, oltre 40 anni fa (in un contesto di valorizzazione e organizzazione del lavoro completamente diversi, tocca ricordare).
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“Come se avesse l’amore in corpo”
Rileggere i Grundrisse dopo il Capitale
di Riccardo Bellofiore
Il testo è una sintesi della relazione presentata oggi, all’Università di Bergamo, al convegno internazionale “Reading the Grundrisse” (Leggere i Grundrisse), organizzato dal dipartimento di Scienze Economiche, nell’ambito dell’unità di ricerca Prin 2006 (coordinata da Mario Cingoli dell’Università di Milano Bicocca), e promosso dall’International Symposium of Marxian Theory e dalla rivista anglosassone “Historical Materialism”
I Grundrisse sono un testo fondativo. L’enorme manoscritto va preso per quel che è: una frenetica, e geniale, stenografia intellettuale. Un testo pieno di ambiguità che hanno permesso letture contrapposte, caratterizzate ora dall’estremo soggettivismo, ora dall’estremo oggettivismo. A me pare che vadano letti in modo diverso da quello corrente, a “ritroso”, sullo sfondo del Capitale . Non nella sequenza inversa, che si è in qualche modo imposta: i Grundrisse “prima” del Capitale . Il che scivola, prima o poi, negli uni “contro” l’altro.
Nei Grundrisse Marx, che ha già ben chiara la distinzione tra “capacità lavorativa vivente” e il lavoro in quanto tale, come “attività”, si esprime ciò non di meno con grande ambiguità: una ambiguità che scomparirà pressoché del tutto nel Capitale. Marx parla, un po’ sbrigativamente, di scambio del “lavoro” con il capitale, uno scambio in cui il lavoro viene ceduto al capitale, e il capitale ottiene in questo scambio stesso ancora lavoro. Il lavoratore per la sua prestazione ottiene nient’altro che il “valore” di questo “lavoro”. Se si leggono queste frasi a partire dal Capitale , il loro senso si scioglie. Di altro non si parla se non della natura duplice del rapporto sociale tra capitale e lavoro: segnato, da un lato, dalla “compravendita” sul mercato del lavoro della forza-lavoro acquistata dal monte salari; dall’altro, dall'”uso” della forza-lavoro nel processo di produzione.
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I ribelli del Donbass
di Valerio Evangelisti
Putin “socialista”? Per quanto sembri incredibile, c’è chi pare crederlo veramente, sia tra chi lo appoggia che tra chi lo avversa. Poco importa che al recente Foro Nazionale della Gioventù di Seliger (riunione dei giovani del suo partito) abbia definito “traditori” i bolscevichi che, con la loro rivoluzione, minarono lo sforzo bellico russo nella prima guerra mondiale. Per qualche rottame della disastrata “sinistra radicale” italiana, o per i molti furbi che mascherano da nuova guerra fredda l’attuale, gigantesco scontro economico tra capitalismi per impossessarsi delle aree del mondo ricche di materie prime, Putin è una specie di Lenin (o Stalin, o Breznev) redivivo. Eroe per gli uni, spauracchio per gli altri.
Ciò annebbia ancor più la lettura corrente dei fatti d’Ucraina e della secessione del Donbass. Si tratterebbe di un conflitto tra democratici “europeisti” (a prescindere da un buon numero di fascisti e nazisti nelle loro fila) e “filorussi” (balle, sono russi e basta).
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Europa: speculazione a tempo
Un dialogo tra Slavoj Žižek, Srécko Horvat e Alexsis Tsipras
Igor Pelgreffi
Con Cosa vuole l’Europa? (2014) Ombre corte prosegue la pubblicazione di testi di Slavoj Žižek: se in Chiedere l’impossibile (a cura di Yong-june Park) uscito a fine 2013, era la riflessione di Žižek nel suo complesso l’oggetto esplorato, in Cosa vuole l’Europa?, scritto assieme al filosofo croato Srécko Horvat, il tema è più direttamente politico.
