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Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico
di Gioacchino Toni
Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00
Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e da Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come agli sponsor ed ai “creatori di eventi”, un po’ di polemica piace sempre. Ora i media torneranno a parlare di graffiti solo per celebrare qualche associazione impegnata a ripristinare il candido decoro urbano prevandalico, per promuovere qualche nuova mostra dispensatrice di aura ufficiale o per motivi di ordine pubblico. Difficilmente la questione graffiti urbani potrà uscire da questa trattazione schematica.
Al di là della semplificata e rigida partizione con cui se ne occupano i media, sono davvero così impermeabili l’uno all’altro questi diversi fronti? A ricostruire il quadro della situazione viene in aiuto il saggio di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico. In tale volume il fenomeno del graffitismo viene trattato dal punto di vista estetico, sociale e culturale a partire dall’analisi tanto delle motivazioni che muovono i giovani writer ad intervenire sulle mura urbane, sfruttando il buio della notte e giocando a guardie e ladri con l’autorità, quanto quelle del fronte antigraffiti. Da un lato gli autori del testo si preoccupano di palesare le contraddizioni che attraversano i diversi schieramenti che non possono essere ricondotti a soli due soggetti, writer e antiwriter. Dall’altro lato il saggio evidenzia come alcune “categorie di pensiero” tendano a travalicare i diversi fronti in campo. Davvero, come evidenziano i due studiosi, parlare «sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (p. 19) e se c’è «un fenomeno culturale che illustra a meraviglia il funzionamento tautologico e circolare dei meccanismi sociali in un mondo complesso, si tratta proprio dei graffiti e delle campagne per cancellarli» (p. 153).
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Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa
di Francesco Ravelli
In questa intervista, che è possibile leggere anche qui, Francesco Ravelli pone una serie di domande a Gianfranco La Grassa. A uno studioso, cioè, che negli ultimi decenni da un ripensamento di Marx, teso alla difesa e all’attualizzazione del suo lascito teorico (sintomatico il titolo del primo blog a cui ha collaborato: «Ripensare Marx»), è approdato, come si dice nel ‘Chi siamo’ del successivo blog «Conflitti e strategie» (divenuto dopo un ultimo, recentissimo, ritocco: «Geopolitica. Conflitti e strategie»), ad «un sistema analitico fondato sulla teoria degli agenti strategici e del conflitto interdominanti a livello geopolitico».
Domande e risposte offrono una buona occasione per interrogarsi su una questione che a me pare tuttora decisiva e per molti versi irrisolta. Semplificando, la formulerei così: la storia fallimentare della costruzione del socialismo nel Novecento ha liquidato anche la teoria di Marx? O, se il suo lascito non è andato del tutto in rovina, vale la pena d’interrogarsi ancora su “tutto Marx” (filosofo-scienziato-organizzatore politico) oppure, come fa La Grassa, salvare solo il “Marx scienziato”, liberandoci del suo “errore”, e cioè della sua « previsione del movimento [della società capitalista] verso il socialismo e comunismo»?
Avendo già letto l’intervista, ho trovato che le domande di Ravelli (ma in parte anche le risposte di La Grassa) sono esposte in un gergo specialistico faticoso da comprendere per chi non abbia dimestichezza col dibattito (spesso scolastico e persino noioso) sulla “crisi del marxismo”. Tuttavia, le questioni affrontate sono importanti e l’intervista merita di essere letta e discussa. E per agevolarne (innanzitutto a me stesso e magari a una parte dei lettori di Poliscritture) la comprensione, corro volentieri il rischio di tradurre in “lingua comune” sia le domande di Ravelli che le risposte di La Grassa.
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Ricostruire la speranza
Ripensando politiche radicali di sinistra dopo l'esperienza greca
di Panagiotis Sotiris
Un intervento ad ampio raggio di uno dei più noti intellettuali greci. Panagiotis (nella foto) non si limita a fornire una chiave di lettura degli accadimenti in Grecia, avanza proposte alle forze di sinistra. Anche di questo discuteremo al III. Forum internazionale no-euro che si svolgerà a Chianciano Terme dal 16 al 18 settembre, e di cui Panagiotis sarà uno dei protagonisti
L'esperienza della partecipazione di SYRIZA al governo è qualcosa che deve essere studiato con molta attenzione. In quanto primo confronto di un partito non-socialdemocratico di sinistra con l'esercizio del potere governativo, esso rappresenta un esempio da manuale dei deficit strategici e dei limiti della sinistra europeista e della sua incapacità di resistere alle pressioni ed ai ricatti da parte del capitale e delle organizzazioni capitalistiche internazionali.
Il nostro punto di partenza è molto semplice: la Grecia non era destinata a vedere una intera sequenza di lotte e aspirazioni collettive finire nella sconfitta e nella disperazione con un governo guidato da un presunto partito di sinistra che ha portato le stesse politiche neoliberiste aggressivamente dettate dalla Troika. Al contrario, la Grecia offre ancora un modo per ripensare la possibilità di un rinnovamento della strategia di sinistra a patto che si cerchi davvero di pensare alla possibilità di rotture.
