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"Non è affatto detto che la fine dell’euro comporti una svalutazione di una 'nuova lira' italiana"
Cesare Sacchetti intervista Gennaro Zezza*
Professore secondo i recenti dati dell’Istat, l’Italia nell’ultimo trimestre del 2014 ha superato il rapporto deficit/PIL dei parametri di Maastricht, toccando quota 3,5%. Il Governo ha dichiarato che con le misure correttive inserite nella legge di stabilità, conta di ridurre la percentuale fino al 3% nel corso dell’anno. Lei crede che tutto ciò basterà a Bruxelles, o corriamo il rischio di nuove misure correttive con un commissariamento ancora maggiore? Quali sono gli effetti delle politiche procicliche di riduzione del deficit in questa fase congiunturale?
Quanto è successo in Europa, ed in particolare in Grecia, negli ultimi anni dovrebbe aver chiarito che il tentativo di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL con una contrazione fiscale – aumentando le tasse e riducendo la spesa pubblica – ha effetti devastanti sull’economia. Il reddito diminuisce, e con il reddito cala anche il gettito fiscale, l’economia va a rotoli e – se pure si riesce a diminuire il deficit, la caduta contestuale del PIL rende la manovra insostenibile per il Paese. La Grecia ha raggiunto a stento un precario equilibrio dei conti pubblici, pagando un prezzo esorbitante in termini di disoccupazione e di povertà. I governi italiani non sembrano aver imparato la lezione: a mio avviso la lunga recessione italiana è dovuta in gran parte alla politica di “risanamento” dei conti pubblici attuata nel momento peggiore. Sarebbe invece urgente sospendere i vincoli imposti dai trattati europei per pensare alla creazione di posti di lavoro.
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Grexodus
Elezioni, debiti, e il fantasma del post-auto-colonialismo
di Akis Gavriilidis
Pubblichiamo un primo contributo in vista delle elezioni greche del prossimo 25 gennaio. Si tratta di un testo di notevole interesse, perché può aiutare a prendere le distanze dalle contrapposizioni domestiche, sia dalla fedeltà dichiarata ai principi sia dallo schieramento occasionale. Akis Gavriilidis affronta in maniera originale due nodi fondamentali: il ruolo e la posizione dei movimenti e lo specifico significato politico del momento rappresentativo nell’attuale situazione greca. Per Akis il rapporto tra movimenti sociali e SYRIZA non è riducibile all’alternativa tra la presa di parola diretta e il silenzio mentre parla il partito. Allo stesso tempo il momento rappresentativo è preso contraddittoriamente e ineludibilmente dentro la crisi della rappresentanza. Il sostegno elettorale a SYRIZA non si configura perciò come una cessione della possibilità di azione, ma come un modo per uscire dalla minorità in cui i greci sono stati obbligati negli ultimi anni, in quanto non adeguati agli standard del regime neoliberale. La possibilità di rendere contagiosa per l’Europa quella che è stata indicata come l’eccezione greca è una delle poste in gioco. Mai come in questo caso, delle elezioni nazionali sono un problema che va ben oltre il confine nazionale. Mai come in questo caso l’eventuale riaffermazione della sovranità porterà il segno della sua crisi.
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Se in una repubblica parlamentare le elezioni sono viste come una specie di rappresentazione o sostituto istituzionale dello stato di eccezione al livello del potere costituito, cioè come il momento che sospende temporaneamente la normalità per ristabilirla, allora la Grecia negli ultimi anni ha vissuto uno stato di «eccezione permanente» anche da questo punto di vista.
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Amadeo Bordiga e il Partito Comunista Internazionale
di Diego Giachetti
Nel 1929 Trotsky definì «vivente, muscoloso, abbondante» il pensiero di Amadeo Bordiga, il quale si era schierato al suo fianco nella lotta contro lo stalinismo, nonostante la diversità dei rispettivi punti di vista su alcuni problemi di non poco conto. Non a caso la sua espulsione dal Partito Comunista d’Italia, avvenuta nel marzo del 1930, fu motivata proprio sulla base del suo “filostrotskismo” manifestato nel confino di Ponza. L’espulsione giungeva a conclusione di una parabola politica consistente, nella quale il rivoluzionario napoletano aveva svolto un ruolo di primo piano nel partito socialista e poi in quello comunista sorto nel 1921. L’arco di tempo che comprende questa lunga e intensa militanza politica è l’oggetto del lavoro svolto e pubblicato da due autori, Corrado Basile e Alessandro Leni (Amadeo Bordiga politico, Colibrì, Torino, 2014). Nel libro si affiancano in modo circostanziato i fatti della lotta di classe con il pensiero e l’operato di Bordiga, l’attenzione si concentra in particolare sul lavoro politico compiuto da Bordiga fino al 1926, data con la quale si identifica la sconfitta della tendenza da lui rappresentata. La biografia politica del protagonista è attentamente messa in relazione al contesto storico, sociale, politico entro il quale si sviluppò evitando avvitamenti celebrativi su se stessa. Il lettore percepisce, pagina dopo pagina, il confronto vivo e vivace tra interlocutori politici e contesto storico entro il quale si sviluppò l’analisi bordighiana di fenomeni rilevanti per la storia del movimento operaio italiano e internazionale: dalla prima guerra mondiale, alla rivoluzione russa, alla fondazione del nuovo partito comunista, all’emergere della reazione fascista accanto ai primi sintomi di involuzione staliniana del potere bolscevico.
