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It's the immigration, stupid
Dalla proibizione alla tassazione della immigrazione
di Stefano Bartolini
Si muovono progetti innovativi nella sinistra europea. Una parte dell'establishment della sinistra radicale, come il francese Melenchon leader del Parti de Gauche, il tedesco Lafontaine guru della Linke, Varoufakis in Grecia, Fassina in Italia e - pare - il nuovo leader del Labour inglese Corbyn - lavorano a un progetto europeo di una sinistra che si presenterebbe alle varie elezioni nazionali in nome di una agenda comune: l'uscita dall'Euro. L'euro per come è stato costruito e gestito è una prigione insopportabile per molti popoli. Il piano A è cambiarlo. Ma se non fosse possibile dobbiamo avere un piano B ed è l'uscita. Se l'unica alternativa è tra stare dentro o fuori da una prigione, meglio fuori - anche se fuori non è un granché.
Non discuterò se l'uscita dall'euro sia o meno desiderabile, per concentrarmi invece su questo: quali possibilità ha questo progetto di far uscire la sinistra radicale europea dalla sua marginalità? In sostanza, quanti consensi elettorali può portare questa agenda? Funzionerà o sarà l'ennesimo buco nell'acqua?
Un grosso punto a favore è che economisti del calibro di Stiglitz, Piketty, Galbraith sembrano disposti ad appoggiare decisamente questa agenda. L'importanza di questo non dovrebbe essere sottovalutata: sono molti decenni che l'accusa principale che viene rivolta alle ricette economiche di sinistra è che, quando sono state sperimentate, si sono rivelate fallimentari. In sostanza la sinistra radicale viene accusata di non intendersi di economia. Diventerebbe surreale rivolgere questa accusa a premi Nobel per l'economia.
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Poste italiane: una decisione sbagliata
di Salvatore Biasco
Dopo giorni in cui abbiamo visto campeggiare sui giornali a tutta pagina “Il cambiamento siamo noi” Poste Italiane, è giunta alla quotazione. Il cambiamento (almeno parziale) è certamente quello della proprietà: lo Stato ha venduto ai privati circa il 35% della sua quota di possesso, finora totalitaria, (20% a investitori istituzionali), associandoli nella gestione. La prospettiva in cui questo si iscrive è, però, più nebulosa.
Occorre chiedersi in nome di quale strategia per il Paese ciò stia avvenendo e se non ricominci la stagione delle alienazioni del patrimonio pubblico per puro scopo di cassa. Non voglio entrare nella discussione generale sulle privatizzazioni - che poi tanto generale non è, perché abbiamo studi specifici sul loro esito in Italia (dal quarto volume sulla Storia dell’Iri, ai lavori puntuali di Massimo Florio, al giudizio della Corte dei Conti) – ma voglio fermarmi sulla specificità del patrimonio che ora viene sottoposto alla logica della Borsa.
Parto da una considerazione (ormai) inconsueta che prescinde per un momento dalle logiche aziendali. L’assetto attuale e l’evoluzione inevitabile (e annunciata) verso un azionariato di tipo public company, oppure di tipo Enel, fa perdere a Poste la vocazione come parte di uno spazio condiviso tra Stato e cittadini, che le è sempre appartenuto; quello spazio che è tra gli elementi della coesione sociale. Lo Stato italiano dalla sua formazione, era presente e identificato nel territorio con le Ferrovie, le Poste, la scuola elementare e i Carabinieri. E questo è entrato talmente nella coscienza popolare da aver radicato il convincimento che la presenza fisica dell’ufficio postale sia parte del servizio universale, quindi un diritto di cittadinanza (quando lo è di fatto solo la consegna della corrispondenza).
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Gli attentati di Parigi: a proposito di due articoli molto citati nel dibattito pubblico di questi giorni
di Italo Nobile
Gli attentati terroristici di Parigi hanno dato luogo al solito dibattito d’occasione in cui alla fine vecchie analisi e vecchie soluzioni vengono contrabbandate per nuove. In questi giorni stanno circolando due articoli, uno di Limes e uno di Famiglia Cristiana che stanno raccogliendo consenso anche a sinistra. L’analisi e la critica di questi due approcci crediamo sia propedeutica ad una analisi di più largo e lungo respiro.
Il primo articolo, quello di Limes, “Parigi, il branco di lupi, lo Stato islamico e quello che possiamo fare” è di Mario Giro, esponente della Comunità di San’Egidio e sottosegretario dell’attuale governo Renzi (oltre che del precedente governo Letta). Ridotto all’osso il suo ragionamento è questo:
Il protagonista del conflitto non è l’Occidente ma il mondo islamico e la nostra priorità è rimanere in Medio Oriente e spegnere la guerra di Siria. Sia la premessa analitica (il conflitto è islamico) sia la conclusione operativa (dobbiamo rimanere là) sono, nonostante il tono moderato e apparentemente pacifista, due punti che attestano il carattere mistificatorio della proposta contenuta nell’articolo. Vediamo più nel dettaglio.
Giro, a parte l’iniziale richiesta di dissociazione anche da parte islamica dello jihadismo (richiesta ridondante e puramente cerimoniale), dice che questa guerra che sta avvenendo in Siria non è la nostra, ma è una guerra interna all’Islam che si sta facendo dagli anni Ottanta. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici di diverse potenze regionali musulmane (Paesi del Golfo, Iran, Egitto, Turchia) nel quadro geopolitico della globalizzazione.
