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Il Vangelo secondo Matteo. Un commento al Dl 34/14
CAU Napoli
Se ne sentiva parlare da mesi, sicuramente da prima che il nuovo Governo si insediasse. Il gioco iniziale consisteva nel decantare di tutto un po' in materia di lavoro, proponendolo come la soluzione a tutti i mali - dalla disoccupazione, alla mancata “crescita” dell’Italia, passando per la morte di Lazzaro (Matteo 9:2-8.) - ma parlandone sempre in maniera evanescente. Eppure, infine, Jobs Act fu .
Il programma di Renzi, enunciato come unico Vangelo da seguire parla, ovviamente, anche di lavoro. Fin dall’incipit il Decreto Legge 34/14 (per ora prima e unica parte stilata del Jobs Act) chiarisce le proprie finalità. La più indicativa è la prima: “semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile”.
Non c’è niente di nuovo, a dispetto del clima di novità ostentato dal nuovo Premier: se non vogliamo risalire alla Legge Biagi, basta guardare la “riforma” Fornero per trovare un filo conduttore e una continuità tra i vari governi. Ma procediamo per piccoli passi.
Cosa mette in campo questo rinomato Jobs Act?
La prima tranche, già approvata tramite il decreto legge 34/14, pone al centro “la flessibilità in entrata” e “l’occupazione giovanile”, modificando il contratto a termine e quello di apprendistato.
Nello specifico, la durata del contratto a termine (Art. 1) viene alzata da 12 a 36 mesi, eliminando la causale, ovvero l’obbligo di spiegare la motivazione della temporalità “anomala” del rapporto di lavoro.
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Commons contro e oltre il capitalismo
Incontro con Silvia Federici e George Caffentzis
Il tema dei commons, tradotti solitamente in italiano come beni comuni, evoca un immaginario potente, un’idea attraente di legame caldo contro l'isolamento ed individualismo sempre più parossistici dell’attualità. Tuttavia essi oggi hanno raggiunto una pericolosa trasversalità, e rappresentano un terreno estremamente scivoloso, all’interno del quale si sono affermate prospettive molto differenti (sino ad arrivare in Italia a far parte delle campagne di Cgil e Pd che hanno parlato del Lavoro e dell'Italia come beni comuni...). Se è evidente come un uso di questo tema da parte dei movimenti anticapitalisti non possa che basarsi su una preliminare sottrazione dei beni comuni dal tema del bene comune (una affinità linguistica prodotta dalla lingua italiana), è interessante ricostruire una genealogia di come il discorso sui commons sia venuto affermandosi su scala planetaria negli ultimi due decenni. Per fare questo proponiamo il report di un incontro tenutosi al 16 Beaver, uno spazio di movimento situato a South Manhattan. Un luogo nato come sede di gruppi artistici nel 1998, e trasformatosi a seguito di Occupy. La vicinanza con Zuccotti Park lo rese infatti uno spazio molto attraversato dagli attivisti del movimento, e oggi ospita un fitto calendario di iniziative e dibattiti.
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Jobs Act, Credit crunch, MMT, Exit Strategy
Intervista a Guglielmo Forges Davanzati
Il prof. Guglielmo Forges Davanzati, docente presso l’Università del Salento affronta temi eterogenei ed estremamente attuali: dal jobs act di Renzi, al problema del credit crunch bancario, alla controversa visione della produttività, al nesso tra Circuitismo e Modern Money Theory fino alla delicata questione della moneta unica e di una possibile “exit strategy”.
In un suo recente articolo ha affermato che il Jobs Act di Renzi sia “una proposta sostanzialmente vuota” e che riproporrebbe, in modalità diverse, ulteriori politiche di precarizzazione del lavoro. Alla luce di questa affermazione, secondo lei, quali sarebbero le misure che il Governo dovrebbe invece adottare per rilanciare l’occupazione e ridurre la disoccupazione che ha raggiunto la drammatica soglia del 12,9% e del 42,4% per i giovani?
Il Jobs Act recepisce una proposta di Boeri e Garibaldi, che fa riferimento all’istituzione di un contratto unico di inserimento a tutele crescenti. Avendo realizzato che alle imprese non serve poter disporre di una selva di tipologie contrattuali (come previsto nella c.d. legge Biagi), si propone un intervento di semplificazione, finalizzato ad abolire alcune tipologie contrattuali tuttora vigenti, e non utilizzate, e istituire un contratto unico con un iniziale periodo di prova e con successiva assunzione a tempo indeterminato. Ma il contratto unico a tutele crescenti non sostituisce i contratti a tempo determinato. In questo senso, la proposta è vuota, ovvero non modifica, nella sostanza, nulla.
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Peter Sloterdijk. Critica della ragion cinica
Antonio Lucci
Nella storia della cultura, a volte, ci sono episodi che appaiono come passaggi di consegne, oltre e al di là delle intenzioni dei protagonisti stessi.
Nei primi mesi del 1984 Michel Foucault, pochi mesi prima di perdere la sua battaglia contro l’AIDS, teneva al Collège de France di Parigi un corso dal carattere quasi testamentario, sicuramente folgorante e a tratti commovente, dal titolo Il coraggio della verità (edito in italiano per i tipi Feltrinelli nel 2011).