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Destabilizzare per stabilizzare. Vale anche per gli attacchi di Parigi?
di Simone Santini
I fatti terroristici francesi potrebbero essere l'inaugurazione della terza fase delle 'primavere arabe'. Con un profondo rimodellamento geopolitico
I fatti terroristici francesi potrebbero essere l'inaugurazione della terza fase delle "primavere arabe".
La prima fase fu l'innesco dell'incendio nel grande progetto di rimodellamento del Medio Oriente allargato, un passaggio epocale nel mondo arabo simile a quanto visto in America Latina tra gli anni '70-'80, con il passaggio dai regimi autoritari a quelli democratici, e nell'Europa orientale con la transizione dal socialismo reale al capitalismo negli anni '90. Per ottenere tale risultato alcuni dei regimi di più lunga durata dovevano essere spazzati via o destabilizzati. Rivolte popolari ed insurrezioni armate sono servite a tale scopo.
La seconda fase è stata dominata per alcuni anni dal caos determinato, soprattutto, dalla lotta per il dominio, tutta intestina al mondo arabo, in particolare tra sauditi e qatarioti, per ottenere posizioni privilegiate e di controllo nella terza fase (lotta complicata anche dalla presenza della Turchia, che ha cercato di giocare un proprio ruolo autonomo ed avendo interessi diretti da salvaguardare nella regione allargata del Kurdistan).
La terza fase, tendente alla risoluzione dei conflitti, è cominciata con un attacco terroristico in Francia che, se inquadrato in una logica di strategia della tensione, potrebbe pienamente rientrare nella formula "destabilizzare per stabilizzare", già teorizzata e sperimentata in passato nei laboratori del terrorismo di Stato nei paesi NATO.
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Quante balle sulla Grecia e il suo debito!
Redazione di "il cuneo rosso"
La Grecia torna a fare notizia. Si è interrotto il silenzio sulle intollerabili misure di “austerità” (=impoverimento di massa) che hanno colpito gran parte della popolazione negli ultimi anni, e ora suona l'allarme sulla possibilità che l'"estrema sinistra" di Syriza vinca le prossime elezioni del 25 gennaio, e sulle catastrofiche conseguenze che ciò potrebbe avere sulle nostre vite e soprattutto sui nostri portafogli. Si sostiene da più parti, infatti, che "noi tutti" ("ciascun cittadino" dell'Europa) siamo creditori della Grecia, e se per caso la Grecia dovesse non ripagare il suo debito a seguito dell'avvento al governo di Syriza, ci trufferebbe circa 600 euro a testa, in quanto "a soffrirne le conseguenze non sarebbero potenti banche o speculatori misteriosi, ma gli Stati", e quindi "noi cittadini" (così Stefano Lepri, "La Stampa", 31 dicembre 2014). In definitiva, saremmo "noi", gente che vive del proprio lavoro, a pagare per il fatto che la Grecia, il cui debito statale è intorno al 175% del Pil, ha speso più di quanto poteva - il sottinteso, non troppo sottinteso, è che i greci (tutti i greci) hanno preteso di vivere al di sopra delle loro possibilità e presentano ora agli altri europei, a tutti gli altri europei, il loro conto-spese in rosso da ripianare.
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Sarete assimilati?
Due riflessioni sulla sovranità dello Stato e l’amministrazione delle periferie
Raffaele Alberto Ventura
Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro della banlieue. Catastrofe finale dell’entropia migratoria, paradigma dello “stato di eccezione” o rompicapo amministrativo, scenario post-atomico senza la deflagrazione d’alcuna bomba, la periferia francese è diventata un luogo cruciale del nostro immaginario politico. Mito ma anche concetto, paura irrazionale e profezia ragionevole. Il disaccordo sulle cause — tsunami demografico, delirio urbanistico, ideologia comunitarista, capitalismo selvaggio, ecc. — non serve a nascondere che qualcosa di terribile sta accadendo nella polis occidentale. Il ministro leghista che evoca per l’Italia un “rischio banlieue” non dice nulla di scandaloso e peraltro ripete ciò che disse il leader del centro-sinistra cinque anni fa: “Noi abbiamo le peggiori periferie in Europa. Non credo che le cose siano molto diverse rispetto a Parigi. È solo questione di tempo.” Bene, anzi male, ma tempo per cosa?
Il “rischio banlieue” non evoca semplicemente in un generale disfacimento della periferia — aumento della criminalità, deterioramento delle condizioni economiche, accentuazione dei conflitti comunitari: che sarebbero un rischio soltanto per chi vive — ma un fenomeno politico cruciale, ovvero la costituzione di spazi autonomi dalla giurisdizione statale.