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Un mondo sbagliato produce atti sbagliati
Non rinunciamo a riflettere di fronte all’orrore
di Saïd Bouamama
Mentre scriviamo il bilancio degli attentati di Parigi è di 128 morti e 300 feriti. L’orrore di questa violenza ingiustificabile è totale. Altrettanto totale deve essere la condanna, senza se e senza ma. Gli esecutori e/o i mandanti di questi ciechi omicidi non possono addurre alcuna legittima ragione per giustificare queste azioni sbagliate. La tragedia che stiamo vivendo potrà sfociare in un risveglio collettivo delle coscienze o, al contrario, in un processo di drammatica riproduzione.
Tutto dipende dalla nostra capacità di trarre insegnamento da questa situazione. L’emozione è legittima e necessaria, ma non può essere l’unica risposta. La risposta securitaria, da sola, è inefficace. È proprio in questi momenti, segnati dall’emozione collettiva, che non dobbiamo rinunciare alla comprensione, alla ricerca delle cause, e alla lucidità di fronte alla strumentalizzazione dell’orrore.
Le posizioni in merito alla nostra tragedia
Nel giro di poche ore è stata dispiegata tutta la panoplia delle possibili posizioni in merito alla tragedia. Non è peregrino soffermarci su ciascuna di esse.
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BCE, il colossale fallimento del quantitative easing
di Thomas Fazi
Dopo otto mesi di quantitative easing, l’eurozona è più debole che mai. Ecco perché
A più di otto mesi dall’avvio del programma di quantitative easing della BCE, Mario Draghi e i vari leader nazionali non paiono avere dubbi: «Il programma è stato un successo». Ma tutto questo entusiasmo è giustificato? Guardiamo i numeri. Partiamo dal tasso d’inflazione. Com’è noto, il mandato della BCE prevede un solo obiettivo – il mantenimento del tasso d’inflazione ad un livello vicino al 2 per cento – ed è dunque normale giudicare l’operato della banca centrale innanzitutto in base a questo parametro, anche perché uno degli obiettivi dichiarati del QE è proprio quello di far riavvicinare l’inflazione all’obiettivo del 2 per cento. Bene, da questo punto di vista i dati parlano chiaro: ad ottobre l’inflazione è tornata negativa (-0,1 per cento, manco a farlo apposta esattamente lo stesso livello registrato a marzo di quest’anno, quando la BCE ha avviato il suo programma di acquisto titoli).
Ma sarebbe un errore attaccarsi allo “zero virgola”. La situazione è ben più grave, infatti: la verità è che è il tasso d’inflazione medio dell’eurozona, senza considerare gli enormi differenziali di inflazione tra paesi, è inferiore all’obiettivo dichiarato del 2 per cento dalla fine del 2012 e inferiore all’1,5 per cento – sotto il quale possiamo parlare de facto di deflazione – dall’inizio del 2013. In altre parole, da quasi tre anni.
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Facebook: junk emotion
Riccardo Manzotti
Le emozioni, a parte quelle elementari, non sono innate. Si imparano. Si assimilano. Si imitano. Si inventano. Le emozioni hanno mille sfumature. Rendono la vita più ricca o più dolorosa. Sebbene siano personali e private, poche cose premono con maggiore forza per essere espresse e gridate. A volte ci guidano bene e a volte ci consigliano male. Sono intime, ma le usiamo per comunicare. In questo ruolo ambiguo, tra interiorità e mondo esterno, arriva la nuova possibilità di interazione di Facebook – sei emozioni per esprimere il proprio stato mentale e giudizio. Invece del solito like azzurro, ci sarà una barra sulla quale compariranno sette emoticon, sette simboli animati che rappresentano altrettante emozioni convenientemente espresse da mono-bisillabi. Oltre al già noto like, arriverà l’amore love, la risata haha, la gioia yai, la sopresa wow, la tristezza sad e la rabbia angry. In questo modo, secondo Chris Tosswell, responsabile dei prodotti di Facebook, gli utenti avranno “più modi per celebrare, commiserare o ridere insieme”. Le nuove icone emotive daranno “più possibilità di esprimere una reazione a un post, in maniera semplice e veloce”. Tutto bello, ammiccante e divertente.
Benvenuti nella società delle Junk emotion – emozioni semplici, chiare, poche e uguali per tutti. Perché sforzarsi di trovare le parole giuste per descrivere un sentimento quando si può attivare una bella emoticon già pronta, disegnata così bene che – siamo sicuri! – tutti la troveranno simpatica. E poi il numero ridotto facilita la scelta. Poche semplici emozioni che ci guideranno anche nella vita quotidiana e che, finalmente, saranno sempre le stesse. Finite quelle complicazioni inutili e decadenti dove si cercava il mistero di una emozione attraverso metafore sottili – la tristezza che avvolge come il miele di Guccini, i sottili dispiaceri di Battisti, le lucide follie di Vasco, le gradazioni di Flaubert, le impalpabili tessiture di fumo di Musil.
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Il silenzio che uccide ancora
Quarta strage terroristica nel cuore dell'Europa
Patrick Boylan
Dopo la notte di terrore a Parigi avvenuta il 13 novembre, i mass media sono riusciti – ancora una volta – a pilotare le nostre reazioni. Quando impareremo a non lasciarci manipolare?
Undici anni fa (11-3-2004) una serie di bombe esplosero nella metropolitana di Madrid, uccidendo 191 passeggeri. E' stato il primo atto terroristico condotto sul suolo europeo in risposta alle guerre di occupazione europee e statunitensi, prima in Afghanistan (2001) e poi in Iraq (2003) – guerre, peraltro, senza l'autorizzazione ONU e quindi del tutto illegali.