Qui il grande pensatore francese parlava degli antichi filosofi cinici, della loro particolarissima pratica del dire-il-vero (parresia), e del fatto che nella storia della civiltà occidentale, probabilmente, questi hanno rappresentato un unicum: caso estremo di filosofi che hanno tradotto per intero in pratica di vita il loro pensiero, non lasciando scarto alcuno tra idea e azione, tra la presa di posizione ideale e la sua realizzazione.
Muovendosi tra le pieghe del pensiero cinico, nelle enormi difficoltà poste dal reperimento delle fonti, Foucault dedica alcune riflessioni ad alcuni pensatori che – in anni più o meno coevi al suo corso – si erano dedicati all’analisi del fenomeno del cinismo.
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Quantitative Easing: la soluzione ai problemi dell'Eurozona?
di Thomas Fazi
Sta facendo scalpore un’intervista
rilasciata pochi giorni fa da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei “falchi” all’interno del consiglio della Bce, in cui per la prima volta ha aperto alla possibilità che la Bce ricorra ad operazioni di quantitative easing, ossia all’acquisto di titoli di stato da parte della banca centrale. Weidmann ha detto:
Le misure non convenzionali considerate sono in gran parte un territorio poco noto. Quindi dobbiamo discutere sulla loro efficacia, sui loro costi e i loro effetti collaterali. Questo non significa tuttavia che le azioni di quantitative easing siano assolutamente da escludere.
In effetti la dichiarazione di Weidmann rappresenta un’inversione di tendenza non da poco, in quanto buona parte dell’establishment (politico, monetario e giudiziario) tedesco aveva finora categoricamente escluso l’ipotesi “americana” di un intervento attivo della banca centrale sui mercati sovrani dell’eurozona. Basti pensare alla recente messa in discussione da parte della Corte costituzionale tedesca del programma Omt di Draghi (finora mai utilizzato) per poter acquistare in emergenza titoli pubblici già sul mercato. È probabile che il “falco” della Bundesbank sia stato spinto ad ammorbidire i toni dai dati sempre più drammatici sul tasso d’inflazione nell’eurozona, ormai in caduta libera. Come ha riferito lunedì la Bce, a marzo l’area euro ha registrato il tasso medio più basso da più di cinque anni a questa parte – 0.5% (ben lontano dall’obiettivo della banca centrale del “poco meno del 2%”) –, mentre molti paesi della periferia registrano ormai un tasso vicino allo zero o addirittura negativo (Spagna, Grecia).
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Le riforme di Renzi? Ecco perché sono una schifezza
di Andrea Scanzi
Tutti vogliono il “cambiamento”, ma non tutti i cambiamenti sono positivi. Gran parte delle riforme di Renzi sono false quando non disastrose. Se gli italiani le conoscessero nel dettaglio, non sarebbero certo così entusiasti come sembrano. La fredda cronaca.
1) Abolizione delle Province. Falso. Il ddl Delrio ingarbuglia ulteriormente le cose, crea 25mila nuovi consiglieri e 5mila assessori in più. Non abolisce le Province, ma crea casomai nuove Città Metropolitane. Delrio parla di 2 miliardi di risparmio. Falso: la Corte dei Conti ha stimato il risparmio al massimo in 35 milioni di euro.
2) Lotta alla mafia. Renzi si è laureato in Giurisprudenza per tributo a Falcone e Borsellino, ma non sembra. Come ulteriore favore ad Alfano e dunque a Berlusconi, sta operando per annacquare il 416ter del codice penale, quello sul voto di scambio politico/mafia. Renzi intende eliminare la sanzione per il politico che si mette a disposizione delle cosche e lasciando unicamente la sanzione per lo scambio voto/denaro o voto/altra utilità. Renzi si sta così limitando a riproporre una norma che è risultata sinora del tutto inutile al contrasto degli accordi politica/mafia.
3) 80 euro in busta paga a chi prende meno di 25mila euro annui. Falso. Renzi lo aveva promesso nel corso della conferenza stampa con le slide dell’Esselunga, ma quell’aumento mensile da maggio sembra già diventato un bonus una-tantum.
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Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta
Stefano Perri, Riccardo Realfonzo
1. Nella spesa pubblica italiana si annidano sprechi e intollerabili sacche di privilegi. Questa amara considerazione induce molti commentatori a dedurre che la spesa pubblica italiana sia eccessiva e in questo consisterebbe il principale problema della nostra finanza pubblica, secondo alcuni persino la causa originaria della montagna di debito pubblico. Per questa ragione, la spesa pubblica italiana andrebbe complessivamente ridotta. Ma si tratta di una vecchia ricetta che ha già dato pessima prova di sé. Infatti, la spesa pubblica è oggetto di tagli incisivi in Italia da oltre venti anni, senza che sprechi e privilegi siano stati cancellati. Per non parlare degli effetti macroeconomici dei tagli, e in generale delle politiche di austerità, che hanno arrestato la crescita della nostra economia.