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L'attentato contro Charlie Hebdo
L'occultamento politico e mediatico delle cause, delle conseguenze e della posta in gioco
Saïd Bouamama
«È ancora fecondo il ventre dal quale è uscita la bestia immonda» - Bertold Brecht
L’attentato contro il settimanale satirico Charlie Hebdo è destinato a segnare la nostra storia attuale. Resta solo da capire in che senso e con quali conseguenze. Nell’attuale contesto della «guerra al terrorismo» (beninteso, guerra esterna), oltre che di razzismo e di islamofobia di Stato, gli autori di questa azione hanno accelerato – coscientemente o meno – un processo di stigmatizzazione e isolamento della componente mussulmana, reale o presunta tale, delle classi popolari.
Sono già di per sé disastrose le conseguenze politiche dell’attentato per le classi popolari, ma peggioreranno ancora se non verrà proposta un’alternativa politica alla famosa «Unione Nazionale».
In effetti il modo in cui reagiscono i media francesi e una schiacciante maggioranza della classe politica è a dir poco criminale. Sono queste reazioni ad essere pericolose per il futuro, sono gravide di numerosi «effetti collaterali» e di futuri 7 e 9 gennaio, ancora più letali. Comprendere e analizzare per agire è oggi l’unico atteggiamento che possa permettere di evitare strumentalizzazioni e usi di un’emozione, di una collera e di una rivolta legittima.
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Una domanda semplice ad Alesina e Giavazzi
di Piergiorgio Gawronski
Sul Corriere, dopo aver ricordato che in Italia “il Prodotto interno lordo scende da 13 trimestri”, i due alfieri del liberismo nostrano offrono la loro ricetta 2015.0 per “porre fine alla recessione”. E spiegano: “La riforma del mercato del lavoro non basta. Ci vuole anche più domanda”. Bene. Cioè… insomma: se ci vuole più domanda, allora la riforma del mercato del lavoro non è che “non basta”, è proprio dannosa: deprime la domanda! “Ci vuole più domanda” é come dire che c’è un eccesso di potenziale di offerta. Ma il Jobs Act mira a stimolare ulteriormente questo potenziale; se proprio lo si vuole approvare, adesso, sarebbe meglio che entrasse in vigore quando la domanda si sarà ripresa.
Domanda (aggregata) nel linguaggio degli economisti significa spesa, acquisti, e – dal punto di vista delle imprese - vendite. In effetti il grafico dell’Istat sulle vendite delle imprese mostra che la domanda continua a contrarsi: in ottobre il calo a/a è stato -0,8%.
Ripetiamolo: non basta che il barista prepari “100 caffè all’ora” (Bagnai) e li poggi sul banco (con efficienza, produttività, onestà): deve anche venderli. E perché mai la gente non dovrebbe comprarsi un buon caffè caldo, con freddo che fa? Sì, è così: perché ha paura poi di trovarsi in difficoltà economiche - con la crisi, le nuove leggi che facilitano i licenziamenti, il debito pubblico che se esplode sarà peggio che in Grecia, ecc. Perciò s’indebolisce anche la domanda di lavoro da parte delle imprese (grafico sotto), e il cerchio si chiude.
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Il nuovo spirito del capitalismo
di Luc Boltanski e Ève Chiapello
[E’ uscita da poco la traduzione italiana di Le nouvel esprit du capitalisme (1999) di Luc Boltanski e Ève Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis). Questo è un estratto del saggio]
Il concetto di spirito del capitalismo, così come lo definiamo, ci permette di superare l’opposizione, che ha dominato buona parte della sociologia e della filosofia degli ultimi trent’anni – almeno per quanto riguarda i lavori che si collocano all’intersezione tra sfera sociale e sfera politica – tra le teorie, spesso di ispirazione nietzschiano-marxista, che hanno visto nella società solo violenza, rapporti di forza, sfruttamento, dominio e scontri di interessi e, sul fronte opposto, le teorie ispirate soprattutto alle filosofie politiche contrattualiste, che hanno posto l’accento sulle forme del dibattito democratico e sulle condizioni della giustizia sociale. Nei testi che fanno capo alla prima corrente, la descrizione del mondo appare troppo negativa per essere reale. In un mondo del genere non si potrebbe vivere a lungo. Mentre la realtà sociale descritta dai testi della seconda corrente è innegabilmente troppo rosea per essere credibile. Il primo orientamento teorico si occupa spesso del capitalismo, ma senza riconoscergli una dimensione normativa. Il secondo tiene conto delle esigenze morali che derivano da un ordine legittimo; ma, sottovalutando l’importanza degli interessi e dei rapporti di forza, tende a ignorare la specificità del capitalismo, i cui contorni si sfumano confondendosi nell’intreccio delle convenzioni su cui si fonda sempre l’ordine sociale.
Il concetto di spirito del capitalismo ci permette anche di coniugare all’interno di una stessa dinamica le evoluzioni del capitalismo e le critiche che gli vengono mosse. Nella nostra costruzione, infatti, faremo svolgere alla critica un ruolo determinante nei cambiamenti dello spirito del capitalismo.