L'anno successivo (7-7-2015) quattro bombe terroristiche esplosero nella metropolitana e in un autobus di Londra, causando complessivamente 56 morti: è stato il secondo contrattacco jihadista sul suolo europeo . E il motivo è stato identico al primo, come dichiarò poi uno degli attentatori londinesi, un musulmano trentenne di origine pakistano: “Ogni giorno il governo da voi eletto democraticamente commette delle atrocità contro il mio popolo, in ogni angolo del pianeta; la vostra complicità con il vostro governo vi rende direttamente responsabili [di queste aggressioni].”
Pochi giorni dopo quell'attentato a Londra, io scrissi, per un giornale online dell'epoca, un editoriale intitolato “Il silenzio che uccide .” Mi meravigliavo che, dopo il loro lutto, i britannici non avessero provato anche un moto di rabbia contro un governo che li ha messi nel mirano di possibili attentatori, attaccando ed occupando illegalmente due paesi che non rappresentavano alcuna minaccia alla sicurezza nazionale e la cui unica “colpa” era quella di possedere vaste riserve di petrolio o una posizione geografica strategica
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Paris (après Beirut)
di Raffaele Sciortino
A qualche giorno dai fatti parigini - tra il dolore e lo sconforto dei più, l’ipocrisia ben celata dei pochi - si può tentare, cautamente, un esercizio di verità? Forse. Ma, va detto, solo se si evitano semplificazioni e comunque non senza derogare al politically correct. Si tratta al momento solo di un esercizio di analisi, privo di ricadute pratiche, oltretutto per una piccolissima minoranza. Ma neanche va sottovalutata la possibilità che, tra i discorsi deliranti che gioco forza montano in un mondo sofferente e a sua volta delirante, faccia capolino una sensibilità diversa e trasversale in grado (ancora) di porsi qualche domanda di fondo sul luogo storico che ci capita di abitare.
Dunque quanto è successo a Parigi è un atto di guerra? Già ma allora verrebbe da chiedersi e approfondire: guerra tra chi e per che cosa? Però, nel proliferare di differenze della tanto decantata società dell’informazione pullulante di social network, reti all news, notiziari, giornali e quant’altro, difficilmente si troverà una risposta che si discosti da un (sospetto) unanimismo: guerra della barbarie e della follia contro la civiltà (la nostra, dove il crinale tra umori di destra e di sinistra sta solo nel se, quanto e come la si possa estendere agli altri). E mentre le sparute voci che sollevano qualche dubbio sono condannate all’irrilevanza dall’inflazione di flussi accelerati spacciati per conoscenza, si fa strada tra i più l’idea (autoconsolatoria ma non per questo meno effettiva) che finalmente anche chi ha sbagliato - finanziando e armando l’Isis - adesso avrà capito e tutti insieme, russi compresi, potremo sconfiggere militarmente il mostro.
E invece le cose non sono affatto così semplici, lineari. Se di guerra si tratta, ed è così, è una guerra complessa, a più strati, dalle logiche perverse, dove tra ras distribuiti sui territori e mandanti, globali e regionali, occidentali e non - che del Medio Oriente non da ora hanno fatto una riserva di caccia - chi è sull’avanscena spesso non gioca il ruolo principale. Può suonare brutale ma le stragi di Parigi sono di questa situazione un effetto collaterale (scandaloso l’uso di questo termine, si può usare solo per le masse di cadaveri senza nome e volto fuori del mondo occidentale?). Vos guerres, nos morts.
Proviamo a dipanare un po’ il groviglio individuando le distinte ma sovrapposte dimensioni degli attacchi parigini, fatti e antefatti, e vediamo se per caso non ci sia una logica nella follia.
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La strage di Parigi
di Spartaco A. Puttini
La strage di Parigi è senza precedenti. E' dal 1961 che la capitale francese non si trovava in stato d'eccezione. All'epoca era in corso un tentativo di putsch da parte dei terroristi di estrema destra dell'OAS, contrari all'indipendenza dell’Algeria, contro il gen. De Gaulle.
La rivolta delle banlieu del 2005 non è assolutamente raffrontabile alla situazione attuale.
Di fatto si è trattato di un'azione di guerra, compiuta da gente che la guerra la conosce, l'ha fatta e la sa fare. La dinamica di piccole unità che entrano in azione autonomamente ma in modo coordinato praticando il terrorismo contro la popolazione civile al fine di seminare la strage e colpire la convivenza e la vita civile di una comunità richiama alla mente azioni analoghe compiute in Siria nel 2011 (e da allora in poi), con i gruppi terroristi di matrice jihadista e salafita che bestemmiavano Dio al grido di "Allah Akhbar!" mentre trucidavano le loro vittime.
All'epoca, i media mainstream e settori dell'antagonismo di matrice "idiotista" parlavano di rivolta democratica brutalmente repressa dal regime di Assad. Questa volta sembrano mostrare una maggior decenza e non arrivano ad accusare Hollande delle vittime.
Il fine dei gruppi terroristi in Siria consisteva e consiste nello scardinare lo Stato, abbattere la Repubblica, rendere impossibile la convivenza, far collassare la società.
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Perchè a Parigi?
di Elisabetta Teghil
Centinaia di morti civili sono all’ordine del giorno nei paesi mediorientali, ma la notizia scivola come un dato di cronaca senza provocare particolare commozione. Quando questo avviene in un paese dell’Europa occidentale suscita una mobilitazione e un interesse assolutamente diverso e più importante rispetto a tanti analoghi episodi che tutti i giorni insanguinano quegli sfortunati paesi.
Dove sta la differenza? Forse la risposta ce la dà Aimé Césaire: ”Ciò che il borghese del XX secolo, tanto distinto, tanto umanista e tanto cristiano, non riesce a perdonare a Hitler, non è il crimine in sé, l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa procedimenti colonialisti, riservati, fino a quel momento, agli arabi d’Algeria, ai coolies dell’India e ai neri africani”.
