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Anzola è il mondo?
Alcuni/e compagni/e
A mo’ di introduzione

Le note che seguono non hanno alcun intento normativo, né si propongono di illustrare esaustivamente il percorso, peraltro ancora in divenire, delle lotte operaie nel settore della logistica; piuttosto si vorrebbe proporre una chiave di lettura altra per inquadrare la situazione attuale delle lotte rivendicative in Italia, ed anche al di là dei confini italiani. Le lotte dei facchini della logistica hanno dato modo di sognare o, per meglio dire, di fantasticare a molti. Esse hanno permesso agli sparuti nostalgici del Gran Partito e dei ranghi compatti della classe operaia, di menare innanzi i loro sogni di ricomposizione, e hanno egualmente dato modo ad un ceto politico neo-sindacale e “movimentista” di rifarsi momentaneamente un'innocenza da tempo perduta. I primi hanno dovuto cedere alla delusione un po' ovunque. La particolarità di Anzola è che anche i secondi se la sono vista brutta. Quanto ai facchini – i famosi diretti interessati, quelli che hanno lottato per davvero e ci hanno messo la faccia e la pellaccia –, loro sono usciti dalla lotta abbastanza malridotti. Dal paragone con altre esperienze nel settore della logistica, possiamo comunque affermare che ci siano assonanze nei percorsi, nonché epiloghi simili al caso di cui trattiamo qui.
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Slavoj Žižek pensatore pericoloso?
Diego Fusaro
Domenica 1 dicembre, il filosofo Slavoj Žižek è stato ospite della trasmissione “Che tempo che fa” diretta da Fabio Fazio. Non è interessante, in questa sede, discutere della trasmissione in quanto tale, su cui peraltro già vi sarebbe molto da dire. La trasmissione di Fazio è, in estrema sintesi, l’equivalente televisivo del quotidiano “La Repubblica”, il luogo della riproduzione del politicamente corretto e dell’ideologia di legittimazione dell’esistente.
Certo, si tratta di un fatto hegelianamente noto, ma non conosciuto: ma non è di questo che intendo occuparmi, né di come la trasmissione di Fazio svolga la funzione di rassicurazione ideologica per la gente semicolta del ceto della sinistra politicamente corretta, antiborghese e ultracapitalista, nemica di ogni possibile formazione ideologica in grado di opporsi al capitale dominante.
E, tuttavia, occorre partire dal fatto che, nel rassicurante e comodo salotto della trasmissione di Fazio, vengono sempre e solo invitati ospiti organici a quella cultura. Perché, dunque, invitare il filosofo irregolare Slavoj Žižek, colui che mai ha rinnegato il nome di Marx e che, in tempi recenti, ha addirittura preteso di riabilitare Hegel, l’autore più dissonante in assoluto rispetto all’ordine della globalizzazione trionfante (si veda, a questo proposito, l’ultimo lavoro di Žižek, Meno di niente, Ponte Alle Grazie 2013)?
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L’unificazione della Germania ed il futuro dell’Europa
di Francesco Maringiò
In questo libro Vladimiro Giacché ripercorre tutta la storia della così detta unificazione tedesca, illuminando di luce diversa una vicenda storica, per anni raccontata attraverso letture apologetiche e funzionali ed un processo politico di cancellazione della RDT ed integrazione della stessa nel capitalismo tedesco occidentale. Ma nel raccontare nel dettaglio questa storia, il libro impone una riflessione critica ed una lettura diversa dei processi di integrazione europea. Un interessante contributo storiografico e di analisi dei processi politici dei giorni nostri.
(Morpheus in: Matrix, 1999, regia di Lana e Andy Wachowski).
Dovrebbe iniziare pressappoco in questo modo la premessa dell’ultima fatica di Vladimiro Giacché [Anschluss - L’Annessione, L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa; 2013, Imprimatur Editore, 304 pagg., 18 €] che ha, tra gli altri, il pregio di fare luce su una delle vicende più importanti della recente storia europea e sulla quale si è costruito ad hoc un mito ed una accurata narrazione, centrata sulla storia dell’unificazione della Germania, motore dell’unificazione del popolo tedesco e della fine della guerra fredda.
