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"Rottamare Maastricht"
di Fabio Petri
Fabio Petri, Recensione (intervento alla presentazione) del libro “Rottamare Maastricht”, di A. Barba, M. D’Angelillo, S. Lehndorff, L. Paggi, A. Somma (Deriveapprodi), Roma, 27 ottobre 2016
Lo scopo del libro, dall’Introduzione di Paggi, è aiutare ‘la costruzione di un movimento anti-Maastricht diverso da quello populista’, sottrarre al populismo ‘il monopolio della critica della situazione esistente’; combattere Maastricht come cultura, concezione del mondo, proposta di civiltà; a tal fine aiutare a ‘trasformare la protesta sociale in conflitto distributivo e in alternativa politica’, aiutare ‘la costruzione di un movimento ancora inesistente’, per la qual cosa ‘occorre mettere sul tappeto il problema di una filosofia di governo alternativa e di un programma che indichi, in primo luogo sotto il profilo concettuale, alcuni punti di scorrimento verso un’Europa politica della crescita’.
Il libro non si spinge a proporre esplicitamente questa filosofia di governo alternativa o programma (l’Introduzione si limita a indicare il bisogno di più democrazia più salario più produttività, ma senza entrare nel come raggiungere questi obiettivi); piuttosto fornisce analisi preliminari per dimostrare la necessità di aprire il dibattito; tre messaggi in particolare emergono dai cinque contributi.
Primo messaggio, che emerge dai contributi di Paggi e Somma: la storia di come si arriva a Maastricht è storia di abbandono, e tradimento, dell’idea originaria di una unione politica europea collaborativa, unificante; Maastricht ha di fatto creato con la moneta unica un ostacolo a tale obiettivo, perché aumenta le differenze e i conflitti tra i paesi membri dell’euro, ponendoli in concorrenza l’uno con l’altro.
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La patologizzazione del dissenso
di C.J. Hopkins
Da CounterPunch traduciamo un azzeccato articolo che descrive, con sfumature satiriche, l’imponente opera di delegittimazione del dissenso (ogni genere di sostanziale dissenso rispetto alla direzione unica indicata dalle classi dirigenti) svolta quotidianamente dai media. Non cambia molto che si tratti di Trump, Sanders, Putin, Le Pen, Brexit, sinistra, destra, anarchici, wikileaks: i media dell’establishment buttano tutti nello stesso mucchio di disdicevoli populisti che non vale la pena ascoltare, tanto meno confutare. Perfino lo stesso riconoscimento dell’esistenza dell'”establishment”, delle “classi dirigenti” e dei loro interessi in contrapposizione a quelli della gente comune, tende ad essere sancito, in questa distopia orwelliana (per ora morbida), come segno di devianza, di complottismo patologico.
* * * *
Secondo gli organi di informazione mainstream, nel suo recente discorso a West Palm Beach Donald Trump avrebbe dato definitivamente di matto. Gesticolando furiosamente con le sue piccole mani, alla maniera inconfondibilmente hitleriana, avrebbe sputato fuori una serie di parole in codice innegabilmente inneggianti all’odio antisemita … vale a dire parole tipo “establishment politico”, “élite globali”, ma anche, sì, “banche internazionali”. Si sarebbe addirittura spinto al punto di affermare che le “corporation” [le grandi aziende] e i loro “lobbisti” avrebbero messo in gioco milioni di dollari per queste elezioni, e che stiano cercando di fare applicare il TPP [il “trattato transpacifico per il commercio”] non per il bene dei cittadini americani, ma solamente per arricchire se stessi.
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Gerusalemme est. Quello che le risoluzioni non dicono
di Militant
«L’Unesco nega l’identità del popolo ebraico». «La risoluzione nega il legame religioso di Israele con il Muro del Pianto e il Monte del Tempio». «La decisione di cancellare le radici giudaico-cristiane dei luoghi santi di Gerusalemme è “l’inizio della fine”». «L’Unesco riscrive la storia: il Monte del Tempio e il Muro del pianto non sono luoghi legati all’ebraismo». Sono queste le affermazioni catastrofiche con le quali, nelle ultime due settimane, è stata descritta dai media una risoluzione approvata dall’Unesco – l’agenzia dell’Onu che si occupa di patrimonio culturale ed educazione – intitolata Palestina occupata e contenente una condanna dell’occupazione israeliana. La risoluzione, proposta da sette paesi islamici (Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan), è stata approvata con 24 voti a favore, 6 contro (Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda) e 26 astensioni, tra cui quella dell’Italia, della Francia e della Spagna.