Tutto è cominciato quando gli Stati Uniti, appoggiandosi per motivi geopolitici al governo pakistano, hanno foraggiato, finanziato ed armato la parte più retriva della società afghana, nella fattispecie i Talebani, che hanno rovesciato in un crescendo di violenze inenarrabili un governo democratico e progressista .Gli Usa, forti di quel successo e del concorso di una sinistra riformista e socialdemocratica che ha partecipato in vari modi a quei delittuosi avvenimenti, hanno replicato il gioco in tanti altri paesi. Per ricordare gli ultimi l’Iraq, la Libia e, attualmente, la Siria. I morti civili in quei paesi sono tanti e tali che è praticamente impossibile darne il numero se non con approssimazione, ma si tratta certamente di milioni. Sempre a questo proposito, il colonialismo è stata la disumanizzazione di popolazioni intere ed è stato realizzato attraverso il terrore assoluto fino a rendere vana l’idea stessa di resistenza. Tutto ciò sta avvenendo nei confronti dei popoli mediorientali con la creazione e il sostegno materiale e finanziario dell’Isis da parte degli USA che si sono appoggiati, in questo caso, agli Stati più reazionari di quell’area geografica, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Turchia.
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Escalation della guerra permanente
Salvatore Palidda
Chiunque può dire: io o qualche mio familiare o amico avremmo potuto essere fra i massacrati nei luoghi della strage di Parigi. Allora siamo tutti in guerra? Ma io o i miei familiari e amici non abbiamo dichiarato alcuna guerra, non abbiamo fatto alcun gesto ostile contro nessuno. Cosa fare? Sperare nella protezione di chi promette «Saremo spietati!», dare loro pieno sostegno?
Contrariamente a quanto sciorinano tanti commentatori, la strage di Parigi non è un fatto orrendo mai accaduto in Europa o nel resto del mondo. Al di là della macabra contabilità da becchini, basta ricordare le bombe di un mese fa contro i manifestanti pacifisti in Turchia, o del 2004 alla stazione di Madrid, o le stragi di palestinesi con le bombe al fosforo israeliane, e centinaia di altri massacri. Secondo Claudio Magris siamo alla quarta guerra mondiale, dopo la terza – la guerra fredda, dal 1945 al 1989 – che ha fatto circa 45 milioni di morti; il Papa e altri ripetono da tempo che siamo alla terza guerra mondiale. La guerra è il fatto politico totale che s’è imposto e pervade tutto e tutti. Come tutte le guerre anche quella odierna – che non si svolge contro stati nemici e non è regolata da norme internazionali – i contendenti coinvolgono la popolazione civile massacrandola, e chiedendo il suo sostegno per proteggerla.
Ma chi sono i contendenti di oggi? Come siamo approdati alla guerra attuale? Colla «memoria corta» che viene alimentata nei paesi cosiddetti occidentali, usi a presentarsi quali «santuari di pace» in un mondo di guerre, si ignora il processo che ha portato all’attuale guerra permanente.
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L'11/9 della NATO?
di Piotr
1. Francia, paese Nato.
La serie di attentati in Francia che ha stroncato la vita a un numero impressionante di innocenti solleva subito una questione cruciale che si pone a un livello successivo alla disamina e alle disquisizioni su cosa è successo veramente e sui punti oscuri che inevitabilmente salteranno fuori, come nel caso di tutti, ripeto tutti, gli atti terroristici, non ultimo quello contro Charlie Hebdo.
Al di là dello schema solito, che sembra ormai un marchio di fabbrica, dei passaporti degli attentatori trovati subito dopo gli attacchi, come già alle Torri Gemelle, come già al Pentagono, come già al Charlie Hebdo, la storia moderna è costellata di punti oscuri di questa natura. Anche pensando a cose ben più nobili come il nostro Risorgimento, le stesse azioni di sovversione armata dei nostri patrioti (si pensi alla spedizione dei Mille) e i loro attentati (si pensi a Felice Orsini), non erano immuni dai giochi tra potenze che si svolgevano allora in Europa. Quindi lasciamo queste cose per ora in sospeso e passiamo oltre.
La domanda è, dunque, "Come reagirà la Nato?"
Già, perché la Francia è un paese Nato sotto attacco. Quindi a rigor di logica, la Nato dovrebbe intervenire per difenderlo. Questa è l'ipotesi a caldo.
Gli azzeccagarbugli dell'Alleanza Atlantica dovranno scovare le giustificazioni statutarie, ma, se c'è la volontà e possibilità politica, la fatica non sarà poi molta, visto che la Nato è per lo meno dai tempi del Kosovo che ha deciso di fare quello che vuole in barba alla sua stessa natura ufficiale e alle regole che la rispecchiavano.
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La strage di Parigi e l’era della disumanizzazione di massa
Claudio Valerio Vettraino
Sebbene sconvolti dobbiamo cercare di fare nostro il motto spinoziano, “non piangere né ridere ma comprendere”. Dobbiamo, anche se non è facile, analizzare ciò che è successo e focalizzare la nostra attenzione su ciò che ci può aiutare a capire come sia stata possibile una mattanza di questo genere.
Il primo elemento, a mio avviso, è che non abbiamo a che fare con il terrorismo “classico”, diciamo cosi novecentesco, che aveva – passatemi il termine- una base e un fondamento “umanistico”; aveva come obiettivo gli uomini-simbolo del “male” del sistema e perseguiva un nuovo (malato, deformato, deviato) orizzonte umano da edificare a qualunque costo, anche sacrificando vite umane. La morte era sì contemplata ma come elemento accidentale, insito, in questo tipo di lotta estrema e disperata (anche perché, dal loro punto di vista, il sistema non permetteva altra lotta se non quella).