Sedici brevi interventi, otto a testa: un ping pong fra Žižek e Horvat nel quale gli autori tentano di mettere a nudo le contraddizioni economico-politiche che lacerano l’Europa odierna. Ciò che hanno in comune la bancarotta di Cipro, la necessità della Croazia per l’Europa, l’enigma (lo si insegna tuttora nelle scuole europee) dei Balcani, il caso dell’Islanda, oppure la «marcia turca» (pp. 73-77) è di essere focolai di contraddizione apparentemente marginali, ma in realtà profondamente intra-europei. Nell’impostazione mista tipicamente žižekiana, ossia materialistico-dialettica e psicoanalitica, tutti questi casi sono sia sintomi che reali centri-periferici di sofferenza europea. Ma, contemporaneamente, essi sono anche snodi virtualmente generatori di pensiero antagonista.
Per capire che cos’è l’Europa, l’altro (geografico o simbolico, poco importa) va sempre posto in rapporto dialettico con l’identità, come argomenta Horvat commentando Žižek: «lungi dall’essere l’Altro dell’Europa, la ex-Jugoslavia era piuttosto l’Europa stessa nella sua alterità, lo schermo su cui l’Europa ha proiettato il proprio rovescio rimosso» (p. 28).
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Tecno-laici e tecno-dissidenti
Lelio Demichelis
Basta distinzioni manichee tra tecno-entusiati e tecno-fobici. Basta considerarci dinosauri tecnologici e conservatori e magari anche reazionari solo perché osiamo cercare di far cadere il muro dell’ideologia della rete con un poco di sano pensiero critico. Basta con le retoriche ormai stucchevoli su come è bella la rete, su come è innovativa la rete e magari anche un poco anarchica e molto libertaria, quando è sempre più autoritaria e peggio del Grande Fratello (Big Data&Datagate).
Basta con le presunte rivoluzioni dei social network, fantasia dei tecno-entusiasti e dei tecno-feticisti occidentali per i quali basta cingettare per cambiare il mondo. E basta con le paginate ossequiose sull’internet delle cose e su come sono buoni e bravi gli oligopolisti della rete quando fanno un po’ di filantropia in giro per il mondo. E basta anche continuare a credere che la rete ci liberi dal lavoro e dalla fatica, visto che è accaduto esattamente l’opposto.
È ora di dire – laicamente e illuministicamente: basta! Dobbiamo essere orgogliosamente laici anche verso la nuova religione e la nuova chiesa della rete. Dobbiamo essere dissidenti contro il cyber-totalitarismo e chiedere e pretendere che la rete sia davvero democratica, davvero libera, davvero controllabile da adeguati contropoteri democratici.
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Come difenderci dai tentacoli di #Expo2015?
Dateci una mano!
Wu Ming
Premessa: cosa pensiamo di Expo 2015
Riteniamo Expo 2015 – «Nutrire il pianeta. Energie per la vita» – un Grande Evento Deturpante, Insensato e Indecente, preceduto e accompagnato da Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte.
Le inchieste della magistratura stanno rivelando un alto livello di corruzione e una robusta presenza delle mafie nel sistema di appalti e subappalti di Expo 2015. Finora i poteri che vogliono il megaevento sono riusciti a far finta di nulla, dando la colpa all’occasionale «mela marcia», ma a essere marcio è il cesto, la corruzione è insita nella logica del Grande Evento Devastante, Inaccettabile e Idiota.
Come lo stanno tirando su questo baraccone mangiasoldi pieno di fuffa?
Lo tirano su a colpi di deroghe e poteri speciali, come già visto per altre “grandi opere” e “grandi eventi”, dal post-terremoto in Abruzzo al TAV Torino-Lione.
Lo tirano su accaparrando risorse: costerà almeno 10 miliardi di fondi pubblici.