Per capire questo, dobbiamo, prima di tutto, pensare alla estensione e alla profondità delle trasformazioni politiche e ideologiche in Grecia in tutto il periodo del Memorandum. In primo luogo: la crisi greca non era solo una manifestazione locale della crisi economica globale. In realtà, è stata la combinazione della crisi globale, della crisi dell'architettura monetaria, finanziaria e istituzionale della zona euro, e della crisi del peculiare “modello di sviluppo” greco, basato sul credito a basso costo, i finanziamenti della Ue, il turismo, e le faraoniche e inutili opere pubbliche come quelle per gli stadi per le Olimpiadi del 2004.
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Il Golpe Labour: prove generali di anti-democrazia
di Leni Remedios
Pochi in Italia sanno che nel cuore dell'Impero occidentale, alfiere dei principi democratici, è in corso un altro silenzioso colpo di Stato
BIRMINGHAM (Regno Unito) - Mentre in Turchia si consuma un golpe fallito (seguito da un contro-golpe fin troppo riuscito), pochi in Italia sanno che nel cuore dell'Impero occidentale, alfiere dei principi democratici, è in corso un altro silenzioso colpo di Stato, che assomiglia moltissimo a delle prove generali di anti-democrazia. Un esercizio di anarchia del potere, per usare le parole di Pier Paolo Pasolini. Un esercizio che, se funziona, potrebbe creare un precedente e venire esportato altrove. Stiamo parlando della turbolenza in seno al partito laburista britannico.
Se pensate che il partito sia in ragionevole tumulto perchè un suo leader precedente - Tony Blair - è sotto la pesante accusa di crimini di guerra, dopo la pubblicazione del Chilcot Report, vi sbagliate di grosso. I parlamentari pro-Blair sono troppo impegnati ad oscurare questa brutta faccenda puntando i fari sull'«ineleggibile» socialista Jeremy Corbyn.
In un'epoca in cui tutti i protagonisti della campagna referendaria, uno alla volta, si sono dati in vergognosa ritirata (David Cameron, Boris Johnson - poi riciclato come ministro degli Esteri- Nigel Farage, Andrea Leadsome), l'unico che vuole restare al suo posto in un momento così difficile per il paese è proprio lui, Corbyn, nonostante l'intero establishment politico-mediatico lo voglia cacciare via. Perché tutto questo accanimento?
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La globalizzazione ed il "fusionismo" del capitale
di Robert Kurz
Estratto del VI capitolo del libro di Robert Kurz, "Leggere Marx. I testi più importanti di Karl Marx per il XXI secolo. Scelti e commentati da Robert Kurz", La balustrade, 2002. Il testo che segue, di Kurz, è solo un commento ad una serie di estratti del "Marx esoterico" scelti da Kurz. Gli estratti di Marx non sono qui riprodotti
Anche i più ardenti sostenitori di questa globalizzazione che è al centro del dibattito pubblico della fine del 20° secolo hanno constatato, con una certa ammirazione forzata, che Karl Marx è stato il solo ad aver descritto questo processo già 150 anni fa. A tal punto che chiunque potrebbe, a sua insaputa, trovare sull'inserto domenicale di un grande quotidiano i termini da lui impiegati e scambiarli per un articolo contemporaneo. Senza dare alcuna prova di perspicacia, sia i noti sostenitori di qualsiasi evoluzione del capitalismo che i negatori di sinistra marxisti (diventati conservatori in quanto rimangono fissati sul passato capitalista) sono arrivati alla conclusione che la globalizzazione e tutti i fenomeni concomitanti non sono affatto nuovi e soprattutto non costituiscono un nuovo carattere della dinamica capitalista. Quello che si vuol dire con questo, naturalmente, è che non c'è niente di inquietante, niente di cui preoccuparsi per quel che riguarda l'importanza della crisi, in quanto si tratta sempre del buon vecchio capitalismo. Perciò l'allarme è finito!
I primi sono in attesa di un nuovo miracolo economico mondiale, mentre gli altri si aspettano il proseguimento senza soluzione di continuità dell'attività secondo i concetti della vecchia critica del capitalismo, vale a dire secondo le categorie del capitale.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi niente di nuovo da apprendere ed analizzare.
In tutto questo, coloro che non riconoscono che l'attuale globalizzazione costituisca una nuova svolta non rendono davvero giustizia a Marx.