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Parigi 2015, tappa strategica verso il disordine globale
Che si può ancora fermare
di Rodolfo Ricci
Prima o poi, bisognerà prendere coscienza che siamo tutti sulla stessa barca, anzi sullo stesso mare. Il Mediterraneo. Se ciò non accadrà, sarà la catastrofe. Dopo secoli di commerci, di domini incrociati tra est e ovest, di scambi economici e culturali a cui tutti hanno attinto ed attingono, forse ora, a distanza di 60 anni dalla fine – formale ma non sostanziale – della colonizzazione europea dell’Africa e del Medio Oriente, dovremmo prendere atto che siamo interconnessi, definitivamente.
Lo siamo in particolare, grazie all’immigrazione cosiddetta terzomondiale giunta in Europa dopo le ondate dei sud europei nel dopoguerra verso Francia, Gran Bretagna, Germania e altri paesi del nord Europa. Un’immigrazione che è il frutto della nostra geopolitica.
L’Europa è multiculturale di fatto, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Lo è da tempo, anche se le è sempre mancata adeguata coscienza. L’Europa, come dimostrano gli eventi della crisi, è interculturale (e ben problematica) anche al suo interno, come mostra solo per citare un esempio, il crescere delle espulsioni di cittadini intra-europei dai territori di altri stati membri causate da una costitutiva assenza di solidarietà tra i suoi paesi. (vedi: http://www.funkhauseuropa.de/av/audiobelgien100-audioplayer.html)
Adesso questa coscienza deve emergere.
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Sulla reificazione: nuove prospettive teoriche
Carlo Crosato
È possibile riarticolare il concetto di “reificazione”, scoprendone nuove dimensioni e aggiornando le vecchie? Una riconsiderazione di tale concetto avviene in Teorie della reificazione, volume curato da Alessandro Bellan per Mimesis
Spesso la filosofia si è contraddistinta per l’utilizzo di un lessico divergente rispetto a quello quotidianamente utilizzato e per ragionamenti intorno a oggetti ritenuti assolutamente ovvi. Operando in questa maniera, essa ha però via via perso la propria centralità, spesso confusa con la poesia o con pratiche meditative. Un processo di marginalizzazione quanto mai notevole oggi, in un’epoca in cui è l’apparato economico e finanziario a determinare i fini delle attività: attività che, perciò, devono rispondere a esigenze in larga misura estranee alla riflessione filosofica.
Di questo processo, tuttavia, la stessa filosofia ha a lungo parlato, attraverso una lunga serie di concetti, tra cui quello di “reificazione”. Alla esplicitazione di quest’ultimo è consacrato Teorie della reificazione (a cura del recentemente scomparso Alessandro Bellan, edito da Mimesis, nel 2013). L’obiettivo generale del libro, infatti, è chiarire il significato della reificazione, depurarlo da letture fuorvianti e da incomprensioni che lo identificano con altri concetti – quali l’alienazione (altro termine centrale nel pensiero marxiano) e il feticismo (su cui la Scuola di Francoforte ha molto ragionato, specie per voce di Adorno e Horkheimer) –; inquadrare la dinamica reificante all’interno delle relazioni che l’uomo intrattiene con il mondo, precisando in modo quanto più intensivo possibile il campo d’interesse.
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Considerazioni sulla strage di Charlie Hebdo
Diego Fusaro
Premetto che fino a qualche giorno fa non conoscevo neppure di nome il comico Dieudonné, prima che venisse arrestato per apologia di terrorismo. Premetto anche che, ascoltandolo, non lo trovo neppure poi divertente, e nemmeno condivido larga parte delle cose che dice, con un’ironia che anzi trovo piuttosto volgare e crassa.
Ma non è questo il punto. Il punto sta invece altrove. La vicenda del comico Dieudonné, arrestato per apologia di terrorismo, la dice lunga sull’ipocrisia dell’ordine neoliberale e sulla sua libertà di espressione a corrente alternata. La libertà di espressione è difesa fintantoché esprime liberamente ciò che il nuovo ordine mondiale vuole che sia espresso: volgare presa in giro delle religioni, delegittimazione degli Stati sovrani, identificazione senza riserve tra Islam e terrorismo, ecc. Non appena si devia dal percorso preordinato, si è puniti con l’accusa di terrorismo, la nuova arma con cui si metteranno a tacere le voci fuori dal coro. L’apologia di terrorismo costituirà, da qui in avanti, la nuova frontiera del politicamente corretto e della sua criminale strategia di diffamazione, persecuzione e silenziamento di ogni prospettiva non allineata.