Lo tirano su sfruttando la gente: per tipologie contrattuali e condizioni di lavoro Expo 2015 è stata definita «un vero e proprio laboratorio della precarietà».
Lo tirano su aggredendo i territori, spianando parchi, gettando grandi colate di cemento, progettando nuove autostrade.
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Nell’occhio del ciclone
di Lanfranco Binni
Se perfino il più alto pastore della chiesa cattolica parla di terza guerra mondiale in corso, «a pezzi», non ancora globale, e allerta il suo gregge contro i lupi della guerra, gli spacciatori di armi, gli speculatori finanziari, i politicanti corrotti, e cerca di svegliare le sue pecore dal torpore servile e connivente, la situazione del mondo è davvero grave. Non bastano i disastri ambientali del «progresso» capitalistico che stanno distruggendo il pianeta, non bastano le tragedie delle migrazioni forzate di terra in terra in ogni direzione, non bastano le mutazioni antropologiche indotte dal «mercato», a trasformare in scimmie pseudotecnologiche gli esseri umani, a farne macchine per il consumo; tutto questo non basta, servono guerre e grandi devastazioni, per impadronirsi delle risorse energetiche e contenere la sovrappopolazione. E bisogna fare in fretta.
Il quadro geopolitico è drammaticamente chiaro: alla crisi strutturale del capitalismo finanziario, che da tempo ha superato i suoi limiti di «sviluppo sostenibile», l’Occidente statunitense ed europeo (ne fa parte anche Israele) risponde con strategie di aggressione e dominio, disgregando stati, disarticolando assetti istituzionali, intervenendo militarmente (direttamente o per procura) e attraverso le armi delle campagne mediatiche: la distruzione dell’Iraq, le «primavere» arabe per distruggere la Libia e la Siria, per normalizzare l’Egitto, la «primavera» ucraina per allargare ad est la Nato e l’area di «libero mercato» del trattato transatlantico, il massacro di Gaza per fiaccare la resistenza all’occupazione, prevenire gli accordi tra il governo palestinese e la Cina e sabotare l’istituzione di uno stato palestinese.
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Draghi e l’oracolo svelato
Antonio Lettieri
Il presidente della Bce ha realizzato tutto ciò che la politica monetaria può contro la crisi. Che – ha avvertito – non basta: serve anche la politica fiscale (ma non ha spazi) e più ancora le “riforme strutturali”, soprattutto la deregolazione del lavoro. L’ennesima riaffermazione di una linea economica fallimentare ma che cerca di distruggere il modello sociale europeo
La crisi finanziaria culminata negli Stati Uniti nell’autunno del 2008 col collasso della Lehman Brothers fu immediatamente paragonata a quella del 1929. Una rievocazione che generò un grande allarme a livello globale. Quale giudizio sulla crisi possiamo formulare a sei anni di distanza? Vi sono quattro punti che possono dare un senso al confronto.
1. Il primo riguarda il tracollo del sistema bancario che, in entrambe le crisi, ha fatto da innesco alla più generale crisi economica. Qui sta una prima rilevante differenza. La crisi bancaria dell’autunno del 1929 si aggravò irreparabilmente nei mesi e negli anni successivi. Erano già trascorsi più di tre anni, quando Franklin D. Roosevelt, giunto alla presidenza, di fronte al panico di massa, che creava lunghe file di risparmiatori di fronte agli sportelli delle banche, diventate icone memorabili della Grande Depressione, decise la chiusura temporanea di tutte le banche, mentre l’amministrazione si accingeva ad assumere iniziative straordinarie di riforma.
Per fortuna si tratta di scene consegnate alla storia. Profondamente diverso è stato il corso della crisi dei nostri giorni. La crisi bancaria americana dell’autunno nero del 2008 non è durata anni, ma un numero limitato di mesi. Nell’estate del 2009, dopo aver eseguito il primo stress test del dopo-crisi, Tim Geithner, ex presidente della Federal Reserve di New York, nominato da Barack Obama ministro del Tesoro, annunciò la fine dell’allarme rosso. Il salvataggio delle grandi banche americane era cosa fatta.