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Il comune senso del pudore
di Franco Senia
Nel suo ultimo saggio, pubblicato nel mese di marzo di quest'anno, "Les mystères de la gauche" (I misteri della sinistra), con il sottotitolo "dall'illuminismo al trionfo del capitalismo assoluto”, Jean-Claude Michéa riprende la formula di Castoriadis secondo cui "è da molto tempo che il divario fra la destra e la sinistra, in Francia come altrove, non corrisponde più né ai grandi problemi del nostro tempo né a delle scelte politiche radicalmente opposte." Una valutazione assolutamente banale che però non sembra poi così condivisa a sinistra. Precisa l'autore, che il suo saggio trae origine da uno scambio epistolare con un militante del PCF/Front de gauche per il quale solo "la sempre più crescente indignazione della gente comune" (Orwell) nei confronti di una società sempre più amorale, ineguale ed alienante, può essere la cifra esclusiva della sinistra.
Ragion per cui, non sembra inutile a Michéa ricordare, fin dalle prime pagine - e sotto forma di invito a valutare la cosa -, che "né Marx né Engels si sono mai sognati, nemmeno una sola volta, di definirsi come uomini di sinistra"; aggiungendo inoltre che quando sono arrivati a fare uso di un tal genere di terminologia, per loro "la destra designa l'insieme dei partiti che rappresentano l'interesse (a volte contraddittorio) della vecchia aristocrazia terriera e della gerarchia cattolica.
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La nuova ragione del mondo
Il neoliberismo come forma di vita
di Pierre Dardot e Christian Laval
[Esce in questi giorni per DeriveApprodi l'edizione italiana di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval, un libro importante nel dibattito sul neoliberismo contemporaneo. Il libro di Dardot e Laval è una vera «genealogia del presente», scrive Paolo Napoli nella prefazione all'edizione italiana, un tentativo di spiegare come le società contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il neoliberismo non è solo un'ideologia o una politica economica: è innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che struttura l'identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza mercantile, di governamentalità diffusa. Presentiamo alcune pagine del capitolo finale].
La fine della democrazia liberale
Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro.
Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista»[1].
Secondo, l’essenza dell’ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2].
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Ma che cos'è questa crisi
di Marcello De Cecco
Da dove origina e dove rischia di condurci la crisi che da sei anni affligge i principali paesi sviluppati? Che cosa accadrà dell'Europa e dell'euro? Pubblichiamo l'introduzione dell'ultimo libro di Marcello De Cecco, Ma che cos'è questa crisi, edito da Donzelli
La crisi affligge da sei anni i principali paesi sviluppati. Essa ha colpito il cuore dell’economia mondiale dopo avere investito, nel 1997-98, i paesi emergenti, specie quelli asiatici. Ora, secondo tradizione, pare voler abbracciare nella sua stretta mortale anche loro, che nell’attuale convulsione sembravano essere stati risparmiati e mostrare anzi un’invidiabile capacità di crescere e prosperare, malgrado le traversie del centro.
Da questa enorme convulsione l’economia ma anche gli assetti politici mondiali usciranno completamente cambiati. Non sappiamo cosa accadrà dell’Europa e dell’euro e nemmeno sappiamo quanto del cosiddetto modello europeo di organizzazione economica e politica sopravvivrà. Sappiamo che gli equilibri mondiali ne usciranno profondamente mutati, con l’ascesa che sembra inarrestabile della Cina e con il certo declino relativo dei paesi del centro: Europa, Stati Uniti e Giappone.
Che una grande crisi si stesse scatenando si poteva prevedere certamente nel 2007. Affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale, nel maggio di quell’anno, a conclusione di una lezione che tenni all’Università di Waterloo, in Canada. C’era già stata qualche avvisaglia nelle difficoltà annunciate in febbraio da un paio di istituzioni finanziarie americane, che dichiaravano di avere problemi nel settore dei mutui subprime, una categoria della quale tutti sarebbero venuti a conoscenza di lì a qualche mese, ma che suonava ancora assolutamente sconosciuta ai non addetti ai lavori e anche a parecchi degli addetti.
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Per il buon uso dell'intelletto
Alcuni presenti e futuri lavoratori e lavoratrici dell'intelletto
Se c'è qualcosa che caratterizza drammaticamente questi tempi di "crisi" è il paradosso per cui ad un dilagare di povertà, all'emergere di nuovi (o al riemergere di vecchi) problemi sanitari ed ambientali, si accompagna una immane capacità tecnologica e scientifica inutilizzata – tra macchinari e laboratori inutilizzabili perché non profittevoli o in diicoltà finanziarie, ed intelligenze lasciate a riempire le fila dell'esercito di disoccupati.