L’approvazione di questa risoluzione è stata interpretata dal governo israeliano – e, di riflesso, dai media, sempre supini ai poteri dominanti – come un disconoscimento del legame ebraico con Gerusalemme est. Israele ha quindi sospeso la collaborazione con l’Unesco.
In molti, ovviamente, si sono stracciati le vesti anche in Italia.
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Il 'No' e la sfida costituente
di Francesco Brancaccio, Francesco Raparelli
"La sfida che abbiamo di fronte col referendum è quella di ripensare il potere costituente in termini . Le lotte necessitano di consolidare istituzioni e contropoteri." Un articolo in anteprima da "Alternative per il Socialismo", numero 42: "Sabbia nell'ingranaggio"
L'opposizione alla riforma costituzionale Renzi-Boschi è, fino in fondo, opposizione alla catastrofe neoliberale che sta dilaniando l'Europa. Non occorre essere raffinati costituzionalisti, infatti, per cogliere tra le righe della riforma l'obiettivo, inequivocabile, di cancellare la democrazia parlamentare. In combinazione con l'Italicum, il «monocameralismo imperfetto» accentra i poteri nelle mani dell'esecutivo e favorisce la (piena) sostituzione dell'amministrazione per conto del mercato alla politica in rappresentanza del popolo.
Che il meccanismo della rappresentanza, decisivo per la democrazia liberale (moderna), sia da tempo andato in pezzi è cosa nota. Di più: l'abbiamo voluto! L'hanno voluto in questi ultimi decenni i movimenti sociali che, nel segno e nel senso dei contro-poteri, dell'autogoverno e della proliferazione istituzionale, hanno radicalmente criticato il principio (sovrano) di rappresentanza. Il recente fenomeno grillino, poi, se letto a partire dal rilievo della democrazia digitale, è indubbia esemplificazione – carica di difetti, intendiamoci – del rifiuto diffuso per la delega, sia essa (ancora) tradizionalmente partitocratica o, piuttosto, tecnocratica. Ma sappiamo bene che si tratta di processi assai distinti: quello di Renzi è un “golpe del mercato”, secondo il dogma della stabilità/governabilità, contro quel che resta dei contrappesi parlamentari. Flebili quanto si vuole, largamente neutralizzati, nell'ultimo ventennio, dalla legislazione fatta di decreti e voti di fiducia, ma pur sempre presenti.
Sappiamo anche, però, che una semplice difesa di ciò che è stato non basta. Insufficiente per battere Renzi, inadeguata per fare i conti con la trasformazione della costituzione materiale del Paese.
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Quale nuovo rapporto tra scienza ed etica?
di Enrico Galavotti
Vi è qualcosa di apparentemente poco spiegabile nello sviluppo della scienza e tecnologia occidentale. Al tempo della Grecia classica, tra i filosofi della natura, pochissimi tenevano separata la scienza dall’etica; e anche quando lo facevano (p.es. con Anassagora e Democrito), era solo per poter affermare meglio l’indipendenza della natura da qualunque cosa, cioè i princìpi dell’ateismo. Nella vita privata, infatti, questi filosofi-scienziati tenevano un comportamento etico ineccepibile, mostrando che una professione di ateismo non comportava affatto la rinuncia ai valori morali.
La cosa strana è che tenevano unite scienza ed etica all’interno di un contesto sociale, così fortemente caratterizzato dallo schiavismo, che avrebbe invece dovuto indurli a fare il contrario. Nell’ambito dello schiavismo, infatti, il concetto di “persona” è quasi inesistente. Non si riconoscono i cosiddetti “valori umani fondamentali”, quelli inalienabili, che si possiedono in quanto appunto si fa parte del genere umano. Lo schiavismo è la negazione esplicita della libertà della persona, e quindi della possibilità di avere una propria identità, di essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. Essere “giuridicamente libero” era in assoluto la cosa più importante di tutte.
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Dentro il governo invisibile: guerra, propaganda, Clinton & Trump
di John Pilger
Il giornalista americano, Edward Bernays, viene spesso descritto come l’uomo che ha inventato la propaganda moderna.
Nipote di Sigmund Freud, il pioniere della psicanalisi, è stato Bernays che ha coniato il termine “pubbliche relazioni” come eufemismo per “colpo ad effetto” e i suoi inganni.
Nel 1929 persuase le femministe a promuovere l’uso delle sigarette da parte delle donne, fumando nella sfilata per la Pasqua a New York – un comportamento allora considerato eccentrico. Una femminista, Ruth Booth, dichiarò: “Donne, accendete un’altra torcia di libertà! Combattere un altro tabù sessuale!