A ben vedere, la spesa pubblica italiana non è affatto elevata e gli sprechi non devono essere combattuti tagliando la spesa, bensì riqualificandola. Infatti, come di seguito mostreremo, il volume complessivo della spesa pubblica italiana è in linea con la media dei Paesi europei, nonostante il volume ingombrante degli interessi sul debito. Ciò significa che la spesa pubblica primaria o “di scopo” – cioè la spesa diretta ad erogare servizi pubblici, con esclusione degli interessi sul debito – è largamente inferiore alla media europea.
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"La pensée-marchandise"
A proposito del libro di Alfred Sohn-Rethel
Palim Psao
«Non è solo il contenuto, ma sono le forme stesse del pensiero, a trarre origine dall'organizzazione sociale della produzione materiale. Gli inizi della logica, nel mondo dell'antica Grecia, sono legati alla comparsa delle prime monete. L'apriori di cui parlava Kant era la forma-merce. Sono queste le teorie innovative che Sohn-Rethel propone negli anni 1930, in controcorrente non solo a tutta la tradizione filosofica, ma anche al marxismo tradizionale. Queste teorie hanno influenzato profondamente gli inizi della Scuola di Francoforte, al prezzo però di un'emarginazione dell'autore, durata per molto tempo. Questa prima traduzione francese di tre dei suoi saggi, non solo riempie una grave lacuna nella conoscenza d el pensiero critico tedesco nella sua età d'oro, ma offre anche gli strumenti per elaborare al giorno d'oggi un'epistemologia fondata sulla teoria di Marx, vista nel quadro di una critica radicale dell'astrazione sociale, del mercato e della merce, che ci governano.»
Così, la quarta di copertina del libro di Alfred Sohn-Rethel, "La pensée-marchandise", il quale comprende tre saggi scritti negli anni 1930 dal filosofo della Scuola di Francoforte ("Forme marchandise et forme de pensée? Essai sur l'origine sociale de l'entendement pur"; "Eléments d'une théorie historico-matérialiste de la connaissance"; "Travail intellectuel et travail manuel. Essai d'une théorie matérialiste"), preceduti da una prefazione scritta da Anselm Jappe che lega il dibattito, che ebbe corso nell'ambito della nuova sinistra tedesca degli anni 1970, intorno all'opera di Sohn-Rethel, al dibattito attuale in seno al movimento della Wertkritik (critica del valore).
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La Bank of England ed il Dottor Stranamore che vuole arrivare al Don
di Joseph Halevi*
La recentissima pubblicazione dello studio della Bank of England conferma da fonte insospettabile che le banche creano moneta dal nulla (cioe’ non la scavano da qualche miniera, ne’ la pompano da qualche giacimento) prestandola a coloro che hanno piani di investimento o di acquisto di beni di consumo durevoli. Non ci sono quindi vincoli monetari in quanto tali. Analogamente per la Banca Centrale: puo’ convalidare qualsiasi richiesta da parte del Tesoro e puo’ in tutta tranquillita’ monetizzare debito e deficit pubblici. Scuole, ospedali, ferrovie, pensioni, universita’ e ricerca possono essere finanziate senza vincoli di bilancio ma solo reali che dipendono dalle capacita’ produttive esistenti e utilizzabili. E’ ovvio che se all’Istituzione che dovrebbe convalidare i flussi nel circuito monetario, cioe’ la Banca Centrale, viene formalmente proibito di assecondare il processo, il circuito, da qualche parte finira’ per troncarsi.
Nelle banche centrali (certamente negli USA e GB) tutte queste cose erano note da tempo ma non venivano dette. Come durante l’eta’ di Galileo Galilei quando per la navigazione oceanica verso le Americhe la Chiesa permetteva l’uso da parte della Spagna della concezione copernicana della Terra; mentre in Europa, in Italia in particolare, imponeva la visione tolemaica bruciando chi la confutava pubblicamente. Il comportamento delle autorita’ burocratiche dell’UE, non tanto di Mario Draghi, e’ simile a quello della Chiesa durante il periodo galileiano.
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Sui giovani
di Piergiorgio Giacchè
Anche Stefano Laffi ha fatto un sogno, anzi un incubo, come confessa nella nota introduttiva del suo libro La congiura contro i giovani. Il suo incubo ci riguarda tutti e coglie il lettore – proprio come avviene allo scrittore – in “perfetta e assurda solitudine”. Si è tutti soli dentro un incubo: un tutti che non è mai maggioranza ne può fare comunella come invece capita nei sogni alla veltroni della prima ora o alla renzi della seconda opportunità. Il fatto è che i sogni dal tempo di Disney non c’entrano più con Freud: non rivelano traumi passati né forniscono presagi futuri ma colorano il presente di un rosa che non può morire all’alba, dove sorge immancabile il sol dell’avvenir. Gli incubi invece sono banditi prima ancora che temuti: se proprio ci scappano – come è successo a Laffi – sarebbe meglio non raccontarli nemmeno a se stessi, ché la loro valutazione nel mercato è zero e la politica li scomunica come “critiche non costruttive”. Meglio non disturbare non tanto il manovratore che non c’è, quanto il consum-attore che è l’unico ad avere cittadinanza sociale e identità culturale nell’attuale “società assurda”… Che è poi sempre la stessa che studiavano gli scienziati sociali di decenni fa, quando il consumo era agli albori e la pubblicità sembrava solo “l’anima del commercio” e non ancora “il fascismo della nostra epoca”. E in fondo anche la contesa fra sogno e incubo è la stessa di una volta, ma oggi non vale più schierarsi tra gli apocalittici o gli integrati come si dovesse prendere partito. L’attuale “società di mercato” che descrive Laffi, ovvero il mercato che sostituisce la società, è diventata ormai una totalitaria “democrazia reale”, con tanto di libertà commerciale, uguaglianza elettorale, fraternità aziendale.