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L’Italia può uscire dall’euro?
Problemi e difficili soluzioni
di Enrico Grazzini
Si può uscire dalla trappola dell'euro e dell'Europa a guida tedesca? O saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell'eurozona, anche se l'euro-marco continua manifestamente a produrre una terribile crisi in tutta Europa, e in Italia in particolare? Quali sarebbero gli effetti dell'uscita dell'Italia? E' possibile lasciare la moneta unica e la politica deflazionistica ad essa indissolubilmente legata senza portare l'Italia alla rovina, ma anzi creando le condizioni per uno sviluppo sostenibile e autonomo?
La risposta non deriva solo da calcoli economici ma dipende dalle capacità politiche dei governi nazionali e dalle dinamiche internazionali. Infatti, dopo il dollaro, l'euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della UE ma una crisi geopolitica internazionale. Non a caso l'euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall'amministrazione Obama.
La tragedia dell'euro
E' indubitabile che, come hanno denunciato giustamente e con forza Alberto Bagnai1 e molti altri autorevoli economisti internazionali e nazionali, l'ingresso nell'euro sia stato un errore enorme e grossolano.
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Dall'Homo oeconomicus al fascismo finanziario
Federico Tulli intervista Andrea Ventura
L'inganno del Pil, il miraggio della felicità. La grave crisi economica che da anni attanaglia i cosiddetti Paesi avanzati affonda i suoi colpi senza soluzione di continuità provocando disoccupazione, iniquità sociale, clamorosi fallimenti e crack finanziari. Sin dai primi evidenti segnali di collasso (generalmente individuati nella truffa dei mutui subprime elaborata negli Usa oramai quasi 10 anni fa) la soluzione invocata in maniera praticamente univoca dagli economisti più in voga è la crescita. Questo nonostante negli ultimi decenni essa si sia legata a squilibri crescenti e di diversa natura: distribuzione del reddito sempre più disuguale, alterazione degli equilibri ambientali, perdita del legame tra aumento del Prodotto interno lordo e qualità della vita.
Sono molti gli elementi che chiamano pertanto a una riflessione su quale crescita debba essere cercata, superando l'idea che non sia necessario qualificarla e che i danni da essa provocati - quando non è pensata in modo armonico con il sistema in cui si inserisce - siano inevitabili e da affrontare separatamente.
Per orientarci in questo complesso scenario Cronache Laiche ha rivolto alcune domande ad Andrea Ventura, ricercatore presso la facoltà di Scienze politiche "Cesare Alfieri" dell'Università degli Studi di Firenze, curatore con la collega Anna Pettini, della raccolta di saggi Quale crescita. La teoria economica alla prova della crisi (L'Asino d'oro edizioni, 2014). Un volume che, con un linguaggio chiaro, concreto ed efficace, intreccia questioni centrali per il dibattito teorico - come la natura dei bisogni e la loro distinzione dalle esigenze, il tempo libero, la moneta, il ruolo degli economisti - con i temi dello sviluppo storico e dell'impegno politico.
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Yvon Quiniou, "Retour à Marx"
di Guido Grassadonio
Pubblicato in Francia nel 2013 dalla casa editrice Buchet-Chastel, Retour à Marx, di Yvon Quiniou, si colloca nel filone della “Marx renaissance”, dialogando in particolare con quell’area di studi marxologici e marxisti rappresentata da J. Bidet e L. Sève.
L’idea di fondo del volume è a primo acchito tutt’altro che originale: rianimare il marxismo come filosofia e come teoria/prassi politica, sulla spinta della crisi economica di vaste proporzioni che sta investendo l’occidente capitalistico, mettendo in discussione ordinamenti politici e idee da tempo sedimentate. E per fare questo, l’operazione teorica da compiere dovrebbe essere un, appunto, ritorno a Marx del marxismo, purificato dall’influenza nefasta del “cosiddetto” socialismo reale, fino a giungere a un superamento critico dello stesso leninismo.