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Ricezioni di Nietzsche nella teoria critica
di Marco Celentano
“c’è un complotto nietzscheano che non è quello di una classe, ma di un individuo isolato (come Sade) che possiede i mezzi di tale classe e agisce non solo contro la propria classe, ma anche contro le forme esistenti dell’intera specie umana”. (P. Klossowski)
1. Nietzsche in alcuni articoli di Horkheimer degli anni Trenta
Max Horkheimer si confronta, a più riprese, col pensiero di Nietzsche, lungo il percorso che conduce, tra l’inizio degli anni Trenta e la fine del conflitto mondiale, dalle prime formulazioni della teoria critica alla redazione conclusiva della Dialettica dell’illuminismo (1947). Questo lavoro trova un primo riscontro nei passi conclusivi del saggio L’utopia, incluso nel volume Gli inizi della filosofia borghese della storia (1930). Valorizzando le pagine della II Inattuale in cui il filosofo critica l’uso della storia ai fini di un’”idolatria del fattuale”1, l’autore pronuncia, al contempo, un severo giudizio sul suo itinerario speculativo: “Nietzsche, la cui successiva evoluzione filosofica certo ha condotto lui stesso a idolatrare non già la storia umana, ma la storia naturale, la biologia, e che effettivamente è caduto nella «nuda ammirazione del successo», della pura vitalità, qui ha formulato un pensiero dell’illuminismo”2. Tale pensiero insegna che la storia “non pone compiti né li risolve. Solo gli uomini reali agiscono superano ostacoli e possono riuscire a ridurre sofferenze singole o generali che essi stessi o le potenze della natura hanno creato La storia autonomizzata panteisticamente in entità sostanziale unitaria altro non è che metafisica dogmatica”3.
Accanto a una lucida critica della filosofia della storia di matrice idealistica, traspariva, in questi passi, un debito irrisolto verso di essa. Ne era indice l’accogliere una nozione, in ultima analisi, pre-trasformista della “storia naturale” (alla cui rielaborazione, non a caso, avrebbe poi lavorato Adorno) e della “biologia” stessa, inquadrate attraverso l’astratto concetto di “pura vitalità”, concepite come sfere del meramente istintuale, della ripetizione ciclica e, in ultima analisi, del non storico.
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L’ordoliberalismo 2.0
di Lelio Demichelis
L’ordoliberalismo – già egemone forse più del neoliberismo nella forma economica e tecnica assunta dalla società globale – sta dilagando e diventando egemone anche in rete e questa volta è ordoliberalismo 2.0. Quali sono le conseguenze sociali e politiche?
Era il 28 giugno del 1983 e Luigi Pintor – fondatore e direttore del manifesto – inventava un titolo che fece epoca esprimendo la speranza e l’auspicio di molti: Non moriremo democristiani. Sappiamo com’è andata a finire. Ma oggi, potremmo essere altrettanto ottimisti (l’ottimismo della volontà e della capacità-consapevolezza di poter cambiare il mondo) – ma questa volta senza sbagliare - e dire: non moriremo ordoliberali, neppure ordoliberali 2.0? Visti gli effetti di nichilismo politico e di sadismo sociale che l’ordoliberalismo ha prodotto e ostinatamente continua a produrre sull’Europa e su ciascuno di noi, davvero dovremmo proporci – con ostinazione e determinazione ben maggiori - di non morire ordoliberali (e neppure neoliberisti). Se l’ordoliberalismo e le sue politiche di austerità hanno palesemente fallito, perché ostinarsi nell’errore?
In verità, il pessimismo (o il realismo) della ragione sembra dirci che abbiamo perso la capacità di fare innovazione politica, economica e sociale e quindi abbiamo rinunciato alla libertà facendoci liberamente servi dell’ordine economico esistente. Come dimostrato dalla Brexit: l’illusione di un ritorno al passato come via di salvezza; e dalle elezioni in Spagna: il rifiuto del cambiamento e di una nuova politica economica, replicando l’atteggiamento del popolo di Siviglia che si inchina all’Inquisitore, nel racconto di Dostoevskij e dando purtroppo nuova conferma a quanto scritto da Gustavo Zagrebelsky, ovvero ormai non esistono più gli inquisitori come casta separata, perché tutti hanno interiorizzato il loro messaggio e l’unica libertà è quella di ‘difendere’ (per chi è incluso) o di ‘subire’ (per chi è escluso o ai margini) l’esistente.
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L’euro come metodo di governo
Alessandro Monchietto
Il ciclo di Frenkel, le ragioni degli squilibri dell’eurozona e la mezzogiornificazione delle periferie europee
1. Nella produzione di un ordine del discorso dominante, le notizie vengono selezionate, accorpate, differenziate: alcuni casi di cronaca vengono messi in risalto, altri lasciati in ombra o taciuti. Tutto si muove all’interno di una dinamica che sta a noi comprendere e districare, per non farci travolgere da un’ingiusta lettura del presente. C’è oggi nel mondo un discorso dominante, o che piuttosto si avvia a diventare dominante, relativo all’attuale crisi. Nella sostanza esso sostiene che l’odierna condizione di precarietà economica che caratterizza il continente europeo dipenda dai debiti pubblici, dalla loro quantità troppo elevata, dall’eccessivo rapporto fra debito e Pil. Il problema viene presentato come “crisi dei debiti sovrani”, in particolare di alcuni membri (i cosiddetti PIIGS) ordinariamente descritti come incapaci di controllare l’eccesso di spesa pubblica e la conseguente spirale debitoria; questo dato spaventerebbe gli investitori, determinando una diminuzione della fiducia del mercato azionario che – per questo motivo – comincerebbe a richiedere interessi sempre più alti. Per “tranquillizzare i mercati” occorrerebbero dunque drastiche scelte che migliorino il bilancio pubblico: aumento delle tasse e riduzione delle uscite (ergo tagli alla spesa sociale), privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici, e una riforma del mercato del lavoro che introduca maggiore flessibilità, diminuzione delle tutele sindacali, facilità di licenziamento, in modo da favorire la riduzione del rischio d’impresa e l’aumento della produttività.