Governi "tecnici" e tecnocrati di mezzo mondo ci assicurano che tanto l'origine quanto la soluzione del problema sia a sua volta tecnico-scientifica. La loro scienza economica, che promette di rimediare agli "errori" che ha finora giustificato, ci vorrebbe assicurare il modo in cui far ripartire la crescita. Con questa si riassorbirebbe la manodopera in eccesso, i mezzi di produzione tornerebbero in funzione, e soprattutto ripartirebbe il ciclo di innovazioni che può salvarci dalle catastrofi naturali, anche questa volta promettendo di non ripetere gli errori del passato.
Perché degli effetti controproducenti del sapere e delle applicazioni tecnico-scientifiche ne è piena la storia, anche quella recente: dai pesticidi che, colpendo tanto i propri bersagli dichiarati quanto i loro predatori, son finiti per far proliferare gli agenti infestanti, ai fertilizzanti che hanno finito per erodere la fertilità del suolo;
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Clic! Grillo, Casaleggio & co.
Dialogo con Alessandro Dal Lago
di Jacopo Guerriero
A partire da un’ evidenza: la democrazia è reversibile – e impone fatica e non è mai risolta. Apprezzabile è dunque il pensiero politico volenteroso di non mettersi in gabbia –neppure la rivoluzione è scienza, del resto. Pensando ai nostri giorni, Hanna Arendt lo diceva in modo differente e certo più profondo: «il problema delle moderne teorie del comportamento non è che esse siano sbagliate, ma che potrebbero diventare vere». Forse, allora, va in questa direzione anche Alessandro Dal Lago, sociologo (anomalo nella sinistra italiana, lo definiscono i giornali), che ha scritto un nuovo libro: Clic! (Cronopio, Napoli 2013). Critica radicale di un soggetto politico –del M5S, del grillismo, dell’ascesa dei nuovi imprenditori della politica Grillo & Casaleggio. Giova chiedersi da che parte sta, dove si schiera? Per niente, si perderebbe un occasione. Serve invece leggere questo testo – interrogarlo- ovvero farci un pezzo di strada: per capire slittamenti del pensiero comune, banalità e sottomissioni che dettano il nostro presente. Grillo – la sua attitudine a incrociare e risolvere contraddizioni; il suo amore per le retoriche della rete, il suo corpo gettato nella lotta politica; la lunare visione del mondo del suo socio Gian Roberto Casaleggio – è forse solo un sintomo: del presente e del suo piccolo borghese desiderio di palingenesi.
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Ma è possibile uscire dall'euro e adottare in Italia
le politiche della Modern Monetary Theory?
by Elido Fazi
Ringrazio Ricky che mi ha segnalato il manifesto “Non Eravamo i PIIGS. Torneremo Italia”. Il documento, preparato dagli economisti Warren Mosler (uno dei più conosciuti fautori della Moderna Teoria Monetaria), Mathew Forstater, Alain Parguez e il giornalista eretico italiano Paolo Barnard, propone un ritorno unilaterale dell’Italia alla lira e una messa in pratica nel nostro paese delle tesi della scuola economica che si rifà alla Modern Monetary Theory (MMT). Dirigo, insieme al teologo Vito Mancuso, una collana di teologia che si chiama “Campo dei Fiori” in onore di Giordano Bruno. Ho simpatia per gli eretici come Barnard, anche se su molti punti, alcuni cruciali, non sono d’accordo con lui. Ma devo riconoscergli che, al contrario di molti altri, lui cerca di andare oltre i soliti conformistici articoli sulla crisi che leggiamo troppo spesso sui giornali italiani (e anche su quelli stranieri).
Poiché la tesi dell’uscita della lira dall’Euro è legata alle teorie della Moderna Teoria Monetaria, bisogna cercare di capire che cos’è quest’ultima, portata avanti soprattutto dalla sinistra del Partito Democratico americano (tra i suoi più accesi sostenitori c’è l’economista James K. Galbraith, docente di Scienza delle Finanze all’università del Texas, figlio del celebre economista John Kenneth Galbraith, il più grande studioso della crisi del ’29, consigliere, non si sa se ascoltato o meno, di Barack Obama).