YQ presenta il suo libro non come un testo “accademico”, ma come orientato a un pubblico il più possibile aperto; contemporaneamente il testo non ha però solo un orientamento didattico, ma propone alcune tesi di fondo e si colloca a pieno titolo all’interno del dibattito odierno attorno a Marx.
La tesi principale del testo è riassumibile in questa maniera: il comunismo è un’ipotesi tutt’altro che demolita dai fatti e nei fatti e, anzi, non ha ancora avuto alcuna esperienza “reale”, per motivi per lo più (ma non totalmente) comprensibili a partire dalle stesse teorie di Marx; solo “un’impostura semantica” ha potuto far credere che degli Stati socialisti/comunisti siano esistiti. La situazione attuale, poi, suggerirebbe sempre più la necessità morale di una svolta comunista in Occidente.
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Contro l’austerità per il primato dei diritti nella Costituzione
di Alfonso Gianni
Con la riforma dell’art 81, il Parlamento italiano si è assunto la storica responsabilità negativa di espungere la teoria keynesiana dalla nostra Carta. Per contrastare tale provvedimento è necessaria una mobilitazione dal basso: se il referendum rischia l’inammissibilità, ci sarebbe la strada della proposta di legge di iniziativa popolare...
Per cercare di apporre una foglia di fico su quello che stavano facendo, i sostenitori dell’inserimento nella nostra Carta del principio del pareggio di bilancio lo hanno chiamato “equilibrio tra le entrate e le spese”. Ma la sostanza rimane quella. Per la prima volta nella nostra Costituzione è stato posto un vincolo cogente sulla spesa pubblica, tale da mutilare una delle funzioni essenziali di uno Stato - la manovra di bilancio - e contraddire un filone fondamentale del pensiero economico del Novecento, quello che sostiene la necessità di aiutare lo sviluppo economico attraverso congrui e intelligenti investimenti pubblici e di farlo proprio nei periodi di crisi, anche in deficit.
In sostanza con quell’atto il parlamento italiano si è assunto la storica responsabilità negativa di espungere la teoria keynesiana dalla nostra Costituzione. A farlo è stata una maggioranza composita ed ibrida, guidata da Mario Monti. Dove non era giunto il neoliberismo nelle sue formulazioni classiche susseguenti al celebre manifesto di Mont Pelerin del 1947 e nelle sue espressioni politiche più coerenti è arrivato un governo, quale quello presieduto da Mario Monti, definito “tecnico”, che secondo alcuni avrebbe dovuto rappresentare una semplice transizione da Berlusconi verso una “democrazia normale”.
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La nemesi storica del capitale
Gigi Roggero intervista Christian Marazzi
Nonostante che si parli di necessità della crescita, le politiche economiche adottate in Europa sotto l’input tedesco vanno nella direzione opposta e la situazione rimane sempre critica. Christian Marazzi sottolinea come tale situazione prefiguri una sorta di nemesi del capitale. La sconfitta della classe operaia fordista negli ultimi trent’anni si ritorce oggi contro lo stesso capitale, orfano di un rapporto sociale antagonista che ne consentiva comunque la perpetuazione. La desalarizzazone e la decontrattualizzazione del lavoro (in una parola, la precarietà) è oggi infatti la causa principale del cul de sac in cui si dibatte la crisi, soprattutto europea.
***
Un secolo e mezzo fa Marx scriveva che non ci sono crisi permanenti, ma quella che oggi stiamo vivendo sembra averne le caratteristiche. Arrivati al suo ottavo anno, proviamo con Christian Marazzi a farne una periodizzazione, ad approfondire, mettere a verifica ed eventualmente ripensare le analisi che abbiamo fatto a partire dal 2007-2008. Ora qualcuno parla di una fase “post-austerity”: cominciamo con il capire se è davvero così e cosa questa fase significa realmente.