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Il Medio Oriente è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione
Intervista* a Michel Collon
Proponiamo di seguito l’intervista integrale al giornalista d’investigazione belga Michel Collon apparsa sull’edizione di maggio 2016 del quadrimestrale d’approfondimento marxista #politicanuova, a cura di Aris Della Fontana e Raffaele Morgantini
1. Quali sono le principali caratteristiche dei rapporti tra Occidente (Usa ed Europa) e Medio Oriente a partire dai momenti conclusivi del Novecento? Quale funzione svolge il Medio Oriente all’interno delle strategie geo-politiche e geo-economiche occidentali?
Il Medio Oriente, inteso in senso ampio, quindi comprendente anche il Maghreb, la penisola arabica, il Corno d’Africa e paesi asiatici quali l’Afghanistan e il Pakistan – di fatto quel “Grande Medio Oriente” concepito dall’amministrazione statunitense -, è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione, innescata nel 1991 con la prima guerra del Golfo. A quel tempo Saddam Hussein cadde in una trappola: gli si fece credere che gli Stati Uniti non si sarebbero mossi laddove egli avesse tentato di recuperare il Kuwait, sottratto all’Iraq dal colonialismo britannico; ma George Bush senior, invece, intervenne. Lo scopo degli Stati Uniti era quello di distruggere l’Iraq assieme a Saddam Hussein perché quest’ultimo aveva commesso l’imperdonabile errore di sollecitare gli arabi e più in generale il Medio Oriente alla ricerca dell’indipendenza rispetto agli Stati Uniti, alla resistenza rispetto ad Israele e all’utilizzo del petrolio al fine di ingenerare uno sviluppo autonomo che mettesse fine alla colonizzazione economica della regione. Così facendo Saddam Hussein, come tutti quei dirigenti arabi che storicamente si sono mostrati troppo indipendenti rispetto agli Stati Uniti e al colonialismo in generale, firmò la sua condanna a morte: si tentò dunque di abbatterlo, ma la resistenza irachena si rivelò molto forte, e inoltre non si riuscì a contare su personaggi corrotti interni al paese né ad organizzare la divisione tribale di quest’ultimo.
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Da Nizza alla Turchia. Fatti che attendono parole
di Piotr
'Incanalano' piani pensati in autonomia da altri'? Chiudono strade, ne aprono altre, come a dirigere il traffico. Chi dirige il traffico non conduce le auto
Essendo ogni atto di terrorismo, per definizione, una "operazione segreta", dopo una strage come quella di Nizza si può solamente navigare da un'ipotesi all'altra.
Noi Italiani dovremmo saperlo bene. Nel nostro paese fra la strage del 1969 di Piazza Fontana a Milano e quella alla stazione di Bologna del 1980 abbiamo avuto un decennio abbondante di attentati, che misteriosi rimangono sotto molteplici aspetti anche dopo decine d'anni d'inchieste, controinchieste, rivelazioni e processi.
All'epoca la strage di Piazza Fontana fu "svelata" grazie al Movimento Studentesco milanese e poi a Lotta Continua. Il Movimento intuì subito che era una "strage di Stato". Intuizione giustissima anche se capimmo solo una parte delle sue implicazioni.
Qualcuno recentemente per arginare democraticamente il terrorismo ha proposto di riappropriarsi della cultura politica di Longo e Berlinguer. Non voglio intervenire più di tanto in questo dibattito, ma devo ricordare che il termine "strage di Stato" fu sempre considerato una sorta di bestemmia dal PCI. L'avvocato Alberto Malagugini, deputato comunista e difensore di Pietro Valpreda, la "belva umana", l'anarchico che fu subito indicato da Polizia e mass media come l'autore della strage, ragionando sui documenti processuali scrisse nell'aprile 1976 un articolo su "Rinascita", la prestigiosa rivista del PCI, intitolato proprio "Dunque la strage era di Stato". Non lo avesse mai fatto.
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L'equalizzazione, la guerra civile permanente e l'israelizzazione €uropea
di Quarantotto
1. L'autore della strage di Nizza era di origine tunisina ma con documenti di cittadinanza francese; aveva alle spalle una storia di piccoli reati (di violenza).
Riferita alla situazione francese, che è quella che nell'Occidente europeo si presenta come la più caratterizzata dal terrorismo, si conferma quanto si era più volte evidenziato, parlando dell'evidente stortura di una "guerra con l'Islam". Bazaar ha ripetutamente analizzato questo aspetto in termini di conflitto sociale, e quindi distributivo, in un'economia dominata dal mercato globalizzato, parlando di "menti elementari", cioè quelle che reagiscol'israelizzazione €no in automatico-acritico allo spin mediatico indotto dagli stessi che sostengono il mercatismo mondialista.