Essendo una teoria propugnata da quella parte della sinistra americana che si è battuta affinché fosse eletta Janet Yellen alla guida della Federal Reserve (a proposito, c’è qualcuno che ha capito il sacro mistero del perché Obama preferisse Lawrence Summers, noto trafficante di Wall Street, consulente di hedge fund, ispiratore della nefasta politica di deregulation sotto la presidenza Clinton, alla Yellen, che ha sempre lavorato nel pubblico e a Wall Street non ha mai messo piede?),
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La Teologia del denaro di Walter Benjamin: il debito
di Mario Pezzella
1. In un frammento del 1921, Il capitalismo come religione[1], Walter Benjamin ha messo in rilievo in che misura il debito sia diventato l’oggetto di culto di una vera e propria teologia del danaro, che ha sostituito in larga misura la “teologia politica”. Benjamin radicalizza le idee di Weber sul rapporto tra modo di produzione capitalista e cristianesimo. Se per Weber il capitale nella sua forma moderna è stimolato dalla concezione calvinista della grazia e del peccato e poi procede alla sua secolarizzazione profana, per Benjamin è esso stesso religione: priva di dogmi, ma con un suo culto ineluttabile e continuo e un “dio minore” che ne perpetua il destino. “Il capitalismo -scrive Benjamin- è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore”[2]. Oggetto di questo rito è la merce, emanazione visibile della astrazione sovrasensibile e spirituale del danaro.
“Questo culto è colpevolizzante-indebitante”. Se il debito è il rapporto sociale che domina e sostituisce ogni altra forma di riconoscimento intersoggettivo tra gli uomini, esso stabilisce immediatamente anche un nesso di colpevolezza.
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E adesso, povero euro?
Mimmo Porcaro
Lasciamolo dire al Sole 24 ore, un giornale che per la sua funzione non può permettersi di raccontare troppe frottole: “Chi si illudeva che il ritorno dei socialdemocratici al governo avrebbe ammorbidito le politiche di rigore di Angela Merkel si ritrova smentito su tutta la linea: niente allentamenti, né mutualizzazione dei debiti, né solidarietà finanziaria Ue nell’unione bancaria se non come ultimissima spiaggia. Silenzio sulla crescita europea (che non c’è). Invece contratti Ue vincolanti sulle riforme degli altri”. Così Adriana Cerretelli, addì 28 novembre.
Capito? Il PD ha sempre saputo che le cose sarebbero andate così, e farà finta che sia ancora possibile ottenere, assieme al rigore, la sospirata crescita. Non si tratta di illusioni, si tratta di fare il proprio mestiere, che è, per il PD, quello di tenere i lavoratori italiani dentro la gabbia del capitalismo euroatlantico. Ma che dire della sinistra sedicente radicale, che ancora continua a coltivare speranze analoghe? “Beh – mi si risponderà – ma noi non speriamo certo nel rinsavimento della Merkel, contiamo piuttosto sulla lotta dei lavoratori europei…” . Appunto: se la Grosse Koalition tra socialdemocratici e conservatori è tirchia sull’Europa, è invece più generosa sul fronte interno.
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La Great Recession e il Saggio del Profitto
Paolo Giussani*

Nella presentazione di Guglielmo Carchedi e Michael Roberts alla decima conferenza della rivista Historical Materialism (Londra, 7-10 Novembre 2013), intitolata The Long Roots of the Present Crisis1, viene esposta quella che Roberts chiama la spiegazione monocausale della Great Recession in quanto generata dalla diminuzione del saggio e della massa dei profitti, in opposizione alle teorie postkeynesiane centrate sul sottoconsumo, la financialisation o su una combinazione di entrambe.
Il sostegno fondamentale alla tesi di Carchedi e Roberts si trova nel seguente grafico, qui riprodotto dalla pagina 7 della loro presentazione:
Grafico 1. [Vedi p. 7 di The Long Roots of the Present Crisis]
US Corporate Profits, Real Investment and GDP.
Q1-2011 to Q2-2012, $Bn.