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Denunciamo il Governo tedesco e chiediamo l’annullamento del Fiscal Compact
Ecco come fare per salvare il paese
Francesco Amodeo
In questi mesi si parla tanto del fiscal compact e dei famosi parametri che stanno mettendo o che metteranno in ginocchio il nostro paese condannandolo all’austerity ed a uno stato di crisi permanente. Mi riferisco al vincolo del 3% su rapporto defici/pil, al pareggio di bilancio introdotto in costituzione e alla necessità per i paesi con un rapporto debito/pil superiore al 60% di ridurre entro un ventennio l’eccedenza. Nel caso dell’Italia con un debito pubblico al 130% è stato già calcolato che questo vincolo potrà essere raggiunto nei tempi imposti solo con una media di 40 miliardi di euro di tagli o tasse ogni anno per vent’anni.
Ma c’è un patto strettamente collegato al fiscal compact in quanto mirato proprio a contenere lo stock di debito e di spesa pubblica per rientrare in quei parametri, che è una vera ghigliottina per i comuni ed è la causa principale della crisi delle aziende che lavorano con la pubblica amministrazione, della perdita di servizi erogati alla cittadinanza e del degrado di comuni, strade, scuole, nonché la causa di migliaia di licenziamenti, mancati pagamenti e chiusura di attività . Si chiama il patto di stabilità interno.
Sul sito della Camera leggiamo che: “ le regole del patto di stabilità interno sono funzionali al conseguimento degli obiettivi finanziari fissati per le regioni e gli enti locali quale concorso al raggiungimento dei più generali obiettivi di finanza pubblica assunti dal nostro paese in sede europea con l’adesione al patto europeo di stabilità e crescita (poi divenuto fiscal compact)”
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Considerazioni eretiche sul dialogo tra scienza e religione
Astro Calisi
Il recente scambio di corrispondenza tra Joseph Ratzinger e Piergiorgio Odifreddi, seguito a breve da quello tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, ha riacceso l’interesse sul dibattito tra scienza e pensiero religioso.
La novità di maggior rilievo (almeno così sembrerebbe) è rappresentata da un mutato atteggiamento delle parti in causa nel considerare seriamente le ragioni della parte avversa. Finora, infatti, il confronto era avvenuto, apertamente o in maniera più o meno nascosta, con l’intento di riaffermare orgogliosamente la propria posizione, rimanendo sostanzialmente ciechi e sordi alle argomentazioni altrui. Qualsiasi dibattito ha infatti senso se presuppone la disponibilità di ciascuno a valutare con la dovuta attenzione tesi e problematiche diverse rispetto a quelle che contraddistinguono la propria posizione.
È presto per dire se questo mutato clima rappresenti una svolta durevole, capace di avere delle ripercussioni importanti sul rapporto tra scienza e religione, oppure se sia destinato a esaurirsi nel giro di pochi mesi. In ogni caso, credo valga la pena cogliere l’occasione per porsi delle domande circa l’utilità e i possibili sbocchi di un simile confronto.
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I corifei del liberismo
di Carlo Formenti
Con la resistibile (ancorché debolmente contrastata) ascesa di Renzi alla guida del Pd, si è fatto assordante il coro dei media (di destra e sinistra, benché la distinzione sia ormai solo nominale) a sostegno della grande narrazione liberal liberista sulla crisi e sulle ricette per uscirne (Lyotard non poteva immaginare che la sua profezia sulla fine dei “grand récit” di legittimazione sarebbe stata smentita in tempi così rapidi).
Il lettore disincantato ha avuto modo di misurare intensità e potenza del coro leggendo la pagina “Idee& opinioni” (per cogliere la “linea” del giornale conviene partire da lì) del “Corriere della Sera” di sabato 29 marzo. In quella circostanza quattro firme “pesanti” dell’organo storico della borghesia italiana hanno cantato infatti altrettante canzoni che, pur proponendo testi diversi, si sono fuse in un'unica melodia. Mi permetto di rititolarne così i pezzi: “Largo ai giovani”, di Giovanni Belardelli, “Ancora più flessibilità” di Maurizio Ferrera, “Si sciolgano lacci e lacciuoli”, di Dario Di Vico, “Evviva il merito” di Sergio Rizzo. Titolo generale della sinfonia: “Bastonare il cane che affoga”.
Si chiede Belardelli: come è possibile che un Paese governato da una gerontocrazia qual è il nostro (basti vedere l’età media di insegnanti e dipendenti pubblici) abbia plaudito all’ascesa del giovin rottamatore Matteo Renzi?