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Riflessioni sui noti fatti parigini
Sebastiano Isaia
Il mondo islamico non ha conosciuto la rivoluzione borghese di tipo occidentale (dalla rivoluzione olandese a quella inglese, da quella americana a quella francese, dal Risorgimento tedesco a quello italiano), ed è precisamente questo il suo più radicale e cattivo vizio d’origine che tocca ogni aspetto della vita sociale dei Paesi che ne fanno parte. L’Islam, al contrario del cristianesimo, non è stato attraversato dalla Ragione, e questo punto Benedetto XVI, il Papa teologo tanto bistrattato e incompreso dal progressismo mondiale, lo aveva colto bene, ad esempio nella famigerata Lezione Magistrale tenuta all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006. Quel mondo non baciato dai Lumi sta ancora facendo i conti con questo cattivo retaggio storico e culturale, e anche l’Occidente ne paga le conseguenze, perché non solo esso non ha saputo o voluto favorire lo sviluppo della modernità nelle terre di Allah e di Maometto, ma ha fatto di tutto per renderle facili prede del fondamentalismo più retrivo e violento.
È, questa, una tesi che nei salotti buoni della cultura europea ha riscosso molto successo in questi tormentati e luttuosi giorni di dibattito intorno ai cosiddetti “valori repubblicani” e alla Civiltà Occidentale. Se posta nei termini corretti, vale a dire storico-dialettici, la tesi sopra esposta può anche offrire interessanti spunti di riflessione. Rimane da capire fino a che punto ha senso, al di là della strumentalità politico-ideologica certamente non posta al servizio della verità, continuare a parlare in modo astratto e astorico di Occidente, di Civiltà Occidentale.
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Il partito democratico getta la maschera
I primi due decreti attuativi del Jobs Act
di Joe Vannelli
Il 24 dicembre 2014 il governo Renzi ha approvato il testo dei primi due decreti attuativi collegati alla legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, nota come Iobs Act. Il primo decreto riguarda i licenziamenti (sono 12 articoli); il secondo decreto (16 articoli) contiene invece le nuove norme sulla indennità legata alla disoccupazione (involontaria naturalmente, con esclusione delle dimissioni). Il meccanismo utilizzato non è di agevole comprensione per chi non sia un addetto ai lavori. In buona sostanza con il varo della legge delega l’esecutivo non ha più bisogno dell’approvazione parlamentare e dunque i decreti (una volta pubblicati in Gazzetta Ufficiale) sono ad ogni effetto in vigore. Ma va detto (ad evitare equivoci) che allo stato il percorso non è ancora concluso e che non possano escludersi modifiche (nel bene o nel male; più facile la seconda ipotesi vista la situazione politica). Nel seguito andrò ad esaminare le novità, per come attualmente codificate, senza poter escludere gli aggiustamenti di tiro che potenti gruppi di pressione richiedono in danno dei pur già bastonatissimi lavoratori (fissi e precari, autonomi e subordinati, tutti quanti). I due testi, varati con gran fretta, sono in discussione nelle commissioni lavoro della Camera e del Senato; in entrambe le commissioni gli unici a opporsi davvero sono i gruppi di Cinque Stelle (un po’ assottigliati) e di SEL (falcidiati, specie al Senato, dagli arruolamenti nelle furerie renziane, a partire dal capogruppo Migliore).
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Il default strisciante dell'Italia in un mondo pieno di incognite
Intervista a Paolo Cardenà
Dopo il grandissimo successo dalla prima intervista, LA DURA VERITA' SULL'ITALIA, torna su Tradingnetwork Paolo Cardenà, blogger di straordinario spessore - www.vincitorievinti.com - e consulente finanziario, per fare il punto della situazione attuale in questo inizio del 2015, tra aspettative sul QE in salsa europea, crollo del petrolio e del rublo, e le crescenti tensioni derivante dalle elezioni anticipate in Grecia, anche per le eventuali ripercussioni che queste potranno avere sull'euro e su tutti gli altri paesi periferici dell'eurozona, Italia in testa, di cui sotto possiamo vedere un grafico del 2014, dove si vede chiaramente come i mercati siano stati positivi di fatto nella prima parte dell’anno, sulle aspettative del “nuovo” governo made in trojka Renzi, e negativi invece nel secondo semestre, ritornando per ben due volte già sui 17500-18000 toccati a dicembre 2013 (tutto questo, nonostante lo spread sia praticamente sui minimi degli ultimi anni, gli sforzi di Draghi comunicativi e non di tenere alte le aspettative per il QE europeo, liquidità abbondante, prezzo del petrolio in decisa flessione. Basterebbe questo per dire che i mercati hanno già scaricato Renzi?).
Buona lettura.
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"Il Piano Draghi ideato per salvare l'euro e imporre l'Unione Politica non è sostenibile"
Intervista a Piergiorgio Gawronski*
Piergiorgio Gawronski. Economista, pubblicista. In passato ha lavorato all’ufficio studi della BNL, all’OCSE, all’UNCTAD, alla “policy unit” della Presidenza del Consiglio. E’ stato attivista e consulente di numerose Ong in Italia e all’estero (Amnesty International, Observatoire de la Finance). Cura un blog sul Fatto Quotidiano
Keynes definì i politici che gestirono la crisi degli anni '30 come dei “pazzi al potere”. Come dobbiamo definire i politici che dal 2011 ad oggi hanno catapultato l'Europa nella disoccupazione di massa, nella povertà diffusa, nella deflazione e nella rinegoziazione di diritti sociali acquisiti per seguire le stesse strategie fallimentari di quegli anni?