“Siamo nuovamente in una situazione in cui si addensano una serie di elementi di forte crisi, sicuramente nella zona euro ma anche su scala globale. Ciò avviene dopo un periodo durante il quale le politiche monetarie delle grandi banche centrali come la Federal Reserve, la Banca d’Inghilterra e la banca centrale giapponese, con forte iniezione di liquidità, avevano in qualche modo attenuato gli elementi strutturali della crisi.
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La morale della favola irlandese quattro anni dopo
di Alberto Bagnai
Nel post dei dieci milioni ho fatto notare che dove era un tempo dileggio e attacco personale si stava stabilendo un confronto costruttivo, basato su fatti osservabili. Questo a destra, perché a sinistra il confronto, come Leonardo ci ha illustrato (e poi ci torneremo) si basa sui sogni, il che lo rende fatalmente meno costruttivo, se non addirittura più distruttivo.
Devo dire che ho una certa nostalgia di un dibattito fact based. Il dibattito dream based, fra l'altro, porta una sfiga ladra: guardate com'è finita al povero Lennon (per fortuna Leonardo ha meno followers, il che abbatte la probabilità che ce ne sia uno sufficientemente sciroccato da abbattere lui)...
Nei miei primi interventi su lavoce.info l'atmosfera era assolutamente professionale, fact based e molto stimolante. Non so se ricordate La morale della favola irlandese. Quando lo pubblicai, i miei colleghi di dipartimento mi guardarono con altri occhi: "Hai pubblicato su lavoce.info!" (be', com'è andata poi lo sapete, comunque se Boeri vuole mandarci un lavoro io glielo pubblico...).
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La capitolazione finale: l'hausmanizzazione monetaria è compiuta
di Pasquale Cicalese
“..Se la Germania pretende di continuare a vendere più di quanto compra, e incita addirittura tutta l'Europa a seguirla nell'accrescere gli squilibri globali, o accetta moneta fasulla o il default dei debitori. Ancora una volta, in Europa un altro secolo breve è già cominciato.”. Guido Salerno Aletta, La zavorra parla tedesco, MilanoFinanza 23 agosto 2014.
Hanno il fuoco sotto il sedere. E gli rode, gli rode tanto. Hanno adottato all’unisono nel 2014 un nuovo verbo: investimenti! Come mai? Operano, secondo loro, dal lato della domanda e dell’offerta al contempo. Ne hanno necessità per un dato: dal 2008 nell’eurozona gli investimenti sono crollati del 20-25%, mai visto dal dopoguerra. Ma, aggiungono, devono essere corredati da “riforme strutturali”, in primis il mercato del lavoro. Sognano, come sognavano nell’estate del 2011. La Germania adottò il Piano Hartz IV del mercato del lavoro nel 2003 con i minijob, la contrattazione aziendale e con una feroce deflazione salariale.
Risultato? La percentuale degli investimenti in rapporto al pil in quel paese non arriva al 18% (esattamente il 17,9%) e lì ci sono 5 mila miliardi di euro di liquidità che non vengono investiti, parcheggiati in depositi e prodotti assicurativi e finanziari a rendimento zero; se lo si rapporta allo stato comatoso dell’economia italiana, dove la percentuale è pari al 17%, ci possiamo rendere conto che sbatteranno contro un muro. Nessuno in Europa ammoderna impianti, aumenta le spese in ricerca e sviluppo, costruisce infrastrutture, investe in alta ricerca: tutti operano in un sistema economico vecchio di almeno 20 anni. In Italia anche peggio: durante le Considerazioni Finali del 2009, quando ancora era governatore della Banca d’Italia, Draghi ebbe modo di affermare che “negli ultimi vent’anni la nostra è stata una storia di bassi consumi, bassi salari, bassi investimenti”.