2. Nell'illustrare come manchino le condizioni più basilari per poter parlare del "siamo in guerra con l'Islam", - salvo quanto si può aggiungere sulla questione "saudita" (e occorrerà tornarci)- si era evidenziato un aspetto così evidente che, infatti, in Italia, è del tutto trascurato:
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Il militante filosofo
di Felice Mometti
È sempre difficile risalire ai motivi che stanno alla base di una ripresa di interesse per il pensiero teorico e politico di un autore che ha svolto un ruolo non secondario nel campo del marxismo critico. Probabilmente sono sempre un insieme di coincidenze e necessità. A sei anni dalla morte di Daniel Bensaïd nel giro di pochi mesi, in Francia, sono usciti alcuni importanti contributi: la ripubblicazione di Stratégie et parti, che risale alla metà degli anni ’80, con una lunga introduzione e altrettanto lunga postfazione di Ugo Palheta e Julien Salingue(1) e il numero monografico, dedicato a Bensaïd, di Cahiers critiques de philosophie dal titolo Le militant philosophe(2). Ed è stata anche annunciata l’uscita, entro quest’anno, di un altro dossier monografico a cura questa volta della rivista Historical Materialism.
Un bilancio incerto
La prima pubblicazione di Stratégie et parti, nel 1987, era stata preceduta da un lungo contributo su Critique Communiste(3) in cui si esplicitava senza mezzi termini la profonda crisi che stava attraversando la Ligue Communiste Révolutionnaire (Lcr), l’organizzazione in cui militava, e venivano avanzate alcune ipotesi sul cambiamento radicale di fase politica dopo le lotte del decennio precedente.
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Tra Barroso e Bouhlel
Quindici anni dopo Genova
Franco Berardi Bifo
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.
(Yeats: The Second Coming)
Fine del thatcherismo
Quindici anni dopo Genova, quando il globalismo neoliberista festeggiò sanguinosamente il suo trionfo, molti segnali fanno pensare che tutto stia precipitando: il dominio neoliberista, che ha garantito un equilibrio di potere a livello globale sta franando, e la guerra civile frammentaria si espande in ogni area del pianeta, fino a coinvolgere gli Stati Uniti d’America dove la diffusione capillare di armi alimenta la quotidiana mattanza di cui gli afro-americani sono la vittima privilegiata.
I segnali si moltiplicano ma come interpretarli? Quale tendenza intravvedere?! E soprattutto come ricomporre l’autonomia sociale, come proteggere la vita e la ragione dalla follia omicida che il capitalismo finanziario ha attizzato e il fascismo nelle sue varianti nazionaliste e religiose sempre più spesso aggredisce?
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Le contraddizioni dell’operaismo
di Marco Gatto
Il revival operaista è ormai sotto gli occhi di tutti: il successo internazionale raggiunto da Toni Negri, il riconoscimento dell’importanza filosofica di Mario Tronti, i tentativi di innestarne la teoria politica sul post-strutturalismo di marca deleuziana, la proliferazione accademica di discorsi teorici fondati sull’autonomia e sulla soggettività rivoluzionaria, e via dicendo, segnano un orizzonte culturale in cui l’operaismo ha conquistato una rilevanza impensabile fino a qualche decennio fa. Si coglie, persino, una sorta di euforia galvanizzante nei sostenitori di quella stagione, oggi alfieri del post-operaismo: una narrazione culturale in cui i filosofi-politici diventano eroi titanici, scrivono ponderose autobiografie, diventano senatori dalla parte sbagliata, e nella quale la classe operaia è vista come una sorta di leggenda o di racconto delle origini.
A questa creazione dal nulla di un mito filosofico il nostro paese non è estraneo: chi si ostina, oggi, a riconoscere una supposta differenzialità teoretico-geografica nella tradizione filosofica italiana sembra servire, senza neppure troppi problemi, logiche forse eccessivamente somiglianti a quelle del mercato culturale più ordinario. Ogniqualvolta venga fuori dal niente un’identità costruita a tavolino, non possono che affiorare preoccupazioni.
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Il realismo, fase suprema del postmodernismo?
Note su «New Realism», post modernità e idealismo
Diego Fusaro
«Realismo ingenuo, realismo scientifico, realismo filosofico: malgrado tutte le pretese dei difensori ostinati, esso è sempre molto ingenuo, perché ci vorrebbe assai poco ad accorgersi che tutto ciò che si trova, o si escogita, o si costruisce col pensiero, non può essere altro che pensiero» (G. Gentile, Genesi e struttura della società).