Sembra un andare sopra le righe, ma in realtà è proprio così. In passato, personalmente, nel 2011 li ho definiti personaggi straordinariamente incompetenti e mi riferivo in particolare alla Banca centrale europea, quella stessa istituzione che - Draghi ha coraggosamente ammesso, nel celebre discorso dell’Agosto 2014 di Jackson Hole - ha provocato il disastro attuale. Il presidente della Bce ha, nello specifico, sottolineato che gli spread schizzarono in su “non tanto per i debiti pubblici, bensì per l'assenza di una rete protezione adeguata della Bce”. Già…
Naturalmente ci sono altre motivazioni, oltre all'incompetenza. L’ho scritto in un mio articolo intitolato “La strategia della tensione della zona euro”, dove riportavo un dialogo con un mio caro amico.
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Quale cultura per ridisegnare l'Europa
di Sergio Bruno
Gli economisti dell’austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. Ma è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione
Ho detto che, ove si riuscisse ad arrestare l’attuale deriva delle strategie europee, occorrerebbe poi dotarsi di più strumenti culturali, di più lungimiranza, di più etica. Gli economisti dell’austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. A mio avviso è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione. Occorre invece tornare agli insegnamenti suggeriti dall’esperienza storica e da una buona parte degli economisti e dei politici della prima parte del secolo scorso, aggiornando il quadro problematico per raccordarlo meglio alle trasformazioni intervenute da allora.
Il lungo periodo di grande espansione ed evoluzione che è durato dalla fine del 1800 agli anni 1970, sia pure con alti e bassi, con momenti di crisi evidenti come quelli degli anni 1930, con accelerazioni dai risvolti crudeli quali quelle dovute agli sforzi bellici, ha molto da insegnarci. Il processo espansivo ha visto sempre come protagonisti complementari lo stato, le imprese, i sindacati. Le egemonie sono state di volta in volta diverse. Una buona parte di tali esperienze è stata innescata dalle grandi imprese innovative, quelle che maggiormente hanno raccolto i frutti delle grandi invenzioni maturate in sede scientifica a partire dalla fine dell’ 800, spesso contribuendo alla loro maturazione e sempre al loro successo.
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I fatti di Parigi e il complottismo
Una chiave di lettura consolatoria e fuorviante
Marco Santopadre
“Sono stati gli israeliani”, “Gli Usa hanno colpito la Francia perché è contro le sanzioni alla Russia”, “Perché il corpo del poliziotto non sanguina? E’ tutta una messinscena, a Parigi non è mai morto nessuno”, “Dicono che è stato l’Isis? Ma se l’Isis è un’invenzione della Cia!”…
In queste ore sul web, insieme ai tanti messaggi di frettolosa identificazione nei confronti di un giornale della quale la maggior parte degli italiani neanche conosceva l’esistenza e dal quale rimarrebbe probabilmente inorridito conoscendolo meglio, proliferano innumerevoli ricostruzioni e commenti sui fatti di Parigi.
Fatti che, occorre dirlo, non sono del tutto chiari e rivelano non pochi buchi nelle ricostruzioni ufficiali, suscitando quindi parecchie perplessità in chi ha sviluppato nel tempo un sano e sacrosanto scetticismo nei confronti delle versioni di alcuni importanti eventi diffuse dalle autorità e dalla stampa.
E’ possibile che tre “non professionisti del terrore” abbiano messo in scacco uno dei paesi più potenti e organizzati in fatto di sicurezza, intelligence e apparati militari? E’ possibile che la sede di un giornale così gravemente aggredito e minacciato fosse così scarsamente protetta? O che i due fratelli Kouachi abbiano potuto così facilmente organizzare la strage nonostante fossero più che noti alle forze di sicurezza di Parigi? Non è che ‘qualcuno’ li ha lasciati fare?
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Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo…
Appunti sul vittimismo italiano
di Wu Ming 1
Ho cominciato a prendere questi appunti ormai molti mesi fa, dopo aver letto in sequenza il libro di Federico Tenca MontiniFenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta a oggi (KappaVu, 2014) e il pamphlet Critica della vittima di Daniele Giglioli (Nottetempo). I due libri sono complementari. Tenca Montini e Giglioli affrontano gli stessi nodi di fondo. Il primo lo fa analizzando un case study molto significativo, ricostruendo genesi, sviluppo e affermazione, nel corso degli anni Novanta e degli anni Zero, del discorso sulle «foibe». Discorso quintessenzialmente vittimistico, perfettamente coerente con l’autonarrazione deresponsabilizzante spesso riassunta nell’espressione «Italiani brava gente»; Il secondo, invece, fotografa la tendenza egemone dei nostri tempi, la centralità della «vittima» nell’immaginario italiano e occidentale contemporaneo.
Quella che era partita come riflessione ispirata dalla lettura quasi contemporanea dei due saggi, si è gonfiata come un torrente a fine inverno e ha trascinato a valle detriti di polemiche di cronaca, storiografiche e di costume.