Qui, viceversa, siamo di fronte ad un salto di qualità impressionante, che racconta della deriva “mortifera” che attanaglia – direbbe Freud – la nostra civiltà; una pulsione di morte, di un sacrificio salvifico e ambito da portare al cuore del nemico. Morire non è più un accidente, un effetto collaterale della lotta ma diviene l’elemento centrale, se non determinante, del nuovo, inedito, attacco in corso.
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Metafisica della felicità reale
di Alain Badiou
È da poco nelle librerie l’ultimo testo, "Metafisica della felicità reale", di Alain Badiou, uno dei più significativi esponenti della filosofia contemporanea. Di questo libro, pubblicato da DeriveApprodi, offriamo al lettore l’introduzione. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione
Può sembrare paradossale dare per titolo Metafisica della felicità reale a un libro che, soprattutto, appare intento a districare quali siano i compiti della filosofia e che verso la fine tenta persino di descrivere i miei specifici progetti personali attinenti alla filosofia. Basta un’occhiata ai miei libri principali per vedere che la mia filosofia è senz’altro costruita, al pari di qualunque altra del resto, a partire da elementi all’apparenza disparati, ma che essa si distingue per l’uso attivo di materiali raramente associati alla felicità: la teoria degli insiemi, la teoria dei fasci di insiemi sulle algebre di Heyting o quella dei grandi infiniti. Oppure è questione di rivoluzione francese, russa, cinese, di Robespierre, di Lenin o di Mao, tanto le prime quanto i secondi marchiati dall’infamia del Terrore. Altrimenti, ricorro a poemi ritenuti più ermetici che dilettevoli, quelli di Mallarmé ad esempio, di Pessoa, di Wallace Stevens o di Paul Celan. O prendo a esempio l’amore vero, del quale da sempre i moralisti e i prudenti osservano che le sofferenze da esso indotte e la banale constatazione della sua fragilità spingono a dubitare della sua vocazione alla felicità. Senza contare che alcuni dei miei principali maestri, ad esempio Descartes o Pascal, Hegel o Kierkegaard, difficilmente possono passare per grandi allegroni. Davvero non si vede quale sia il rapporto tra tutto questo e una vita tranquilla, l’abbondanza di piccole soddisfazioni quotidiane, un lavoro interessante, un salario come si deve, una salute di ferro, una coppia serena, vacanze delle quali conservare a lungo il ricordo, amici simpatici, una casa ben fornita, una comoda automobile, un animale domestico fedele e tenerone, dei bambini deliziosi, che non danno problemi e vanno bene a scuola, insomma con ciò che di solito e a ogni latitudine si intende per «felicità».
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Il Portogallo visto dalla Grecia
di Stathis Kouvelakis
La nascita di un governo socialista appoggiato dall’esterno dal Blocco di sinistra e dal Partito comunista in Portogallo rischia di tradursi in una replica della capitolazione di Syriza?
[Il testo di Kouvelakis che qui pubblichiamo cerca di rispondere a molti dubbi e interrogativi sorti in seguito all’evoluzione politica in Portogallo: la nascita di un governo socialista appoggiato dall’esterno dal Blocco di sinistra e dal Partito comunista portoghese rischia di tradursi in una replica della capitolazione di Syriza? Sia pure con prudenza, esprimendo le proprie critiche con uno stile che dovremmo adottare tutti nei nostri dibattiti, Kouvelakis lo ritiene molto probabile. Abbiamo già pubblicato un’intervista a uno storico militante del Blocco, Francisco Louçã, nella quale questa evenienza viene invece implicitamente scartata. Nei prossimi giorni forniremo altri materiali perché questa discussione non avvenga in termini troppo generali e generici: per esempio, stralci del programma concordato fra PS, Bloco, PCP e Verdi e una cronologia del come si è arrivati a questo accordo, il primo in Portogallo da almeno quattro decenni a questa parte. Lo sviluppo della situazione portoghese e la svolta verificatasi in Spagna con la dichiarazione, per ora virtuale, di indipendenza della Catalogna, fanno della penisola iberica un’area in ebollizione alla quale è necessario prestare la dovuta attenzione. CD]
***
È solo dopo notevoli esitazioni che mi sono deciso a commentare i recenti sviluppi della situazione in Portogallo. Prima ho ascoltato con molta attenzione gli argomenti della compagna Mariana Mortagua [deputata del Bloco de Esquerda] nella seduta plenaria della conferenza Historical Materialism a Londra, il 9 novembre.
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Parigi: almeno smettiamola con le chiacchiere
di Fulvio Scaglione
Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l'Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell'aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali
E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze che indossava.
Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente.
Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire.
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La fabbrica delle differenze
Forza lavoro, mobilità e lotta di classe attraverso i confini d’Europa
Devi Sacchetto
Pubblichiamo la versione rivista di uno degli interventi introduttivi del workshop «Trasformazioni del lavoro e sciopero transnazionale: nuovo regime di fabbrica, precarizzazione e composizione del lavoro» organizzato da ∫connessioni precarie con Worker’s Initiative (Polonia), TIE – Global Worker’s Network (Germania), Angry Workers (Regno Unito) durante il meeting per uno sciopero sociale transnazionale che si è tenuto a Poznan all’inizio di ottobre
Per almeno vent’anni il lavoro di fabbrica in Europa è apparentemente scomparso. Quando ha cominciato a riapparire, è stato a prima vista relegato nell’Europa dell’est. Tuttavia, la crisi economica nel 2008 ha mostrato che il sistema manifatturiero, con il suo portato di servizi più o meno esternalizzati, costituisce ancora un fattore determinante per le condizioni di lavoro in Europa. Stiamo parlando di una fabbrica che ha subito diverse trasformazioni sia dal punto di vista tecnologico sia organizzativo e, ancora più importante, che è quotidianamente connessa con altre realtà in Europa e nel mondo. La fabbrica oggi è il luogo di connessione di diverse storie del lavoro che hanno luogo a migliaia di chilometri l’una dall’altra e con cui siamo costantemente in contatto. Per questa ragione, la fabbrica rappresenta il punto di intersezione di diverse forme di organizzazione del lavoro, ma anche di diverse precarietà.