1. La segreta complementarietà di realismo e postmodernismo
Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del realismo. È lo stesso Maurizio Ferraris, nelle pagine programmatiche del Manifesto del nuovo realismo1 (2012), a evocare l’incipit del manifesto marx-engelsiano per alludere all’odierno dilagare ipertrofico del realismo in tutte le sue forme (politiche, sociali, economiche, filosofiche). Analogamente a Marx ed Engels, che si richiamavano allo spettro del comunismo come a una forza già esistente e pronta a seminare il panico nella vecchia Europa, Ferraris adombra come quella del realismo sia una presenza “spettrale” perché vaga e, insieme, materialmente già esistente e affermata. Una presenza reale, appunto, e insieme dai contorni evanescenti, come emerge non appena si consideri che la categoria multicomprensiva di realismo alberga oggi, al proprio interno, tali e tante determinazioni concettuali differenti da rendere, eo ipso, ambigua, scivolosa e sfuggente la stessa categoria. E, non di meno, come subito cercherò di chiarire, al di là di questa strutturale proteiformità della formula, è possibile individuare un comun denominatore tra le molteplici determinazioni semantiche sussunte sotto l’etichetta di realismo.
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Il pivot to China
Diego Angelo Bertozzi
Scopo di questo saggio è di dare un quadro il più possibile comprensibile delle tensioni che si stanno accumulando in Asia orientale, soprattutto in riferimento al nuovo ruolo di potenza economica e politica della Cina popolare. Questo perché la stampa, soprattutto occidentale, diffonde l’immagine di una Pechino sempre più aggressiva e intenzionata a far pesare sui Paesi vicini tutta la propria forza, utilizzando il ricatto della propria modernizzazione militare. Queste denunce hanno un grande limite, e non certamente per puro caso, perché riflettono una vera e propria scelta di campo: tacere sul quadro complessivo che vede proprio la Cina come oggetto di un nuovo sistema di accerchiamento militare, politico ed economico con al centro Washington, decisa a salvaguardare la propria posizione egemonica risalente al secondo dopoguerra.
Il primo cordone sanitario attorno a Pechino
Lo scoppio della guerra di Corea (1950-53) è il primo tremendo impatto della Cina con la realtà delle relazioni fra potenze.
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Le radici storico-antropologiche della nozione di feticismo
di Alessandra Ciattini
La nozione di feticismo nasce all'interno della riflessione sulla “religiosità primitiva” ma da questa è trasferita ad altri ambiti culturali. Contiene in sé una prospettiva critica che consente di scomporre i nostri “feticci” nel sistema di relazioni che in essi si cristallizzano
In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno. Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da Hegel, Marx, Comte, Freud per citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza - per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due punti: 1) cosa suscita l'interesse per le forme religiose extra-occidentali ? 2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni elementi costitutivi della propria società e cultura?
L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al concetto di tabù - reso noto da James Cook nei suoi diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”. Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato, altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale, la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non fosse stato scoperto.
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Introduzione a Hans Heinz Holz: Marx, la storia, la dialettica*
Stefano Garroni
Perché presentiamo questi scritti di H. H. Holz – rispettivamente già pubblicati dalla rivista “Dialektik” 1991 n. 2 e 1992 n.1? La risposta sta nella paradossale situazione teorica, culturale e politica, in cui ci tocca attualmente vivere.
Voglio dire che, probabilmente, si dovrebbe risalire molto indietro nel tempo, per trovare un’altra epoca in cui, come nella nostra, sia tanto marcata la distanza fra livello teorico – cioè, della riflessione scientifica e di quella filosofica, più strettamente a contatto con gli sviluppi delle scienze e le loro conseguenze anche morali – ed i livelli CULTURALE E IDEOLOGICO – dunque, i piani, che mediano, variamente, consapevolezza teorica e credenze funzionali all’assetto sociale dato. Le conseguenze di tale marcato distacco sono – com’è facile capire e constatare – devastanti: il passaggio, oggi, dalla lettura di un libro importante a quella di un giornale o, più limitatamente, della sua “terza pagina”, autenticamente significa non solo né tanto trascorrere da un livello ad un altro, quanto piuttosto passare da un mondo – raffinato, complesso, difficile, ma probabilmente e parzialmente vero –, ad un universo onirico, la cui difficoltà è data da un fitto intreccio di semplificazioni aberranti ed ipocrisia stupefacente.
Ad aggravar le cose, si aggiunge la novità, per cui – oggi – è proprio la “sinistra”, che si fa portatrice – addirittura paladina – sia di quel distacco, che di quell’intreccio di ipocrisia e semplificazioni deliranti.
Insomma, la nostra è l’epoca in cui – poniamo – ci si batte per la “memoria storica” (così detta); il che ovviamente significa che in primo luogo la “sinistra” – la grande laudatrice delle “radici storiche” – mentre lamenta e denuncia con feroce cipiglio la “smemoratezza” attuale, contemporaneamente accetta la mistificazione di fondo – che consiste esattamente nel ricacciare, nel confinare, storia e radici nel PASSATO, appunto, in ciò che sta dietro le nostre spalle e che, dunque, ATTUALMENTE non ci occupa più.
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Al di la’ del salario: l’auto-sfruttamento del capitale umano
di Fabio Mengali
Una non-recensione del libro “Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale” di Chicchi, Leonardi e Lucarelli
La lettura del nuovo libro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stafano Lucarelli "Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale" (Ombre Corte, 2016) risulta preziosa per la comprensione del presente e per iniziare a superare una serie di categorie, analisi e interpretazioni che hanno iniziato a starci scomode quando parliamo di nuove forme del controllo e dello sfruttamento. Cerchiamo di addentrarci nei suoi contenuti, approfittando del confronto diretto con gli autori che è avvenuto all’interno dello Sherwood Festival del 2016, per capire quale posta in gioco mette sul piatto la proposta teorica del saggio.