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La critica dell’economia politica, ieri e oggi*
di Sergio Cesaratto
1. A mo’ di premessa: la parabola dell’economia critica
Nel lontano 1973 due valorosi economisti sraffiani aprivano un (allora) influente articolo su marxismo ed economia con la seguente ottimistica affermazione: «[c]rediamo non si possa mettere in dubbio che la teoria economica, che ha dominato praticamente incontrastata per quasi un secolo, attraversa oggi una crisi profonda»1. Purtroppo questa veniva sostenuto proprio nel mentre nelle università degli Stati Uniti si consolidava la contro-rivoluzione monetarista che avrebbe rapidamente spazzato via quella keynesiana dei primi due decenni del secondo dopoguerra, preparando culturalmente l’avvento alla fine del decennio di Reagan e Thatcher. Naturalmente il clima in Italia era ancora ben diverso. Attraverso la fondazione della Facoltà di economia di Modena e l’esperienza delle 150 ore, la critica dell’economia politica, profondamente influenzata dall’opera di Sraffa, si fondeva, per esempio, con le esperienze operaie e sindacali più avanzate2. Di lì a pochissimo le cose sarebbero evolute in direzioni ben diverse anche in Italia.
Al formidabile impatto che il lavoro di Sraffa ebbe negli anni caldi del movimento operaio (e studentesco) contribuì da un lato, com’è evidente, la domanda intellettuale da parte dello stesso movimento di un’alternativa alla teoria economica dominante, ma anche l’eco dello scossone che il famoso “dibattito fra le due Cambridge” diede alla teoria economica.
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Da Tolstoj a Toy Story
Mauro Portello
Dicono sòcialdemocrazia non sociàldemocrazia, questi non ne hanno la più pallida idea di dove venga quella cosa, per loro è un sòcial, un qualcosa di connesso agli altri. È un dettaglio, per carità, giusto per dare un’immagine iniziale, generica, solo per cominciare a parlare di “che cosa” siano gli studenti delle superiori del giorno d’oggi. (Diciamo comunque che per chi alla loro età sapeva bene persino la distinzione anche tra le posizioni di Kautsky e di Bernstein, è un fatto fastidioso e per certi versi ancora incomprensibile, e che il fastidio si replica uguale a se stesso ad ogni occasione.) Solo con gli anni ci si forma un’assuefazione all’idea di avere a che fare con dei meccanismi veramente sgangherati. Chi comincia oggi a insegnare, invece, non prova questo brivido per una banale questione di prossimità anagrafica e dunque di “sensibilità” nella formazione generale.
Ma il punto è un altro: si tratta di capire chi sono questi ragazzi, come sono fatti. Certi ritratti, pure molto avveduti, che qualcuno propone dei giovani studenti di oggi non aiutano granché, anzi mostrano bene la difficoltà che abbiamo a capire la loro “natura”. Ci provano, ad esempio, in modalità diverse, Marco Lodoli con Vento forte tra i banchi (Erickson 2013) e Michele Serra con Gli sdraiati (Feltrinelli 2013, qui recensito da Marco Belpoliti).
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Errori e illusioni della Renzinomics
di Paolo Pini e Roberto Romano
È stata una settimana indubbiamente impegnativa la scorsa per il primo ministro Matteo Renzi. Dopo lo show del 12 marzo, ha fatto il giro dell’Europa che conta e che decide per comunicare i sui impegni di governo. Prima Parigi, poi Berlino e quindi Bruxelles con tutti i presidenti e capi di governo per il Consiglio Europeo. L’Economist lo ha definito Gambler in a rush[1].
A Parigi si è rivolto al Presidente francese Hollande che era stato eletto per giocare il ruolo di baluardo nei confronti delle politiche di austerità tedesche e per propiziare una svolta per la crescita e l’occupazione. Peccato che nel frattempo si sia convertito alla tesi dell’”offerta che crea la sua propria domanda” e persegue ora la riduzione del cuneo fiscale a favore delle imprese francesi come unico modo per accrescere la loro competitività, mandando in soffitta Keynes, come noi peraltro lo abbiamo espurgato dalla Costituzione italiana nel 2012. I francesi gli hanno detto che il rapporto con gli amici tedeschi sarebbe rimasto la loro priorità, pur apprezzando gli sforzi italiani di uscire dal pantano.
A Berlino sembra che abbiano capito cosa sia la “Renzieconomics”, ovvero riforme strutturali sul mercato del lavoro anzitutto, con un occhio al modello continentale-europeo della flexsecurity, insaporita da alcuni interventi spot sui redditi da lavoro in vista delle prossime elezioni europee.
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La decrescita e i tassi di interesse negativi
di Jacopo Foggi
È un tema di importanza cruciale quello che Mauro Bonaiuti ha affrontato nel suo articolo Ecco la fine della crescita. Un tema che molto probabilmente ci accompagnerà nei decenni a venire, quanto meno a causa della sempre maggiore importanza che da qualche anno a questa parte sembrano acquistare i dibattiti sui debiti pubblici, sulle loro dimensioni e sulla loro sostenibilità. Un’importanza che sembra non essere destinata ad esaurirsi a breve, ma che sembra anzi essere dovuta ad una crescente attenzione alle caratteristiche strutturali che le tematiche finanziarie hanno assunto nelle nostre vite di cittadini globali del terzo millennio, nel presente modello di sviluppo.