Immaginiamo un giovane lavoratore o una giovane lavoratrice est-europea che abbia finito le scuole superiori. Che cosa può fare? Può cercare un lavoro, magari provando a trovare qualcosa che ha a che fare coi suoi studi.
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Ascesa e declino nella storia economica d’Italia
G. Gabbuti intervista Emanuele Felice
Con Ascesa e declino. Storia economica d’Italia (il Mulino, Bologna 2015, 392 pp), Emanuele Felice offre una sintetica ma assai documentata narrazione dell’evoluzione dell’economia italiana dall’Unità ad oggi. Classe 1977, abruzzese, Dottorato a Pisa, Felice è recentemente rientrato in Italia come Professore Associato presso l’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara, dopo un periodo di cinque anni all’Università Autonoma di Barcellona. Il suo libro è per certi versi il primo tentativo di sintesi della storia economica italiana a seguito della grande crisi – non solo quella globale ed europea degli ultimi anni, ma quella più generale italiana, che le precede di almeno due decenni. L’ultima grande sintesi accademica – quella di Vera Zamagni, intitolata Dalla Periferia al centro – si chiudeva infatti con il 1990: e già all’epoca, osservatori come Marcello De Cecco si chiedevano con amara ironia se il titolo non avrebbe dovuto essere integrato, già dalla seconda edizione, con un “…e ritorno”. Felice, che in un recente articolo con Giovanni Vecchi ha certificato questo “ritorno” nelle misure di produzione come il PIL, nel suo libro estende l’analisi alla grande mole di dati prodotti dalla storiografia economica italiana negli ultimi decenni. Relegando tuttavia la gran parte delle serie storiche nell’appendice online, i dati vengono evocati nel testo in modo da venire incontro al lettore non tecnico, non sovrastando ma accompagnando costantemente la narrazione storiografica. Proprio per questa caratteristica, Ascesa e Declino sta generando un dibattito abbastanza insolito per la disciplina sui giornali, con qualche eco anche nel dibattito politico interno al Partito Democratico. Per questo, il libro si presta a ragionare non solo della storia economica italiana, ma anche di come questa possa interrogare il presente, di quale ruolo debba avere come disciplina all’interno della formazione e del discorso pubblico italiani. Per questo motivo vi proponiamo un’intervista, come prima pietra di un focus tematico sulla storiografia economica e sociale italiana.
***
Il libro è organizzato seguendo le categorizzazioni classiche della storiografia italiana – Italia Liberale, Fascismo, Dopoguerra (prima e dopo Bretton Woods). Molti tuoi colleghi, in effetti, si sono concentrati su uno solo di questi periodi. Traendo beneficio dalla prospettiva di lungo periodo, è corretto mantenere questa tradizionale suddivisione rigida, o prevalgono elementi di continuità nello sviluppo italiano, come sostenuto ad esempio da Rolf Petri?
Sicuramente esistono elementi di continuità, ed è anche normale che sia così.
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La verità è che non sappiamo la Verità
di Fiorenzo Fraioli
Sull'ennesimo orrore, questa volta a Parigi, si sprecheranno come sempre molte parole. Non vogliamo aggiungerne altre, che sarebbero inutili, ma ci limitiamo a segnalare questo intervento di Fraioli, di esemplare buon senso
Ho passato la sera a leggere il "De bello gallico" di Giulio Cesare poi, qualche minuto fa, ho acceso il televisore e ho saputo dell'attentato a Parigi.
La prima cosa che mi viene da dire è che siamo in guerra ma non sappiamo chi sia il nemico.
L'Isis? Fatemi capire, perché io sono un po' tonto: l'occidente, la Nato, l'Unione Europea, la Russia, l'Iran, la Siria, Hezbollah, tutti contro l'Isis, uno "Stato" non riconosciuto da nessuno, la cui base territoriale è costituita da una parte dell'Iraq il cui territorio è controllato da un governo alleato dell'occidente, con una forte presenza di forze USA, e non si riesce a stroncarlo in una settimana? Dobbiamo credere a questo?
Sono stato ragazzo ai tempi della guerra del Vietnam, ma allora l'informazione mainstream ce lo diceva chiaro e tondo che dietro il Vietnam del sud c'erano gli USA, e dietro i vietcong l'URSS e la Cina, e dunque che era una guerra per procura tra le grandi potenze. Oggi, invece, il raccontino è che tutti sono contro l'Isis, e che questi tengono in scacco il mondo intero perché sono combattenti fanatici (o eroici, come sostiene qualcuno).
Io non ci credo. Per come la vedo io siamo in una guerra mondiale. Per quello che posso capire, ma non prendetemi troppo sul serio, questa è una guerra con molti attori ma senza una linea di demarcazione che consenta di dire "noi contro loro".