(Di sotto il video della presentazione)
Non solo sussunzione: l’altra logica del capitale per sfruttarci
L’obiettivo del libro è chiaro fin da subito: registrando la permanenza del binomio indissolubile tra plusvalore e sfruttamento nel rapporto di lavoro, gli autori vogliono analizzare adeguatamente la presa del capitale sul lavoro vivo per capirne i nuovi meccanismi di estrazione del valore.
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Il socialismo come limite conflittuale del capitalismo
di Nicolò Bellanca
Il socialismo è oggi una voce del movimento intellettuale e politico planetario che lotta per limitare l'espansione capitalistica nella vita personale e sociale. Si tratta di una prospettiva che non riesce però ad affermarsi ne "L'idea di socialismo" di Axel Honneth, argomenta Nicolò Bellanca in questo nuovo capitolo della riflessione avviata sul "Rasoio di Occam" intorno all'ultimo libro del filosofo tedesco
Il recente libro del filosofo francofortese Axel Honneth, intitolato L’idea di socialismo, è un’occasione per chiederci se e quanto resti in piedi di una delle grandi impostazioni teoriche, e di uno dei maggiori progetti politici, della modernità.[1] L’impianto teorico del volume è scontato e abbastanza condivisibile: «al determinismo storico, alla centralità del proletariato e alla rigidità dell’economia pianificata centralizzata, si sostituisce un deciso sperimentalismo storico, aperto sia riguardo alle forme economiche sia riguardo agli attori in gioco. Alla cecità giuridica e politica del socialismo tradizionale è contrapposto un progetto radicalmente democratico, giocato sulla discussione pubblica e sull’ampliamento dei partecipanti a essa».[2] In termini costruttivi, al cuore della proposta di Honneth vi è non già il valore dell’uguaglianza – come in tanti altri contributi sul tema del concetto di sinistra e/o di socialismo[3] –, bensì l’idea della libertà sociale: accanto alla libertà negativa come non-interferenza e a quella positiva come autodeterminazione, quella sociale si acquisisce soltanto in relazione con gli altri. Più esattamente, l’ideale della libertà sociale si realizza non nel rapporto dell’uno-con-l’altro (intersezione), bensì in quello dell’uno-per-l’altro (interconnessione) e, secondo Honneth, coincide, tra i principi normativi introdotti dalla Rivoluzione francese, con la fraternité o reciprocità solidale.
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Il De profundis per gli Stati Uniti d’Europa
Michele G. Basso
L’uscita dell’Inghilterra dalla UE è la dimostrazione dell’impossibilità della formazione di una federazione di stati europei sul modello degli USA. Più volte abbiamo riportato le posizioni di Lenin, della Luxemburg e di Bordiga, che giudicarono tale ipotesi o impossibile o reazionaria. L’idea di una soluzione bismarckiana o cavouriana, per cui uno Stato con la guerra unifica diversi paesi, si presentò anche per l’Europa, e fu sconfitta. Napoleone, entro certi limiti erede della rivoluzione francese, dove arrivò con la sua legislazione favorì lo sviluppò di una moderna borghesia, ma il suo tentativo di arrivare ai confini dell’Europa s’infranse contro la riserva della reazione mondiale, la Russia zarista.
L’altro tentativo di unione con la forza, condotto da una borghesia ormai ultrareazionaria, fu quello di Hitler, ma non poteva riuscire perché, più che di unificazione si trattava di colonizzazione, giacché Hitler introdusse in Europa quei metodi terroristici che gli imperi europei avevano utilizzato contro le popolazione africane, asiatiche e con gli indiani d’America.
Se è stata impossibile l’unificazione con la forza, a maggior ragione lo è quella mediante accordi tra Stati.
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Contro il Reddito di Cittadinanza Universale ed Incondizionato
di Marco Mercuri
Mentre il MoVimento5Stelle si accredita sempre più come forza di governo, tesse legami internazionali e “normalizza” il suo programma epurandolo dalle misure definite per anni “antisistema e populistiche” dai media (basti pensare al riposizionamento europeista avvenuto a seguito della tournée pre-elettorale di Luigi Di Maio nei salotti che contano tra Roma, Berlino e Londra, per inciso, la stessa che fece Renzi), c’è un fiore all’occhiello del loro programma che sta raccogliendo uno straordinario ed inaspettato consenso divenendo, di fatto, la “scaletta” che consente di salire sul carro del vincitore a gente come Gramellini, Freccero ed altri personaggi della nostrana a-sinistra radical chic. Stiamo parlando del Reddito di Cittadinanza.