Per questo motivo, il presente articolo intende collocarsi all’interno del dibattito che si sta sviluppando da qualche anno, del rapporto tra le dimensioni ecologico-ambientali e quelle finanziarie e monetarie. In particolare, sempre di più, da Herman Daly agli attivisti sociali di Occupy, la preoccupazione riguardo al trade-off fra crescita economica e sostenibilità ambientale intesa nelle sue molteplici dimensioni1, viene letta attraverso la lente della compresenza di crisi ecologica ed esplosione della crisi finanziaria.
Inserendosi in tale dibattito, Il presente articolo intende essere una riflessione aggiuntiva all’enorme questione presentata da Mauro Bonaiuti nel suo articolo uscito qualche settimana fa su questo sito.
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Che cos’è il contemporaneo
Giorgio Agamben
Il testo della lezione inaugurale del corso di Filosofia Teoretica 2006-2007 presso la Facoltà di Arti e Design dello IUAV di Venezia, in G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo e altri scritti, Roma, Nottetempo, collana I sassi, 2010, pp. 22-33
1. La domanda, che vorrei iscrivere sulla soglia di questo seminario, è: “Di chi e di che cosa siamo contemporanei? E, innanzitutto, che cosa significa essere contemporanei?” Nel corso del seminario ci capiterà di leggere testi i cui autori distano da noi molti secoli e altri piú recenti o recentissimi: ma, in ogni caso, essenziale è che dovremo riuscire a essere in qualche modo contemporanei di questi testi. Il “tempo” del nostro seminario è la contemporaneità, esso esige di essere contemporaneo dei testi e degli autori che esamina. Tanto il suo rango che il suo esito si misureranno dalla sua – dalla nostra – capacità di essere all’altezza di questa esigenza.
Una prima, provvisoria, indicazione per orientare la nostra ricerca di una risposta ci viene da Nietzsche. In un appunto dei suoi corsi al Collège de France, Roland Barthes la compendia in questo modo:
“Il contemporaneo è l’intempestivo”.
Nel 1874, Friedrich Nietzsche, un giovane filologo che aveva lavorato fin allora su testi greci e aveva due anni prima raggiunto un’improvvisa celebrità con La nascita della tragedia, pubblica le Unzeitgemässe Betrachtungen, le Considerazioni inattuali, con le quali vuole fare i conti col suo tempo, prendere posizione rispetto al presente.
“Intempestiva questa considerazione lo è,” si legge all’inizio della seconda Considerazione, “perché cerca di comprendere come un male, un inconveniente e un difetto qualcosa di cui l’epoca va giustamente orgogliosa, cioè la sua cultura storica, perché io penso che siamo tutti divorati dalla febbre della storia e dovremmo almeno rendercene conto”.
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Se la sovranità nazionale è di sinistra
di Enrico Grazzini
La sinistra dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Solo così sarà possibile contrastare questa Unione Europea contro i popoli e rifondare l'Europa democratica. La destra avanza in Europa denunciando che l'euro e la UE producono povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall'alto della tecnocrazia di Bruxelles. Come si è visto nella Francia di Hollande, la progressione della destra è simmetrica rispetto al calo socialista e all'aumento dell'astensionismo di sinistra. Il problema è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza. Ma anche la sinistra radicale europea, soprattutto quella italiana, soffre di una grave ritardo culturale e politico nei confronti dell'Europa reale.
La sinistra aristocratica italiana sottovaluta i guasti dell'Europa reale e dell'euro e sogna la democrazia dell'Europa federata e di uno stato federale; rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti). Rischia di rimanere minoritaria se non minuscola, e che alle elezioni europee vincano le proposte della destra conservatrice o fascista; o che, nel migliore dei casi, stravinca il populismo né di destra né di sinistra di Grillo che ha una politica confusa e chiusa verso l'Europa, ma che è assai più pronto a intercettare gli umori popolari contro questo euro disastroso.
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Jobs Act
Renzi, Poletti e il fantasma dello sceriffo di Nottingham
di Gianni Giovannelli
In barba alle direttive europee e al principio che il contratto di lavoro di riferimento è quello subordinato a tempo indetrminato, le misure del governo Renzi, liberalizzando totalmente il contratto a tempo determinato e l’apprendistato, rendono il contratto a termine (sino a tre anni, rinnovabile ben 8 volte) l’architrave del mercato del lavoro e nesancisce la definitiva precarizzazione. Oltre a rendere la precarietà giuridicamente strutturale (già lo è nella realtà) pone una serie di questioni rilevante in tema di rappresentanza. Come reagire?