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L'imperialismo è vivo e lotta contro di noi
di Ascanio Bernardeschi
“Il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usuraio minuto,
termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usuraio gigantesco”
“Il mondo si divide in un piccolo gruppo di stati usurai e in una immensa massa di stati debitori”
“L'oligarchia finanziaria attrae, senza eccezione, nella sua fitta rete di dipendenze
tutte le istituzioni economiche e politiche della moderna società borghese”
(Vladimir Ilic Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916)
Viaggio nella crisi parte II. Dopo l'articolo preliminare di Rita Bedon, che illustra alcuni aspetti teorici generali della crisi (http://www.lacittafutura.it/economia/viaggio-nella-crisi.html), proseguiamo l'indagine esaminando il carattere dell'odierno imperialismo transnazionale. Seguiranno contributi che illustrerannno in maniera più sistematica il quadro teorico in cui si inseriscono gli elementi fattuali qui esaminati, per proseguire quindi con le prospettive dell'Europa a guida tedesca e le possibili vie di uscita dalle politiche liberiste europee
Il crollo del blocco del cosiddetto socialismo reale, fu principalmente esito non di un moto di liberazione dei popoli ma della vittoria della guerra fredda da parte del blocco imperialista a guida statunitense. Liquidato il bipolarismo USA-URSS, parve ai più che il mondo fosse entrato in una fase unipolare ad egemonia americana difficilmente contrastabile.
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I dieci anni che hanno cambiato tutto ed hanno impedito ogni cambiamento
di Ugo Bardi
Manca un mese dalla COP-21, a Parigi, che dovrebbe cambiare tutto – e che probabilmente non cambierà niente di rilevante. Ma il cambiamento avviene, anche se in modi che spesso ci sorprendono e che potrebbe non farci piacere di vedere. Il decennio scorso è stato un periodo di enormi cambiamenti ed anche un decennio di giganteschi sforzi mirati ad evitare il cambiamento a tutti i costi. E' una delle molte contraddizioni del nostro mondo. Lasciate quindi che vi racconti la storia di questi anni difficili.
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- L'accelerazione del cambiamento climatico. Nel 2005, il cambiamento climatico sembrava essere ancora un'animale relativamente domabile. Gli scenari presentati dal IPCC (a quel tempo aggiornati al 2001) mostravano aumenti della temperatura graduali e i problemi sembravano essere lontani decenni – se non secoli. Ma il 2005 è stato anche l'anno in cui è diventato chiaro che limitare il riscaldamento a non più di 2°C era molto più difficile di quanto si pensasse in precedenza. Allo stesso tempo, il concetto che il cambiamento climatico è un processo non lineare ha iniziato a penetrare nel dibattito e il pericolo di un “cambiamento climatico fuori controllo” e stato sempre più compreso. Gli eventi del decennio hanno mostrato la rapida progressione del cambiamento climatico. Uragani (Katrina nel 2005, Sandy nel 2012 e molti altri), la fusione delle calotte glaciali, la fusione del permafrost, che rilascia il suo carico mortale di metano immagazzinato, enormi incendi forestali, stati interi che si prosciugano, la perdita di biodiversità, l'acidificazione degli oceani e molto altro.
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Boom di Ciudadanos, la Podemos di centrodestra
di Giacomo Russo Spena e Luca Tancredi Barone
In grande ascesa nei sondaggi, il nuovo partito spagnolo potrebbe essere la sorpresa al voto del 20 dicembre. Il giovane leader Albert Rivera, animale mediatico, è onnipresente in tv. Gli arancioni incarnano una destra moderna, inneggiano all’anticasta ma con un programma pro-austerity. È il tentativo del sistema di fermare Iglesias e il cambiamento reale del Paese
El cambio sensato. Gli indignados di velluto. In Spagna sembra l’ora di Ciudadanos, il nuovo partito anticasta, ma pro-austerity, che sta volando nei sondaggi. A parole né di destra né di sinistra, molto tatticismo, toni populisti, un capo indiscusso e posizioni moderate. La Podemos di centrodestra. L’antidoto del sistema all’incubo di un reale ed effettivo cambiamento. In grande ascesa è il suo leader, Albert Rivera, considerato il premier più amato in vista delle elezioni nazionali del 20 dicembre. Il politico del momento. Onnipresente in tv.
Quasi 6 milioni di spagnoli davanti al televisore hanno seguito, due settimane fa, il confronto televisivo su La Sexta tra lui e Pablo Iglesias.
Un confronto in nome del rinnovamento e contro quel bipartitismo (Psoe-PP) ormai screditato. Rivera se está comiendo a Iglesias, “se lo sta mangiando”, è il commento più gettonato sui social network. Camicia bianca, jeans, faccia pulita, volto rassicurante, parla chiaro e diretto. Un animale mediatico. Sicuro di sé va sempre a braccio, anche ai comizi. “Abbiamo proposte per migliorare e riformare il Paese, senza urla e promesse irrealizzabili. Siamo capaci di governare, senza il sostegno dei poteri forti e privilegi”, va ripetendo da una trasmissione all’altra.
Il sistema può dormire sonni tranquilli. Ciudadanos è l’antidoto perfetto per rallentare la diffusione di quel virus del cambiamento iniziato col 15M. Quasi un prodotto in provetta per sottrarre consensi a Podemos che, con il tatticismo ed estrema pragmaticità, era riuscita a rappresentare il “voto di rottura” e ottenere consensi al di fuori del recinto classico della sinistra arrivando agli strati più moderati. Ora le cose cambiano.