L’influenza di Bernais si estese molto oltre la pubblicità. Il suo più grande successo fu il ruolo che ebbe nel convincere il pubblico americano a unirsi al massacro della Prima Guerra Mondiale. Il segreto, disse, era “fabbricare il consenso” delle persone allo scopo di “controllarle e irregimentarle secondo la nostra volontà, senza che esse lo sappiano.”
Ha definito questo “il vero potere dominante nella nostra società” e lo chiamava “governo invisibile”.
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Foucault e il liberalismo
di Paolo Di Remigio
La sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France[1] è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la doppia radice nell’ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell’Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l’espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l’economia keynesiana; l’adorazione ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura fortemente competitiva dell’Unione Europea[2]; la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione in occupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall’anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare dell’individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un’impresa[3].
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Ciclone Duterte nelle Filippine
Lotta alla droga, rottura con gli USA e bombe dell’ISIS
di Federico Dezzani
Il vento tempestoso del populismo soffia a tutte le longitudini e non risparmia neppure l’Asia, dove il candidato anti-establishment, Rodrigo Duterte, ha conquistato lo scorso maggio la presidenza delle Filippine: con la forza di un ciclone Duterte ha sradicato interessi ed assetti da tempo consolidati. La lotta senza quartiere al narcotraffico è coincisa in politica estera con la clamorosa “separazione” dagli USA e col parallelo avvicinamento alla Cina. Per Barack Obama, fautore del “pivot to Asia”, è l’ennesimo smacco in politica estera. La repentina comparsa dell’ISIS e gli attentati con cui si è cercato di eliminare Duterte non sono casuali: la riconquistata sovranità delle Filippine ed il giro di vite sul traffico di stupefacenti sono duri colpi per l’establishment atlantico.
* * * *
Il “pivot to Asia” cade a pezzi. Tra le bombe dell’ISIS
Non poteva concludersi nel mondo peggiore la permanenza di Barack Hussein Obama alla Casa Bianca: il fallimento negli ultimi mesi di mandato dell’unica strategia estera dichiarata, “il pivot to Asia”, ossia il disimpegno dal Medio Oriente e dall’Europa, per una maggiore focalizzazione sul Pacifico e sui Paesi asiatici in tumultuosa crescita.
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Che cosa prevede la Riforma Costituzionale
Maria Luisa Pesante
Dal nuovo ruolo delle Regioni al combinato disposto tra la legge elettorale e nuove norme costituzionali. Un’analisi punto per punto dei contenuti della Riforma voluta da Renzi
Dicono gli oppositori della nuova Costituzione che essa è scritta male; e anche molti dei suoi sostenitori lo ammettono, ma quasi sempre senza spiegare il come e il perché dell’inadeguata stesura dopo il lungo periodo di gestazione. Non è un fatto estetico, semplicemente essa non è scritta come una costituzione. Contiene troppi rimandi interni, che la rendono poco leggibile, come lo sono le leggi italiane; contiene troppi dettagli da legge ordinaria anziché principi e criteri generali tipici delle carte costituzionali. Soprattutto è reticente, incompleta e inconcludente proprio secondo quella “visione d’insieme” con cui essa veniva presentata al Parlamento l’8 aprile del 2014. Questo fatto non può essere casuale; al contrario ci induce a guardare più esattamente come le singole norme rispondano a un disegno non dichiarato, ma reale che si tratta di approvare o respingere il 4 dicembre. Al di là della pubblicità ingannevole di chi vuol far credere che ad una serie di problemi, più o meno utilmente individuati, esistesse un’unica soluzione, e soprattutto solo la soluzione di un’ampia revisione costituzionale, bisogna guardare al nocciolo duro della rivendicazione dei suoi apologeti: questo testo porta finalmente a compimento quella riforma che i partiti italiani non erano riusciti a fare, per più di trent’anni, almeno dal 1982.1 Ora l’obbiettivo che con trasversale pertinacia tutte le maggiori forze politiche, una quindicina di governi, e quasi tutti i presidenti (dovrebbe mancare all’appello Scalfaro) hanno perseguito è il presidenzialismo strisciante con cui hanno tentato di rispondere alla crescente insoddisfazione, anch’essa trasversale, dei cittadini nei confronti di ciò che i loro rappresentanti compivano nelle proprie funzioni.