E’ stato pubblicato in data 20 marzo sulla Gazzetta Ufficiale, con la firma di Re Giorgio, il decreto legge numero 34/2014. E’ senza alcun dubbio la più violenta aggressione ai diritti dei lavoratori di questi ultimi anni, nessun governo di destra aveva mai osato tanto; nessuna legislazione europea contiene una liberalizzazione così ampia e totale del contratto a tempo determinato, che diventa di fatto la forma ordinaria delle assunzioni, in palese contrasto con la direttiva 99/70 dell’Unione.
Napolitano e Poletti, due ex comunisti, si sono prestati a colpire, con la complicità dell’ambizioso Matteo Renzi, i ceti deboli e precari, istituzionalizzando il ricatto e la minaccia che accompagnano la condizione precaria, unico possibile accesso al lavoro e al reddito. La scelta autoritaria (repressione e cancellazione delle tutele) caratterizza il governo delle larghe intese, privo ormai anche di investitura popolare, e tuttavia deciso ad evitare perfino il passaggio parlamentare.
E’ necessaria una riflessione sullo stato della democrazia rappresentativa in Italia, quale necessario strumento di lettura del decreto (di immediata attuazione, dunque già ora in vigore).
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Che fine hanno fatto gli intellettuali?
Conversazione di Enzo Traverso con Régis Meyran
In una lunga conversazione con Régis Meyran Enzo Traverso ripercorre la storia e la parabola dell’intellettuale che da guastafeste e intelligenza critica che afferma la verità contro il potere si è progressivamente trasformato in “esperto” al servizio dei potenti e specialista della comunicazione. In questo nuovo paesaggio segnato dalla fine delle utopie, dalla svolta conservatrice degli anni Ottanta e dalla mercificazione della cultura, il pensiero dissidente non è pero scomparso. Ora per inventare nuove utopie gli intellettuali dovranno uscire dai loro ambiti specialistici e ritrovare un atteggiamento universalista. Qui anticipiamo un estratto dal libro-intervista uscito in Francia nel 2013 e in arrivo nelle librerie italiane il 26 marzo per le edizioni ombre corte.
Le nuove utopie potrebbero venire dai movimenti di controcultura, apparsi nel dopoguerra contro la cultura di massa?
Mi sembra che oggi la controcultura degli anni Sessanta e Settanta sia generalmente scomparsa, o che esista in forme molto limitate. I giovani che si trasferiscono in campagna, per esempio a Tarnac, per creare una sorta di falansteri moderni, sottraendosi alla società di mercato, creano una controcultura che vorrebbe diventare un modello. È un fenomeno interessante ma marginale. Inoltre, l’esperienza del passato dimostra che la controcultura può farsi assorbire dal sistema di mercato. Molti autori hanno analizzato la straordinaria capacità del capitalismo di recuperare, integrare e quindi neutralizzare i movimenti culturali che lo criticano. Il rock & roll è stato una sfida violenta all’America autoritaria, conservatrice e puritana degli anni Cinquanta, prima di diventare uno dei settori più redditizi dell’industria culturale. London Calling, la canzone che i Clash urlavano nel 1979 come un’esortazione alla rivolta, nel 2012 è diventata l’inno ufficiale dei giochi Olimpici di Londra, spettacolo planetario e gigantesca kermesse commerciale… Nel 1989, con la celebrazione del suo bicentenario, la Rivoluzione francese si è trasformata in un puro spettacolo messo in scena per l’industria culturale.
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Moneta e finanziarizzazione
Intervista a Stefano Lucarelli
Nella sedicesima trasmissione di CommonRadio abbiamo discusso di “Moneta e Finanziarizzazione” con Stefano Lucarelli, a partire da un suo scritto “Sentieri interrotti” (in C. Bermani, a cura di, “La Rivista Primo Maggio 1973 – 1989”, DeriveApprodi 2010) in cui l'economista passa lucidamente in rassegna la storia del gruppo sulla moneta della rivista “Primo Maggio”. Di seguito la trascrizione dei tratti salienti della discussione, a nostro avviso particolarmente interessanti, ancora oggi, per tutti coloro i quali si occupano di decifrare le dimensioni economico-politiche dell'attuale crisi finanziaria.
L’inconvertibilità del dollaro con l'oro, è stata descritta come una “rivoluzione dall’alto”. Sul giornale “Potere Operaio” (Mensile, agosto 1971) Toni Negri definiva tale operazione statunitense di portata epocale. Negli stessi anni Sergio Bologna scriveva “Moneta e Crisi. Marx corrispondente della New York Daily Tribune” (in S. Bologna, P. Carpignano, A. Negri (a cura di), Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli 1974. Ora in S. Bologna, Banche e crisi. Dal petrolio al container, DeriveApprodi 2013). Vuoi sottolineare la peculiarità del lavoro di Bologna e la centralità che questo ha assunto nella fase capitalistica che si attraversava?