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Un frammento del politico
Marco Bascetta
Il saggio di Marco Revelli «Dentro e contro» (Laterza) denuncia il «populismo di governo» imperante, ma relega sullo sfondo il fatto che si configura come risposta ai mutati rapporti tra le classi sociali
Gli anni della grande crisi hanno recato in Italia evidenti novità politiche. Imponendo scenari inediti, ma anche portando a compimento processi e tendenze in corso ormai da molti anni. Tra questi due corni, tra continuità e rotture, si svolge la narrazione della più recente storia politica italiana che Marco Revelli condensa in un breve saggio (Dentro e contro, Laterza, pp. 140, euro 14) con l’intento di ricostruire i passaggi e le condizioni che hanno condotto all’attuale stile di governo, alle forme della politica su cui poggia, al suo programma di ridisegno degli assetti istituzionali e delle relazioni sociali. Programma che ruota attorno all’opportunità di cavalcare l’evidente crisi della democrazia rappresentativa indirizzandola verso l’instaurazione di un rapporto tra governanti e governati fondato sulla subordinazione consensuale dei secondi ai primi a tutto vantaggio dell’efficienza competitiva del «sistema-paese» sul mercato globale. È in questo quadro che si inscrive lo svuotamento dei corpi intermedi, partiti e sindacati, e delle assemblee elettive, in primo luogo il Parlamento, a favore di un costante rafforzamento dell’esecutivo. Il quale assume, tanto sul piano ideologico quanto su quello operativo la forma di un «populismo dall’alto», o «istituzionale», o «di governo» che si appella al rapporto diretto tra il premier e la «gente», rappresentata dalla platea sempre più risicata e imbrigliata degli elettori. Se scrivo «gente» non è per caso.
Il regno del «fare»
Si tratta infatti di un «populismo» assai singolare non facendo riferimento alcuno all’idea di «popolo» in quanto soggettività politica, sia pure astratta o immaginaria, e fonte della sovranità. Il che rende non poco problematico il ricorso estensivo a questa categoria politica nel descrivere un potere che si rivolge a quel regno borghese e operoso del «fare» e del mercanteggiare che siamo soliti chiamare, con indulgente simpatia, non «popolo» ma «società civile». È alle corporazioni che la compongono (con un occhio di riguardo per le più potenti), agli interessi e agli appetiti che la attraversano, alle pulsioni che la agitano, agli scambi che vi si svolgono, che la retorica governativa si rivolge, cercando di blandirne, di finanziaria in finanziaria, questo o quel segmento mascherato da «interesse generale».
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Prima che tutto accada
di Sandro Moiso
Prima che tutto accada occorre ragionare e far pensare.
Prima che la canea mediatica fascista, razzista, nazionalista, militarista, perbenista e di sinistra falsamente antagonista inizi ad ululare occorre dire, scrivere, organizzare. Prima ancora che arrivi il conteggio definitivo delle vittime.
Prima che le colpe si riversino sui più deboli e sugli ultimi occorre prepararne la difesa.
Prima che i potenti cerchino il nostro abbraccio occorre denunciarli.
Prima che gli incoscienti accorrano a manifestare con l’imperialismo, il militarismo e il patriottismo, come ai tempi di Charlie Hebdo, occorre smascherare i moventi e i mandanti.
Da tempo vado scrivendo che la guerra è alle porte e nella notte tra il 13 e il 14 novembre ci è entrata in casa. Solo gli imbecilli, che troppo spesso governano le società, potevano pensare che la guerra rimanesse sempre lontana. Solo un pubblico rintronato dai media e dai social network poteva pensare di continuare a godersi lo spettacolo dalla finestra di uno schermo. Solo una sinistra fumosa e pervertita nei suoi ideali e nei suoi principi poteva negarne l’attualità. Nessuno ha ragionato a sufficienza sul significato di “guerra asimmetrica”.
Certo lo hanno fatto i militari, i servizi più o meno segreti, gli esperti di geopolitica e hanno usato le loro conoscenze per diffondere il panico e la paura. Una paura superficiale, strumentale al fascismo strisciante e al nazionalismo razzista. Una paura irrazionale, ma ancora lontana. Uno sfondo per una rappresentazione politica e governativa ancora tutta rivolta alle strategie di governo e di mantenimento del consenso.
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La guerra è arrivata in Europa
di Giulietto Chiesa
Era pronosticato. Ora si vede che significa. La vita politica europea sarà sconvolta. Il fanatismo: una facciata che non spiega la sua 'intelligence'
L'avevamo pronosticato. Adesso si vede meglio cosa significa. Tutta la vita politica europea sarà sconvolta per sempre. Non ci sarà possibilità di difesa per le classi sfruttate, subalterne. Ogni momento della vita collettiva sarà rubricato come problema di ordine pubblico. Controlli generalizzati in nome della difesa contro il terrorismo. La nostra vita diverrà un eterno passaggio attraverso un metal detector.
Politici e giornalisti, che ripetono le favole che si sono raccontate e ci hanno raccontato, sono nella più grande confusione.
Adesso si vede l'importanza di avere, o di non avere, una televisione che organizzi la difesa delle grandi masse.
Ed è solo l'inizio. La Russia, con il suo intervento in Siria, ha cambiato il quadro politico mondiale. Il piano di ridisegnare la mappa medio-orientale è fallito. Daesh è, di fatto, sconfitta là dov'è nata. Dunque i suoi manovratori spostano l'offensiva in Europa.
Obiettivo chiarissimo: terrorizzare l'Europa e costringerla sotto l'ombrello americano. A mettere a posto la Russia penserà Washington. Del resto l'Airbus abbattuto nel Sinai, in termini di sangue russo innocente, è equivalso al massacro parigino. E non ce ne eravamo accorti.
Germania e Francia (il match di calcio) sono nuovamente avvertite. E, con loro, Merkel e Hollande. I due leader europei che stavano cambiando rotta per uscire dal cappio americano sono avvertiti.
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