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Riflessioni sul caso Foodora*
di Gianni Giovannelli
Bob Dylan
Nei giorni scorsi (7-8 ottobre) quasi tutti i quotidiani italiani (cartacei e on line) hanno riportato la notizia di uno sciopero attuato dai fattorini torinesi per rivendicare, contro Foodora, un miglioramento delle loro condizioni lavorative. Evidentemente si trattava proprio di una notizia; e in effetti lo è, non solo per l’accaduto in sé stesso, ma soprattutto per le possibili conseguenze future di una protesta che presenta indubbi elementi di grande suggestione simbolica. Non sarà forse stato davvero il primo scontro di classe nell’ambito della sharing economy, e magari la partecipazione attiva non avrà raggiunto percentuali altissime; ma questo non toglie che si tratti dell’esordio inatteso, nella scena della comunicazione, di una schiera del tutto nuova. Questa è la società dello spettacolo, e si è così rappresentata ad uso del pubblico una rivolta; questo allestimento virtuale è un fatto ulteriore che si affianca allo sciopero reale. La cronaca di un fatto ha per fine la costruzione di altri accadimenti.
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Risorgerà il socialismo dalle sue ceneri?
di Enrico Galavotti
In fondo Eduard Bernstein aveva visto giusto: con l’imperialismo la classe operaia non aveva bisogno di compiere la rivoluzione; la ricchezza aumentava per tutti e, con essa, la democrazia; si poteva arrivare al socialismo anche per via parlamentare, senza alcuna rivoluzione violenta. L’acutizzazione dei rapporti sociali, cioè la radicale polarizzazione delle classi antagonistiche, prefigurata nel Manifesto del 1848, non era avvenuta: dunque occorreva un mutamento significativo di strategia politica. La sinistra doveva diventare riformista. E in Europa occidentale lo divenne, prima con Bernstein, poi con Kautsky, infine con tutti gli altri.
Solo i bolscevichi non li seguirono. E loro fecero una rivoluzione radicale, così come l’avrebbero voluta Marx ed Engels, che però, col tempo, si rivelò fallimentare. Non meno drammatico fu il destino dei socialisti riformisti, che finirono col perdere completamente la loro natura socialista.
In che cosa il socialismo ha sbagliato?
Anzitutto non ha capito che il miglioramento delle condizioni di vita, in Europa occidentale, non dipendeva affatto dall’industrializzazione capitalistica, bensì dall’imperialismo, cioè dallo sfruttamento delle colonie. Era in virtù di questo sfruttamento che si poteva corrompere la classe operaia, aumentandole i salari o comunque offrendole migliori condizioni di lavoro, in cambio di un proprio silenzio sul sistema in generale.
Se la classe operaia preferisce le rivendicazioni sindacali alla lotta politica rivoluzionaria, i suoi dirigenti, ad un certo punto, l’asseconderanno. La lotta rivoluzionaria richiede infatti molti rischi e sacrifici, senza i quali non è possibile perseguire ideali elevati.
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Note a margine della campagna referendaria
Red Link
Da dove vengono e a cosa mirano le spinte verso le modifiche istituzionali
Le modifiche alla Costituzione approvate in Parlamento nell’aprile scorso e sottoposte alla conferma referendaria il 4 dicembre, rappresentano solo l’ultima, ma sicuramente non la definitiva, rettifica alla costituzione materiale del paese. Esse infatti sono state precedute non solo da altre modifiche alla carta costituzionale, come il famoso art. 81 fatto approvare dal governo Monti, che introduce l’obbligo del pareggio di bilancio, ma anche da molte altre leggi e trasformazioni che, pur senza andare a toccare il testo della Costituzione, hanno cambiato in maniera peggiorativa il rapporto tra cittadini ed istituzioni. La direzione di marcia è stata univoca: rendere ancora più impermeabili le suddette istituzioni alla volontà degli elettori, centralizzare ulteriormente la gestione del potere politico, attraverso la loro sottomissione ad impersonali leggi di mercato, dietro le mentite spoglie di interessi generali e superiori di tutta la nazione. Sul versante più propriamente politico ed istituzionale abbiamo avuto il progressivo smantellamento del sistema rappresentativo proporzionale, in nome della governabilità, ed un ricorso crescente ai decreti legge e alle deleghe, giustificate con la necessità di dare efficienza e tempestività al sistema politico. Di conseguenza il Parlamento è stato ulteriormente svuotato di ogni possibilità di decisione effettiva e di riflettere la volontà degli elettori.