La lettura del lavoro di Sergio Bologna, come il dibattito in seno alla rivista “Primo Maggio”, è un po’ ostico, visto che le categorie teoriche utilizzate sono date per scontate, in quanto il linguaggio utilizzato negli anni ’70 era una sorta di patrimonio collettivo che oggi si è un po’ perso. I due concetti su cui Sergio Bologna articola la sua riflessione sono: “comando monetario” e “composizione di classe”. L'oggetto del suo saggio sono gli scritti che Marx compone come redattore della New York Daily Tribune. La cosa interessante è che questi articoli definiscono la “rivoluzione dall’alto” come cambiamento istituzionale che coinvolge innanzitutto le istituzioni creditizie messe in campo in Francia da Napoleone III negli anni ’50 dell’800. È un periodo storico particolare, perché nel 1848 c’erano state le rivolte della classe operaia francese e Napoleone III vuole evitare una nuova rivoluzione. Occorre ricordare che Napoleone III era stato eletto Presidente della Seconda Repubblica francese nel dicembre del 1848. Il 2 dicembre 1851 Napoleone III pose fine alla Repubblica e l’anno dopo assunse il titolo di Imperatore.
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Uscire dall'economia?
di Steeve

Ci sarebbe un'economia neutra, naturale, che sarebbe sempre esistita e poi c'è una forma perversa che sarebbe apparsa relativamente tardi, diciamo verso il XVI secolo, vale a dire il capitalismo. L'uscita dal capitalismo servirebbe allora, secondo tale prospettiva, a ritrovare un'economia sana, durevole (un'economia verde, oggi detta circolare), più giusta (con una migliore distribuzione dei frutti della crescita), ecc. Sarebbe così sufficiente, per esempio, liberare "l'economia reale" dall'influenza degli odiosi speculatori finanziari, oppure, ancora, sopprimere la proprietà privata dei mezzi di produzione, affinché possiamo salvarci dal crollo multidimensionale in corso.
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L'euro dei nazi e il nostro
di Giorgio Gattei
La storia si ripete perchè la si dimentica
Antonio De Viti De Marco
1.
È stato con intelligenza che la Rete dei Comunisti, quando Toni Negri si mise a profetare dopo il crollo dell'URSS l'avvento dell'Impero unipolare americano1, gli oppose invece il precipitare del mondo in una condizione di imperialismi in competizione globale tra loro2. E fu altrettanto acuto il riconoscimento, fin da subito, della natura imperialista della Unione Europea in via d'accelerata espansione dopo l'introduzione dell'euro3. Però adesso che la contrapposizione degli interessi geo-economico-politici tra USA ed UE è più o meno generalmente riconosciuta, bisogna andare oltre prendendo ad esaminare anche la costituzione interna del polo imperialistico europeo che non è affatto formato da un insieme di nazioni omogenee e convergenti verso gli Stati Uniti d'Europa. Al contrario: esso risulta organizzato dal "nocciolo duro" di Germania e suoi satelliti attorniato dalla "periferia" dei Paesi mediterranei cosiddetti "maiali" (PIGS = Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), mentre la Francia si presenta sospesa tra l'appartenenza al "nocciolo duro" (come ritenuto a suo tempo da Mitterand e Sarkozy) oppure alla "periferia", come invece cominciano a temere le agenzie internazionali di rating.
E stata questa la conseguenza della nascita di un rapporto economico asimmetrico europeo imposto dal "nocciolo duro" (d'ora in poi il "centro") a danno della periferia. Questo rapporto di sfruttamento (perchè proprio di ciò si tratta) non ha tuttavia i caratteri classici del colonialismo con il centro che esporta manufatti in periferia ricevendone in cambio materieprime, perchè nella Zona Euro la periferia non arriva a coprire le proprie importazioni dal centro con esportazioni equivalenti (la sua bilancia commerciale infattiè in passivo, all'opposto di quella del centro che è in attivo), ma salda il disavanzo pagandolo nell'euro che è la moneta comune ad entrambi.
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Tempo e storia sullo scaffale dell’eterno presente
di Claudio Vercelli
Sulla natura del tempo che stiamo vivendo, più ancora che sulla sua qualità, parrebbe di potere dire che siamo oramai calati in una sorta di eterno presente. Un tempo che è senza storia, se non altro perché essa presuppone non solo lo sguardo rivolto all’indietro, ovvero a ciò che è stato, ma anche e soprattutto la fiducia verso quello che potrà essere. La storia, come racconto di un’origine comune, condivisa, accettata, e come tale anche però demitologizzata, si sfarina dinanzi all’atto d’imperio di un presente che, nel dichiarare impraticabile l’idea di un tempo a venire (se non come foriero di dubbi e angosce) lo sostituisce con un «qui ed ora» che sembra essere l’unica dimensione plausibile non solo delle relazioni umane ma anche dell’identità individuale.
Il «principio-speranza», da sempre connesso al bisogno di un mutamento che non sia la sola somma di ciò che si subisce ma di quanto invece si riesce a gestire, si azzera, venendo così sostituito dall’orizzonte della sopravvivenza, basata sullo schiacciamento del quotidiano ai bisogni del momento, al loro immediato soddisfacimento, ovvero ad una logica di pura reattività. Che non è il ritorno del belluino ma, più banalmente, il trionfo della reificazione: alle trasformazioni e alle smagliature che la coesione sociale subisce si alternano e si contrappongono i falsi rimedi di un rifugio proprio in ciò che ci viene a mancare, ossia la capacità di un agire per il consumo come unico e ultimativo modo di essere delle individualità.
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