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Moltitudine, classi e azione sociale
Risposta a Stefano Breda
di Ernesto Screpanti
Breda crede di poter rigettare l’individualismo istituzionale sulla base di una ricostruzione hegeliana della teoria marxiana del capitalismo, ma produce un cortocircuito tra la descrizione della struttura di un modello astratto e la spiegazione nomologico-causale dei processi reali. Una volta tradotta quella descrizione in un linguaggio comprensibile a tutti si scopre che, proprio perché la struttura è posta assiomaticamente come “causa sui”, non può sostituirsi a spiegazioni basate sul metodo dell’individualismo istituzionale
Voglio subito dire che l’articolo di Stefano Breda mi è piaciuto, nonostante abbia di primo acchito trovato sconcertanti alcune sue proposizioni. Alla fine ho capito che dice sostanzialmente le stesse cose che dico io, seppur in un linguaggio diverso.
“Dominio impersonale” è un bell’ossimoro che esprime poeticamente il senso di oppressione che tutti noi proviamo di fronte a mostri totalizzanti come il “capitale multinazionale”, la “speculazione internazionale”, il “mercato sovrano”, o anche soltanto “l’Europa che ce lo chiede”, e giù giù fino alla classe politica costituitasi in “casta”. Ma dal punto di vista scientifico è un non senso. “Dominio”, “Potere”, “Dipendenza”, sono concetti che definiscono una relazione tra agenti sociali. Ci deve essere qualcuno (individuo o gruppo) che domina e qualcuno che è dominato. Non possono essere usati quali definizioni di agenti sociali, come talvolta Breda sembra fare. Può una relazione essere un soggetto?
Se interpretate in quest’ultimo senso alcune affermazioni di Breda paiono sbalorditive.
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Il futuro pre-industriale dell’economia italiana
di Guglielmo Forges Davanzati
Nell’ultimo Rapporto della commissione europea (ottobre 2013), si legge che, in tutti i Paesi dell’eurozona, è in atto un significativo processo di deindustrializzazione (link), e si auspica che – a seguito dell’attuazione di “riforme strutturali” – si generi un’inversione di rotta tale da portare il tasso di industrializzazione dall’attuale 13% in rapporto al PIL al 20% entro il 20201. L’Italia è, fra i Paesi dell’eurozona, quello maggiormente coinvolto in questo processo.
E’ certamente vero che la deindustrializzazione costituisce l’altra faccia della c.d. finanziarizzazione (ovvero della crescente propensione delle imprese a utilizzare risorse per fini speculativi nei mercati finanziari)2, così come è attestato che il grado di finanziarizzazione delle imprese italiane è notevolmente più basso di quello della gran parte dei Paesi OCSE (v. Salento e Masino, 2013). Ci si trova di fronte a un puzzle che rinvia alla domanda: per quale ragione la deindustrializzazione è più accentuata in Italia a fronte del fatto che le nostre imprese mostrano minore propensione a destinare risorse, per finalità speculative, nei mercati finanziari? In altri termini, se la deindustrializzazione viene fatta dipendere dalla finanziarizzazione, ci si dovrebbe aspettare che laddove il grado di finanziarizzazione è basso, è maggiore l’accumulazione di capitale.
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Smith, Schumpeter e Marx a Pechino
Sul Plenum del Partito Comunista Cinese
di Pasquale Cicalese
(Guido Rossi, La cura cinese per l’economia globalizzata, Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2013)
Giorno 18 ottobre, borsa Shanghai + 3,3, Hong Kong + 2,7, titoli finanziari alla riscossa. Cosa è successo durante il Plenum del Partito Comunista Cinese? E’ passata la linea nera, come strillava sabato 16 novembre il Manifesto, che dalle nostre parti appoggia niente meno che il PD?
Gli occidentali paiono avere una scarsa conoscenza della realtà cinese dell’ economia socialista di mercato. Giovanni Arrighi in Adam Smith a Pechino era stato chiaro: quel che succede da quelle parti modificherà i rapporti di forza mondiale. Altre volte avevamo suggerito che la dirigenza cinese applica un mix tra Smith, Schumpeter e Marx, un originale connubio finalizzato in ultima analisi ad una crescita poderosa della produttività totale dei fattori produttivi, un cammino incessante per raggiungere i livelli, ora calanti, occidentali. Lo hanno applicato alla forza lavoro, agli immensi conglomerati industriali pubblici, alle cooperative, alla pubblica amministrazione. Ora è il tempo di altri due settori, agricoltura e finanza. Si parla ora di titoli di proprietà. In ambito agricolo si punta a creare in pochi decenni quel che vi era durante la rivoluzione inglese, vale a dire la gentry, agricoltori che applicarono tecniche agricole innovative che fecero esplodere la produttività.