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Il tradimento della sinistra
di Sergio Cesaratto
Il volume di Aldo Barba e Massimo Pivetti è di gran lunga la più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli ultimi anni. Pivetti, il più senior della coppia e ben noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di analisi economica), non è certo nuovo a queste provocazioni, tanto da meritarsi nel lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno sinonimo di “terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta. La sinistra avrà tre possibilità di fronte a questo libro: ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli aspetti più “coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano per certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a fondo.
E’ facile pronosticare che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah, sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.
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La nuova guerra dell'oppio della narco NATO
Afghanistan 2001-2016
di Vittorio Stano
Quando verrà scritta la storia della guerra in Afghanistan, il sordido coinvolgimento di Washington e dei militari della NATO nel traffico di eroina, e la loro alleanza con i signori della droga, sarà uno dei capitoli più vergognosi.
Continua sine die la presenza militare e paramilitare, così come continua la produzione industriale di oppio e di eroina. L’Afghanistan, uno dei paesi più poveri al mondo, aveva subito nel 2001 l´aggressione occidentale per impossessarsi del lucroso business dell’oppio e dell’eroina. Due anni dopo toccò all’Irak, aggredito e devastato per impossessarsi del petrolio. La retorica occidentale mainstream ha continuato negli anni a parlare di guerra umanitaria, peace keeping, state building, esportazione della democrazia, enduring freedom-libertà duratura, sostegno risoluto: tutte chiacchiere.
Dal fondo melmoso emerge in tutta evidenza la connivenza delle forze d’occupazione americane e alleate con il business dell’oppio e dell’eroina, in nome di una cinica scelta di realpolitik. Una spregiudicata strategia, orchestrata dalla CIA secondo una pratica operativa attuata fin dalla sua nascita, che ha provocato il boom della produzione di oppio afgano e del traffico internazionale di eroina, con il coinvolgimento degli stessi militari alleati, italiani compresi. *(1)
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Al referendum preferirei di NO (Bartleby lo scrivano)
di Giorgio Gattei
A metà degli anni '60, in un celebre comizio, Martin Luther King annunciò di aver fatto un sogno (I have a dream). Più di mezzo secolo dopo a me è capitato di avere invece un incubo: ho sognato che al referendum costituzionale di dicembre vinceva il Sì e, in combinato disposto con la nuova legge elettorale detta “Italicum” che è già in vigore, andavo a votare (nel 2017 o nel 2018 non importa) secondo le nuove regole introdotte dagli “ultimi costituenti”. Ed ecco il mio incubo.
1. Il Senato. Vado al seggio e mi danno una scheda soltanto, quella per la Camera dei Deputati, perché con l'approvazione del referendum è stabilito che «il Governo deve avere la fiducia della sola (ma questa è aggiunta mia) Camera dei Deputati» (art. 94). E' così abolito il dettato precedente che diceva che «il Governo deve avere la fiducia delle due Camere», ma questo è il monocameralismo, bellezza! Si tratta di una trasformazione costituzionale importante che renderà finalmente rapida la nomina del Governo e poi duratura, facendola dipendere soltanto dai Deputati e non anche da quei parrucconi dei Senatori! Ed il primo effetto che mi ritrovo è che il Senato io non lo voto più. Però non è detto che non esista più; semplicemente viene eletto in altra maniera e senza di me.
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Ma di cosa si stupiscono gli €uropeisti italiani? E si rendono conto di cosa stanno cosituzionalizzando? Weidman sì
di Quarantotto
1. Nel precedente post abbiamo posto in rilievo la contraddizione tra il volere la "flessibilità" di bilancio, o comunque una gestione nazionale più autonoma e discrezionale del livello del deficit, magari facendo leva sul "presunto" incoraggiamento di Obama, e l'atteggiamento invariabilmente intransigente delle istituzioni UE a trazione germanica, inserendo, simultaneamente in Costituzione "l'obbligo di attuare le politiche europee" come mission delle Camere e contenuto tipizzato della funzione legislativa.
Allo stesso modo, oggi, all'interno dei nuovi sviluppi del malcontento ostentato dal nostro presidente del Consiglio, sulla materia dell'immigrazione, verso l'atteggiamento €uropeo ("chiacchiere", porte chiuse e assenza di "civiltà").
In base a una realistica, e giuridicamente corretta, lettura del contenuto dei trattati €uropei e del contesto applicativo che i rapporti di forza, - che non possono più essere ignorati, oggi meno che mai-, quali potranno mai essere queste "politiche dell'Unione"?