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Il problema non è il debito pubblico — è il debito privato
Richard Vague
Su “The Atlantic” Richard Vague conferma che tutte le discussioni sul debito pubblico sono fumo negli occhi: tutte le recenti crisi finanziarie hanno avuto origine nel settore privato, come è molto facile dimostrare. Ma sui media mainstream di questo è vietato parlare, meglio continuare a rispondere alla domanda sbagliata
L’ex capo della Fed Alan Greenspan, discutendo sulla crisi finanziaria del 2008, ha scritto che “le bolle finanziarie capitano di tanto in tanto, e di solito con poco o nessun preavviso".
Questa conclusione deriva un’analisi delle crisi finanziarie diffuse nel mondo, partendo dal 19mo secolo, che ho condotto con i miei colleghi e riassunto nel nuovo libro The Next Economic Disaster. La logica della nostra conclusione è evidente nei diagrammi qui sotto.
Date un’occhiata a questo grafico:
Crisi del 2007-2008: PIL U.S.A., debito pubblico e debito private (in miliardi di dollari)
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Obama, Isis e medioriente: il ritorno dell'instabilità costruttiva?
di l.c.
Introduzione: venti di guerra medio-orientali
Ci risiamo. I venti di guerra tornano a soffiare sul Medio Oriente (in realtà non hanno mai smesso...). Nella notte alla vigilia dell'anniversario dell'attacco alle Torri Gemelle, Obama ha annunciato la nascita di una vasta coalizione volta a distruggere l'ISIS, l'Esercito Islamico dell'Iraq e del Levante.
A poche settimane dall'uccisione, in mondovisione, di due giornalisti americani rapiti in Siria tra il 2012 e il 2013, gli Stati Uniti si sono impegnati, per bocca del loro presidente, a “guidare un'ampia coalizione con l'intento di mettere fine alla minaccia terroristica di ISIS”. Il piano americano prevede quattro punti fermi.
In primis una campagna di attacchi aerei in Iraq e in Siria (“We will hunt terrorist wherever they are, that means I won't hesitate to take action in Syria as well as in Iraq.”).
In secondo luogo un sostegno in chiave di addestramento, equipaggiamento e intelligence alle forze operanti sul terreno che combattono ISIS (“Train and equip syrian opposition to fight against ISIL. We cannot rely on Assad regime that terrorizes its own people and will never regain legitimacy has lost...”) attraverso un rafforzamento dell'opposizione al regime di Assad come controbilanciamento alle forze di ISIS.
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Brevi note critiche al "Capitale nel XXI secolo" di Thomas Piketty
Sebastiano Isaia
C’è ingegno in questa testa:
se potesse uscire… (W. Shakespeare).
Scrive Thomas Piketty nel suo ormai celebre (e “monumentale”: 928 pagine nella sua versione italiana recentemente pubblicata da Bompiani) studio sul Capitale del XXI secolo: «La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze hanno permesso di evitare l’apocalisse marxista, ma non hanno modificato le strutture profonde del capitalismo e delle disuguaglianze. […] Tuttavia, esistono strumenti in grado di far sì che la democrazia e l’interesse generale si riprendano il controllo del capitalismo e degli interessi privati, senza peraltro fare ricorso a misure protezionistiche e nazionalistiche» (1).
Sorvoliamo sull’«apocalisse marxista», suggestiva locuzione che allude a quell’ideologia crollista elaborata da non pochi zelanti epigoni che con il maestro di Treviri c’entrano assai poco (salvo che non si voglia inchiodare il poveretto a singole frasi di stampo “apocalittico”); chiediamoci piuttosto quando la democrazia e il cosiddetto «interesse generale» hanno avuto «il controllo del capitalismo e degli interessi privati». La mia risposta è: mai.