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Il garante dello stato delle cose: Matteo Renzi
di Tomaso Montanari
Tra meno di due settimane il Partito Democratico affiderà se stesso, quel che resta della Sinistra e soprattutto del Paese a Matteo Renzi.
Lo farà senza convinzione: per mancanza di meglio. Ed è forse per questo motivo che nessuno si chiede veramente chi sia e che cosa rappresenti Matteo Renzi. Come uno struzzo, l’Italia mette la testa sotto la sabbia: preferisce non sapere.
Si parla del clan di Renzi, dei poteri fortissimi che lo sostengono e ne tirano i fili, perfino dei suoi abiti firmati: ma non delle sue idee, del suo programma, dell’Italia che vuole.
Ma noi fiorentini sappiamo chi è Matteo Renzi. E non possiamo, non dobbiamo tacere.
Con il suo quinquennale non-governo Firenze si è trovata in una posizione del tutto singolare: da una parte è stata abbandonata a se stessa da un’amministrazione rinunciataria, latitante e ben decisa a non sostituire, ma semmai ad affiancare, i preesistenti centri di potere; dall’altra si è vista trasformare in un laboratorio politico in cui è stato possibile conoscere in anteprima i connotati dell’Italia del prossimo futuro.
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Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sul debito pubblico italiano
di Thomas Fazi
Qualche giorno fa, Carlo Cottarelli, ex direttore del dipartimento delle politiche fiscali del Fondo monetario internazionale (FMI) – e l’uomo scelto dal governo italiano per redigere l’ennesima spending review della spesa pubblica italiana – ha annunciato un ambizioso piano di tagli per il periodo 2014-6: la cifra ancora non è chiara, ma si va dai 10 ai 32 miliardi (pari all’incirca al 2% del PIL) in tre anni, il che triplicherebbe gli obiettivi di risparmio delineati nella Legge di Stabilità. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni ha parlato di «una piena condivisione del piano di lavoro» preparato dal commissario, anche in considerazione del fatto che è «cruciale» tagliare la spesa pubblica, tanto che la revisione della spesa è «un elemento cardine della politica economica del governo».
Non è ancora chiaro dove e come saranno effettuati i tagli. Come sempre in questi casi, Cottarelli si è affrettato a dire che intende colpire principalmente gli «sprechi» e le «inefficienze» dell’amministrazione pubblica (un argomento molto caro agli italiani, che pare non si stanchino mai di sentirlo) e che non ci saranno tagli lineari alla spesa. Ma il sospetto che non sia esattamente così, alla luce della storia recente (vedi la spending review dell’anno scorso), è lecito. E difatti, lo stesso giorno, il governo ha ammesso che intanto intende recuperare 2-3 miliardi di euro «immediatamente», a partire dalla sanità: la previsione è arrivare a 1-1,5 miliardi di tagli nel 2014, tanto per cominciare. Entro fine anno, poi, dovrebbe arrivare anche il piano sulle dismissioni-privatizzazioni del patrimonio pubblico, che a quanto pare interesserà non solo gli immobili ma anche le partecipazioni azionarie. L’obiettivo della manovra, dice Cottarelli, è duplice: ridurre le imposte sul lavoro e ridurre il debito pubblico.
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L'Italia e la trappola della produttività
di Paolo Pini
La stagnazione della produttività è all'origine della crisi italiana. Ma l'intervento della legge di stabilità sul cuneo fiscale non servirà a rilanciarla
Son passate quasi due settimane da quando la Commissione Europea ha sostanzialmente, anche se non formalmente, bocciato la Legge di Stabilità (LS) proposta dal governo Letta. Semaforo arancione dalla Commissione.
Per rispondere alle obiezioni della Commissione, il governo italiano ha argomentato che altri interventi sono in programma per ridurre il debito, e che si impegna a tradurre i programmi in azioni concrete entro le scadenze previste, senza comunque modificare i saldi della LS inviata al Parlamento italiano ed alla Commissione Europea.