La risposta ce la fornisce un documento di interpretazione autentica di provenienza germanica, cioè dallo Stato che ha (stra)vinto la "competizione" (commericiale, liberoscambista) che, come avevamo segnalato, e prima di me il prof.Guarino, si sarebbe instaurata tra gli ordinamenti dei paesi aderenti all'Unione disegnata da Maastricht, e che dunque, come in ogni organizzazione liberoscambista, avrebbe comportato un vincitore imperialista e dei "perdenti" in posizione del tutto analoga a quella dei paesi coloniali.
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UE e politiche liberiste. Quale alternativa?
Non c’è solo il razzismo alla radice dell’insofferenza popolare nei confronti della UE e dell’euro
di Marco Elia e Andrea Fioretti
Recentemente un grande regista e attento osservatore dei mutamenti sociali ha dichiarato: “se non sei arrabbiato, che razza di persona sei?”. L’interrogativo posto da Ken Loach è di fondamentale importanza. Coglie, infatti, l’assoluta centralità della questione della diffusione tra le masse popolari dello scontento, della frustrazione e della rabbia per il progressivo peggioramento delle condizioni di vita: la generalizzazione della precarietà, la disoccupazione di massa e le devastanti politiche di austerità sono gli ingredienti della montante insoddisfazione.
Di fronte alla insoddisfazione e rabbia popolare, tuttavia, risulta evidente l’assenza nel dibattito pubblico di un’alternativa reale allo stato di cose presente. E sicuramente una prospettiva di cambiamento reale è assente proprio tra coloro che concretamente rischiano di perdere il lavoro, si ritrovano disoccupati o soffrono per la sempre minore disponibilità dei servizi pubblici essenziali. L’obiettivo di queste brevi note non è certo quello di colmare un tale vuoto di elaborazione. Piuttosto cerchiamo di porre l’attenzione – e stimolare un confronto - su alcuni nodi dell’attuale dibattito a sinistra: un utile punto di partenza ci pare essere l’interpretazione da dare al crescente rifiuto verso le istituzioni comunitarie europee. Il tema è insieme particolarmente importante, complesso e spinoso.
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Seattle, crisi e movimenti
Walden Bello
Il ruolo decisivo dell’azione collettiva nell’indebolire l’ideologia neoliberista e l’attuale potere strutturale del capitalismo. Un articolo di Walden Bello, docente alla State University di New York a Bighamton, senior research fellow al Centro Studi sul Sudest Asiatico dell’Università di Kyoto ed ex membro della Camera dei rappresentanti della Repubblica delle Filippine
Ho ricevuto molte lezioni dalla Battaglia di Seattle, e una di queste è che le poliziotte possono picchiare come un qualunque poliziotto. Sono stato picchiato duramente da una delle migliori di Seattle. Qualche giorno fa ho deciso di ripercorrere il sentiero dei miei ricordi e di visitare la scena del delitto. Ricordo di aver visto Medea Benjamin di Code Pink trattata piuttosto brutalmente e corsi verso di lei per provare a fermare la polizia. A quel punto, una poliziotta si precipitò verso di me e iniziò a picchiarmi col suo manganello, trascinandomi e buttandomi per la strada, con un calcio nel fondo schiena ben assestato come colpo di grazia. Quello non è stato il colpo più forte. Quello lo ha ricevuto il mio ego: meritavo di essere picchiato e preso a calci, ma non di essere arrestato.
Come Cesare, dividerò il mio racconto in tre parti. Innanzitutto, alcune riflessioni su ciò che Seattle significa per il cambiamento delle visioni del mondo. In secondo luogo, una discussione su come, nonostante la crisi del neoliberismo, il capitale finanziario è riuscito a mantenere un potere enorme. In terzo luogo, un appello per una nuova visione complessiva di una società desiderabile.
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La migrazione come rivolta contro il capitale
di Prabhat Panaik
Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto all’attenzione, ossia che per la prima volta nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori del controllo esclusivo del capitale metropolitano. Sino ad oggi i flussi migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.
L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera.
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Brzezinski e la futurologia
Le profezie autorealizzantesi di Z. Brzezinski
di Alessandra Ciattini
L’anziano ex consigliere alla sicurezza di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, è sempre sulla cresta dell’onda e continua ad elaborare analisi politiche, che da un lato riflettono le intenzioni dei vertici statunitensi, dall’altro indicano i percorsi da seguire per difendere il ruolo egemonico della superpotenza. In particolare, in un articolo di qualche mese fa, egli riconosce che il dominio globale degli Stati Uniti è in crisi a causa del riemergere della Russia quale attore politico nella scena mondiale e dell’espansione economica e commerciale della Cina. A suo parere, pertanto, bisogna prendere misure adeguate a contrastare tale declino e a impedire un avvicinamento dell’Europa alle potenze emergenti (leggi).