Rimuovere tutte le premesse tranne una
Ovviamente, le vittime sono sempre esistite. Quelle vere e quelle presunte. Anche il vittimismo – il “fare la vittima”, l’atteggiarsi a vittima – non è una novità, e si manifesta da sempre in tutto il mondo.
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"L’eurozona? Insostenibile. Tsipras valuti anche l’uscita dall’euro”
Giacomo Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
Secondo l’economista l'abbandono della moneta unica è un’opzione difficile, che al momento Syriza non contempla. Ma la storia europea potrebbe intraprendere sentieri molto diversi a seconda di quali forze politiche, per prime, si assumeranno il compito di trarre le conseguenze del fallimento dell’eurozona: “Oggi l’egemonia politica è contesa tra liberisti e razzisti. Se la sinistra affrontasse per prima i nodi dell’euro, le prospettive europee potrebbero farsi meno cupe”.
Le elezioni in Grecia del prossimo 25 gennaio hanno assunto una valenza europea. La vittoria di Syriza e del suo leader Alexis Tsipras incutono paura alla finanza e ai poteri forti dell’Unione Europea. Il presidente Juncker ha invitato a “non votare in modo sbagliato”, il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato la sospensione dei negoziati sugli aiuti alla Grecia fino alla formazione del nuovo governo, mentre i mercati hanno mandato a picco la borsa di Atene facendo schizzare in alto i tassi sui titoli di Stato. Indicazioni arrivano anche dalla Germania: la Cancelliera Angela Merkel ha ribadito che dopo le elezioni la Grecia non dovrà abbandonare le politiche di austerity e di competitività salariale, mentre il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble ha dichiarato che solo rispettando i “memorandum” imposti dalla Troika i greci potranno rimettere i conti in ordine e avviare la ripresa. Che partita si sta realmente giocando ad Atene? Ne parliamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia all’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti”, un documento pubblicato sul Financial Times nel 2013, alquanto scettico sulle future possibilità di sopravvivenza dell’euro.
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Non chiamatele rivoluzioni
Spazi urbani e nuove forme della politica
Federica Castelli
Gli eventi e le proteste degli ultimi anni ci hanno mostrato l’urgenza di una riflessione politica sulle nuove modalità di partecipazione alla scena pubblica, tra occupazioni e nuove esperienze di autogoverno. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un proliferare di pratiche politiche radicate nella materialità delle esistenze, nella sua concretezza e nelle sue urgenze; esperienze che difficilmente possono essere fatte rientrare in un’unica analisi, dal momento che ognuna mantiene una propria specificità legata al contesto. Inoltre, non è facile tenere assieme uno sguardo generale e l’attenzione al presente, alla materialità e contingenza delle esperienze. Sono eventi specifici, ognuno diverso dall’altro, ognuno unico a suo modo. Eventi unici, eppure in connessione. Tenere insieme questa unicità con lo sguardo ampio di una lettura generale è difficile e forse anche un po’ pericoloso, ma non è impossibile, se conosciamo i rischi dell’uso ingenuo della teorizzazione.
La mia intenzione è quella di prendere in considerazione alcuni eventi di protesta e di riappropriazione degli spazi urbani degli ultimi anni. Quelli più famosi, quelli che hanno smosso gli immaginari, quelli che hanno creato le scintille e, in un certo senso, quelli che hanno creato un “brand” di protesta, a cui a volte si attinge con troppa facilità. Parlo dei movimenti che dal 2011 hanno riempito pagine di giornali e telegiornali internazionali, hanno fatto esplodere i social network: il movimento degli indignados spagnoli, piazza Tahrir del 2011, il movimento Occupy, negli Stati Uniti, in Turchia e non solo, fino alle risonanze che esso ha avuto in Italia.
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I fondamentalisti e gli Ultimi Uomini
di Slavoj Žižek
[Questo intervento è uscito su «The New Statesman». Ringraziamo l’autore per averci concesso di pubblicare la nostra traduzione italiana. Il titolo è redazionale]
Ora, mentre siamo tutti sotto choc dopo la furia omicida negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di pensare. Dovremmo, com’è ovvio, condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco alla sostanza stessa delle nostre libertà e farlo senza riserve nascoste (del tipo «comunque Charlie Hebdo provocava e umiliava troppo i Musulmani»). Ma questo pathos di solidarietà universale non è abbastanza. Dobbiamo pensare più a fondo.
Pensare più a fondo non ha nulla a che fare con la relativizzazione a buon mercato del crimine (il mantra «chi siamo noi occidentali, perpetratori di massacri terribili nel Terzo Mondo, per condannare atti simili»). Ha ancora meno a che fare con la paura patologica di molta sinistra liberal occidentale: rendersi colpevole di islamofobia. Per questa falsa sinistra ogni critica verso l’Islam è espressione di islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i Musulmani e quindi di essere responsabile, almeno in parte, della fatwa che lo ha condannato a morte, eccetera. Il risultato di una simile posizione è quello che ci può aspettare in questi casi: più la sinistra liberal occidentale esprime la propria colpevolezza, più viene accusata dai fondamentalisti di ipocrisia che nasconde odio per l’Islam. Questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più obbedisci a ciò che l’Altro ti chiede, più sei colpevole. Più tolleri l’Islam, più la pressione su di te è destinata a crescere.