Come ogni intellettuale borghese che si rispetti, l’economista progressista francese crede – ancora oggi, nonostante tutto – alla sostanziale primazia del politico sull’economico (2), che secondo lui avrebbe caratterizzato i mitici «Trente glorieuse» o «golden age», ossia il periodo che va dal 1945 al 1975. Salvare il “lato buono” del Capitalismo (democrazia, diffusione delle conoscenze e delle competenze) segando gradualmente, attraverso misure economiche tese a colpire la rendita finanziaria (quale inusitata originalità di pensiero!), il lato cattivo di esso, «potenzialmente minaccioso per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano», è per Piketty una questione di «volontà politica».
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Vieni avanti, ennesimo cialtrone
di Olympe de Gouges
All’estero ha avuto molta eco il libro di Thomas Piketty dal titolo Il Capitale nel XXI secolo, e c’è da credere che anche in Italia, dove è appena uscito, farà molto discutere senza peraltro essere letto da molti che ne parleranno. Vale la pena acquistare e leggere questo libro di 928 pagine? Dipende da ciò che ci si aspetta e soprattutto se si è disposti a dare retta alle molte fraudolente bugie che racconta, e credere che l’origine della disuguaglianza di reddito sia anche la causa fondamentale delle crisi capitalistiche (e non semplicemente un effetto, per quanto dirompente), e che tale disuguaglianza possa essere ricomposta in qualche modo per via politica, con una tassazione progressiva della ricchezza. Ecco dunque in sintesi la tesi fondamentale di questo ennesimo cialtrone.
Dico subito che non m’interessa perdere tempo con tali cialtronate proposte a buon mercato dagli indirizzi e dalle scuole del pensiero borghese. Né sarà tema di questo post – ma di un prossimo – il trattamento che questo Achille Loria del XXI secolo riserva nel suo libro a Marx, volgarizzando e falsificando in modo indecente, nel sesto capitolo, la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, spacciandola anzi per sua, e sostenendo che la legge scoperta da Marx non avrebbe supporto ed evidenza matematica!
Va comunque ancora una volta rilevato che in alcun modo la teoria economia borghese, sempre più in crisi, ha interesse a fare riferimento alle leggi concrete e reali di movimento del sistema economico capitalista, perché ciò porterebbe in luce le contraddizioni reali ed oggettive del modo di produzione capitalistico, e ciò sarebbe oltremodo pericoloso dal punto di vista politico e dell’ordine sociale.
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1914: l’arte di ripensare l’epoca del grande conflitto europeo
Un saggio di Luciano Canfora
Roberto Donini
Avvicinarsi\allontanarsi come in un film
A volte le date e le ricorrenze della Storia, paiono davvero misteriosamente intrecciarsi e l’arte dello storico è rinvenire i capi del nodo. La riedizione del fulminante saggio di Luciano Canfora 1914 (Sellerio), la cui prima uscita è del 2006, ha questa sorte, celebra i 100 anni dell’avvio della grande guerra in presenza di un’Europa sofferente che vede ai suoi bordi l’accendersi di conflitti violentissimi. Nell’indagare meglio i densi di incroci temporali del libretto, partirò da una marginale nota autobiografica. L’ho letto esattamente nei giorni tra il 28 luglio (bombardamento di Belgrado e inizio della guerra tra Austria e Serbia) e il 2 agosto (inizio della guerra tra Germania e Francia) 100 anni esatti di distanza e per di più passeggiando tra le residue trincee dell’Adamello-Tonale-Brenta il cosiddetto fronte centrale italiano. Un’ immersione spazio-temporale che forse ha esaltato del testo anzitutto i caratteri cinematografici, o meglio cinetemporali. Infatti il testo ha il pregio narrativo di spostare il lettore nei giorni convulsi del precipitare della crisi (montaggio incrociato serrato tra cancellerie \ il finale del Padrino parte III), poi indietro (flashback) ai presupposti, nella bella epoque, e in avanti, agli scenari della “guerra civile europea” (flashforward). Ovviamente c’è un ritmo e una consistenza diversa tra i movimenti; all’accenno di passato e futuro, succede il dettaglio dell’attimo fuggente, di quell’estate di “fine Europa”.
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