Come è noto, Brzezinski si è sempre dilettato di analisi politiche volte a delineare gli scenari internazionali futuri. In questo breve intervento, mi limiterò ad analizzare brevemente un articolo dell’ex-consigliere, pubblicato nel 1968, dal significativo titolo America in the Technetronic Age(leggi), nel quale egli indica i caratteri della società cosiddetta postindustriale o, se volete, postmoderna. E ciò perché in effetti egli coglie nel segno, anche perché descrive le linee politiche adottate dalla classe dirigente mondiale, a cui era ed è strettamente vincolato.
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Le miracolose trasformazioni della creazione del valore
Una piccola storia
di Richard Aabromeit
«La ripetizione di un atto che
non crea valore, non può mai essere
un atto creativo di valore.»
(Karl Marx, MEW 42)
«Creazione di valore in euro = costi
di produzione, meno pagamenti,
meno ammortamenti, meno imposte indirette,
più sussidi» (Teoria di Economia Aziendale)
La creazione di valore nell'economia capitalista è da circa 400 anni una grandezza fissa, ma è anche un tema ricorrente nelle discussioni di tipo economico, politico, sociale, e perfino morale. Quello che ha cominciato ad essere oggetto di studio nei libri e che ha portato sempre a nuovi libri, oggi viene trasportato e comunicato in gran parte su Internet. Ed ecco che così mi sono imbattuto alcuni mesi fa, mentre navigavo, nel concetto di "creazione di valore digitale", ovvero di "catene di creazione di valore digitale". Così, ora anche il valore, o la sua creazione, la sua produzione, sarebbe andato a finire nella digitalizzazione. Come potrebbe essere "digitalizzata" una categoria astratta? Questo non era immediatamente chiaro - perciò ho fatto una piccola ricerca, per chiarire un po' l'origine di questo neologismo - ed ecco qui la sua breve storia!
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Franco Berardi Bifo
L’epidemia
Nei primi anni del decennio ’80 vivevo nel lower east di Manhattan. Scrivevo articoli per una rivista milanese. Scrivevo della scena new wave o no wave dei locali after punk, sull’arte di strada su Keith Haring e Rammelzee e Basquiat. Nel 1977 la città di New York aveva dichiarato bancarotta: l’industria che aveva dato lavoro e identità alla città ora se ne andava. Quando arrivai a New York interi quartieri erano cimiteri abbandonati, fabbriche deserte trasferite nella Sunbelt, magazzini vuoti. Ma un sindaco lungimirante che si chiamava Ed Koch ebbe un’idea brillante: invitò gli artisti di ogni paese a venire a New York. E quelli vennero a frotte e si misero a ristrutturare quei locali abbandonati, a trasformarli in laboratori di vita indipendente. Musicisti, graffitisti, poeti, ma anche sperimentatori tecnici e sperimentatori esistenziali, affollarono la città per farne una specie di incubatrice del futuro possibile.
Poi venne l’AIDS. Le cose sono sempre più complicate di come le raccontiamo, ma credo che il nucleo più intimo della mutazione digitale stia qui: nel punto in cui la sindrome acquisita di immunodeficienza stravolse la percezione di noi stessi, sconvolse e poi dissolse la comunità che aveva attraversato due decenni di erotica amicizia egualitaria.
La depressione può essere descritta come una condizione in cui l’organismo cosciente perde la capacità di trovare senso nel mondo che lo circonda.