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Il secondo comandamento
di Raffaele Alberto Ventura
[Di ritorno dalla gigantesca processione parigina per le vittime degli attentati di questa settimana, provo a dire alcune cose che mi sembrano importanti]
«Avete voluto uccidere Charlie ma lo avete reso immortale»: eccolo qua, riassunto in uno slogan di piazza, il capolavoro dei fratelli Kouachi. Hanno preso di mira un giornale che si stava spegnendo nell’indifferenza generale e lo hanno resuscitato a colpi di kalashnikov. Adesso le folle si precipitano in edicola per acquistare Charlie Hebdo, il governo annuncia finanziamenti milionari e le caricature del Profeta vengono pubblicate ovunque. Ma chi crede che questo rinculo costituisca una sconfitta per il terrorismo evidentemente conosce male il terrorismo, la sua storia, i suoi meccanismi. Il terrorismo è una strategia di mobilitazione delle masse: provocare la ritorsione fa parte della sua ragione d’essere. Spingendoci ad abbracciare l’ambigua battaglia di Charlie Hebdo ovvero a fare della blasfemia una bandiera della libertà d’espressione, i fratelli Kouachi hanno scaraventato l’Occidente in una trappola insidiosa. La storia delle guerre civili europee del Sedicesimo secolo avrebbe dovuto insegnarci qualcosa sui modi più ragionevoli di armeggiare con le divinità degli altri. Per questo non possiamo salire sul carro dei vignettisti-martiri. Per questo non possiamo dare il nostro sostegno a chi vuole rendere «immortale» Charlie e le sue provocazioni. E per questo cercheremo di spiegare a chi lo ha pervertito il senso di un concetto fondamentale per la sopravvivenza di questa nostra malandata società multiculturale: si chiama laicità.
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Che succede al prezzo del petrolio?
Domenico De Simone
Molti amici ed estimatori mi hanno chiesto delucidazioni sulla improvvisa caduta verticale del prezzo del petrolio e sulle sue origini. Ringrazio tutti per la fiducia, ma francamente non posso fare molto di più che formulare delle ipotesi, probabilmente vaghe e forse vere solo in parte. Per le previsioni, poi, non ne parliamo nemmeno, osservatori ed analisti potenti ed accreditati e sbagliano regolarmente, nonostante dispongano di mezzi di analisi e di strumenti di calcolo decisamente potenti ed affidabili. Proviamo a ragionare.
La prima idea che viene in mente, e che peraltro è stata sostenuta ed è tuttora sostenuta da diversi osservatori, è che la caduta del prezzo del petrolio è una manovra voluta dagli americani per mettere in ginocchio la Russia e far precipitare il consenso e il potere di Putin e del suo gruppo. A mio avviso, però, questa è un’idea sbagliata, o meglio, in buona parte sbagliata. Intanto la caduta verticale del prezzo del petrolio è certamente riconducibile alla decisione dell’Opec di non tagliare la produzione, seppure in presenza di una domanda mondiale debole e con prospettive persino di riduzione. L’Opec, com’è noto, è politicamente condotto dall’Arabia Saudita che, dall’alto dei suoi dieci milioni di barili al giorno di produzione ne determina di fatto le scelte.
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La deludente verità dell’antisemitismo di Heidegger
Andrea Zhok
In uno degli ultimi numeri di Scenari Stefano Cardini richiamava l’attenzione sull’impatto della recente pubblicazione dei “Quaderni neri” di Martin Heidegger, e invitava a ripensare con più radicalità il nesso tra quel pensiero e la storia politica europea. Sulla scorta di quelle considerazioni ho preso visione direttamente dei volumi 95 e 96 della Gesamtausgabe, dove sono contenute le riflessioni degli anni 1938-1941. Come cercherò di dimostrare, sia pure per sommi capi, queste pagine sembrano effettivamente destinate a modificare le ricezione heideggeriana, non per qualche rinnovato scandalo per l’antisemitismo o nazismo di Heidegger, ma per la collocazione di quelle idee sullo sfondo complessivo del suo pensiero.
1. Antisemitismo e nazismo negli Schwarze Hefte
Il numero di passi in cui il tema dell’ebraismo è discusso nelle pagine in oggetto è piuttosto esiguo. Si tratta in tutto di 5 passi nel volume 96 e di 3 passi nel volume 95. Tuttavia i passi in questione non sono note marginali, ma tesi che collocano il tema dell’ebraismo, e di una specifica forma di antisemitismo, in una posizione strategica all’interno del pensiero heideggeriano. Proviamo di seguito a darne una breve sintesi, con la premessa che, ove possibile, cercheremo di ‘rettificare’ la prosa convoluta che Heidegger predilige, in modo da portare alla luce il nocciolo essenziale delle sue tesi, a costo di perdere alcune nuance.
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