In Svizzera il 5 giugno la maggioranza dei cittadini ha bocciato la proposta di modifica costituzionale che avrebbe aperto la strada alla realizzazione di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato (2500 franchi svizzeri, corrispondenti a circa 2280€). Non passerà molto prima che sentiremo parlare nuovamente di simili tentativi nella vecchia Europa. In molti paesi è già presente una sorta di reddito di emergenza capace di arrivare a soccorso delle vittime della disoccupazione e della precarietà, fenomeni strutturalmente connaturati all’attuale modo di produzione capitalista. Tali misure sono però assimilabili, al netto delle dovute peculiarità, a sussidi di disoccupazione ed altre forme di assistenza “particolare”.
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Guerra e rivoluzione
di Sebastiano Isaia
Conoscerete la verità ed essa vi renderà liberi (Gesù).
L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità (Mohammad).
La verità è rivoluzionaria (Lenin).
Per lo storico Franco Cardini, con il terrorismo jihadista l’Occidente si trova a dover fare i conti con una guerra sociale che usa la religione come mero pretesto: «Non illudiamoci. Questa non è una guerra di religione: è una guerra sociale, della quale è teatro tutto il mondo». Si tratta allora di chiarire i termini politici e sociali di questa guerra, di precisarne i contorni, anche ideologici, di coglierne la dinamica interna e di connetterla al più generale e unitario processo sociale mondiale. Nel suo piccolo, chi scrive ha cercato di dare un contributo alla comprensione di questa «guerra sociale» scrivendo diversi post sull’argomento, ai quali rimando i lettori, e la cui tesi centrale si può riassumere come segue: la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che di essa fanno i movimenti politico-militari al servizio di interessi economici, sociali e geopolitici ben definiti.
A proposito dell’evocata guerra sociale, e prima di entrare nel merito della questione, non posso non evidenziare il fatto che il Presidente degli Stati Uniti si è visto costretto ad abbandonare in fretta il vertice Nato di Varsavia, nel corso del quale gli Alleati hanno approntato nuove misure politico-militari idonee a contenere l’attivismo imperialista della Russia di Putin, per fronteggiare quella che molti analisti politici americani definiscono «una nuova guerra civile». «Obama ha la guerra in casa, e viene qua a intromettersi nelle vicende che riguardano il mio cortile di casa!», avrà pensato con un certo fastidio e con molto compiacimento il virile Vladimir.
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Stato d'eccezione o statalismo autoritario
Agamben, Poulantzas e la critica dell'antiterrorismo
di Christos Boukalas
L'antiterrorismo viene spesso compreso in termini di emergenza e di sospensione dello Stato di diritto. Contro questa lettura eccezionalista sviluppata soprattutto da Giorgio Agamben, Christos Boukalas sostiene un approccio strategico-relazionale delle mutazioni degli Stati capitalisti e degli apparati securitari, rispetto a cui lo statalismo autoritario appare come una forma normale di potere politico nella società capitalista. In questa prospettiva, i potenziali di resistenza alle strategie del potere non devono essere trovati nella "nuda vita" ma nelle forze sociali e nelle lotte concrete che caratterizzano la situazione attuale.
Il contributo di questo articolo alle analisi critiche del terrorismo consiste nel presentare e confrontare i due approcci alla sicurezza interna agli Stati Uniti [*1]: in primo luogo, l'approccio in termini di stato di emergenza, derivato da Carl Schmitt ed introdotto nei dibattiti contemporanei attraverso la sua riconcettualizzazione da Giorgio Agamben, e in secondo luogo, un approccio strategico-relazionale elaborato a partire dalla teoria dello Stato di Nicos Poulantzas e Bob Jessop [fs].
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A proposito di mandanti morali
di Militant
Ernesto Galli della Loggia, insieme a Dario Di Vico, Angelo Panebianco, Paolo Mieli e Sergio Romano, fa parte di quella cerchia di intellettuali di riferimento che stabiliscono la linea politico-ideologica del Corriere della Sera, il principale organo d’informazione del paese. Da questo punto di vista, è sempre interessante leggere le analisi proposte da questi particolari maître a penseer della borghesia italiana, perché dicono esplicitamente ciò che il resto del giornalismo lascia solo intendere ambiguamente. Si fanno carico di sintetizzare una visione del mondo, dunque riassumono la weltanschauung dominante. Paradossalmente, proprio perché tendono a dire “le cose come stanno” senza freni inibitori tipici di chi non può ambire a quel ruolo, a volte affermano effettivamente “pezzi di verità” celati dalle varie narrazioni artificiose attraverso cui viene celata la realtà dei fatti. Sono, in altri termini, il volto “sincero” di un realismo politico con cui fare i conti. Altre volte, invece, hanno il ruolo di nobili giustificatori dello status quo. Non a caso capita molte volte, non solo da queste parti, di commentare le loro prese di posizione. Perché se bisogna confrontarsi con il pensiero dominante, è attraverso questi personaggi che bisogna passare, per leggere la realtà senza veli deformanti.
L’analisi proposta dal nostro sul Corriere di lunedì scorso (Le parole che l’Islam non dice) riassume degnamente il pensiero dominante, quello effettivamente veicolato dai centri del potere politico-culturale, ma che viene mascherato dalle ragioni del politicamente corretto.
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