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[TraDueMondi] Il percorso di Vittorio Foa
Teorie ed esperienze di democrazia industriale
Bruno Settis*
Tra gli ostacoli che sbarrano la strada a una comprensione del nostro presente vi è quella visione semplificata, quando non caricaturale, del Novecento, che vediamo condivisa da retoriche diverse – anche schierate su fronti politici opposti: una visione che, in estrema sintesi, lo definisce come il secolo della grande fabbrica, della quale la società, la politica, il sindacato avrebbero riprodotto, specie nel trentennio del compromesso “keynesiano” (“età dell’oro” nello schema del Secolo breve di Hobsbawm), sia la capacità di generare prosperità che la fondamentale rigidità delle strutture. A tale presunta rigidità ci siamo abituati a sentir contrapporre – e abbiamo imparato a diffidarne – l’apparato retorico della flessibilità: del resto, osservava Vittorio Foa più di trent’anni fa, a diventare più flessibili, ideologicamente e politicamente, sono state in primo luogo le classi dominanti, e «proprio perché il nemico storico è diventato così flessibile, dobbiamo riconoscere nella sua flessibilità una serie di finalità di cui non abbiamo nemmeno l’idea.»[1]
Per tagliare questa nebbia di luoghi comuni, quale migliore chiave d’accesso che una figura come quella di Foa? Figura complessa, vasta, che si è contraddetta e ha riflettuto con lucidità su queste contraddizioni – in quello sforzo incessante di trasparenza che costituisce la caratteristica ispirazione dei suoi libri di memorie, ma anche dei suoi testi di storia – capace di contenere moltitudini («uomo plurale» s’intitolava il libro dedicatogli nel 2011 da Luigi Falossi e Paolo Giovannini) o almeno a lungo tesa a dar voce alla «classe operaia», di cui in quegli anni il sindacato e i partiti della sinistra andavano costruendo il linguaggio comune su scala nazionale, la forma organizzata di presa di parola (nei suoi testi ricorrono brani, anche lunghi, tratti dagli interventi di operai e delegati, citati accanto a Marx come vere e proprie autorità sulla vita in fabbrica).
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Manifesto sull’uso
Della necessità di congedarsi da Wittgenstein
Marco Mazzeo
Pubblichiamo un estratto dal libro di Marco Mazzeo, Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso (Quodlibet, 2016). Il tema dell’uso è al centro di un dibattito di grande rilievo filosofico ed etico-politico, che nella crisi odierna è parte di un’interrogazione sulle forme di vita e sui nuovi possibili usi della propria esistenza
«Usi quel sapere per altri fini.
[Del] primo operaismo è un tratto
fondamentale» (Mario Tronti, 2008).
Diversi sono i modi per uccidere l’uso. Mi limito a rammentarne due. Il primo riduce l’uso ad applicazione automatica. A questo modello d’impiccagione ha lavorato con zelo il più autorevole linguista vivente, Noam Chomsky. L’impiego di parole e azioni è semplice performance meccanica, equivalente delle prestazioni organiche di un tubo digerente o di un occhio sensibile a onde luminose. «Uso» significherebbe applicazione di istruzioni genetiche funzionali alla specie, perché gli altri aspetti della questione sono da consegnare al mistero. La nozione fa la figura del cadavere sul tappeto che tutti notano giusto il tempo per schivarne l’ingombro. Si prenda un recente libro-intervista del linguista americano, nonché intellettuale di esplicite simpatie anarchiche. Circa l’uso Wittgenstein avrebbe «evitato il problema»1, poiché si sarebbe concentrato «solo sul modo in cui usiamo il linguaggio [sic!]»2 e non sullo studio dei suoi fondamenti cognitivi e innati. Peccato che poche pagine dopo si affermi che, anche se si trovasse l’operazione ricorsiva fondamentale alla base d’ogni parlare, il problema rimarrebbe: il linguaggio «come viene usato?»3.
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La fine della nostra speranza
“Occidente senza utopie” di M. Cacciari e P. Prodi
Paolo Missiroli
Recensione a: Massimo Cacciari, Paolo Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna, 2016, 141 pp., € 14,00 (Scheda libro)
“Utopico” è un aggettivo oramai con valenza negativa. Qualcosa di utopico è qualcosa di non realizzabile e quindi non realista (aggettivo che ha invece una valenza assiologica positiva). Segno dei tempi? Eppure, ogni moderno ha sentito su di sé la brezza del futuro radicalmente altro, dell’avvenire che si trasforma già sotto i nostri occhi. Ogni moderno ha percepito, da una parte o dall’altra, dal reale che gli stava di fronte o dall’altrove assoluto, un vento forte che soffiava verso un altro tempo, del tutto differente dal presente. Chi non ha mai provato nulla di tutto ciò, non è mai stato moderno. Riflettere oggi sui temi della profezia e dell’utopia, come fanno Paolo Prodi e Massimo Cacciari in Occidente senza utopie, vuol dire riflettere sulla vicenda della modernità e più in generale, se si ha il coraggio di non essere così moderni da pensare quest’incredibile epoca come inrottura radicale con il prima, dell’Occidente tout court. Non vi è Occidente senza profezia, come non vi è modernità senza utopia. Il libro è diviso in due parti: nella prima, Paolo Prodi attraversa la storia dell’ebraismo e del cristianesimo intrecciandola con la storia della modernità dal punto di vista che vi svolgono la profezia e l’utopia.
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