Il governo Letta cerca di inviare un segnale nelle intenzioni forte alla Commissione europea per garantire che l’Italia rispetterà i vincoli posti dai Trattati e loro modifiche recenti 2011-2012, quegli stessi vincoli che hanno bloccato l’Europa dopo la flebile ripresa del 2010 e che l’hanno gettata nella depressione di una durata, sinora, di 6 anni, dal 2008 al 2013. Non vi sono azioni particolari che il governo avanza per modificare nella direzione di crescita ed occupazione la LS proposta, la quale nei saldi rimane immutata, mentre nella composizione è oggetto di negoziazioni parlamentari il cui esito sarà tutto da verificare alla scadenza della approvazione finale dei due rami del Parlamento.
È evidente che questi interventi hanno un unico scopo, quello di cercare di soddisfare i tecnocrati europei che richiedono il rispetto dei vincoli che sono stati imposti con i Trattati e le loro recenti revisioni, Six Pack e Two Pack.
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Da Céline al videoclip
Anselm Jappe
All'inizio dell'anno ho pubblicato in Francia una raccolta di saggi dal titolo Crédit à mort (1), incentrati specialmente sulla crisi finanziaria e sulle sue ripercussioni sociali. Il titolo è un ovvio utilizzo del metodo dello straniamento (detournement) del titolo del secondo romanzo di Louis-Ferdinand Céline. Non c'era, comunque, un riferimento diretto al testo di Céline; il titolo del mio libro era soltanto un gioco di parole tra “morte” e “credito”. Ciò nonostante, in seguito ho realizzato quanto fosse realmente appropriato il riferimento a Céline e che avevo fatto una buona scelta senza esserne inizialmente consapevole. Il mio libro è per sommi capi una denuncia delle false forme di critica sociale che sono emerse a causa della crisi della società capitalista. Nel libro ho denunciato soprattutto la polemica unilaterale contro la finanza, le banche e la speculazione, non considerate come l'aspetto visibile di una crisi più profonda — la crisi dell'accumulazione del capitale — ma come la causa stessa della devastante crisi dello stile di vita capitalista. Questa polemica contro la speculazione, che si trova sia nella sinistra che nella destra, attribuisce tutti i mali del mondo non ad una struttura sociale, ma ad un gruppo ristretto di persone motivate dall'avidità e dal desiderio di potere. Gli operai e gli onesti investitori devono essere difesi dai parassiti della finanza: questo appello sembra aver generato un consenso che arriva fino a Barack Obama, George Soros e Mario Draghi.
Tale posizione è di gran lunga lontana dalla comprensione della connessione tra lavoro astratto e valore, tra merce e denaro, tra capitale e salario, che rappresenta la peculiarità del capitalismo ed è la causa degli sconvolgimenti attuali.
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L’area della rivoluzione nell’Italia degli anni Settanta
di Diego Giachetti
Il biennio ‘68-69 liberò una nuova e potenziale domanda di partecipazione politica connotata però da una critica radicale degli istituti della politica tradizionale, in primo luogo partiti e sindacati. Si creò una situazione caratterizzata da diversi elementi contraddittori e conflittuali. Da un lato mai come allora si manifestò una discrepanza fra l’offerta politica e la domanda di centinaia, forse migliaia di quadri prodotti dal movimento, domanda alla quale corrispondeva: «una dissennata politica di chiusura “a riccio” da parte delle organizzazioni politiche istituzionali della sinistra […] Così mille e mille “piccoli Lenin” si trovarono chiuso ogni sbocco, sia politico che professionale. La FGCI, tradizionale serbatoio e luogo di promozione dei nuovi quadri del PCI, si trovò ridotta (letteralmente) ai figli dei dirigenti del PCI proprio negli anni della massima produzione di quadri giovanili da parte del movimento»1. Non solo la sinistra istituzionale si chiuse a riccio nei confronti del movimento e delle sue istanze politiche, ma procedette all’emarginazione di quei quadri giovani simpatizzanti del movimento, all’espulsione di una serie di quadri giovanili comunisti in odore di trotskismo alla vigilia del ’68 e, infine, alla radiazione del gruppo che faceva capo alla rivista Il Manifesto. D’altro canto però quella domanda politica, proprio alla luce della critica profonda alla quale il movimento aveva sottoposto la politica stessa, difficilmente avrebbe potuto incanalarsi negli istituti partitici e sindacali tradizionali.
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L’Altro Lacan. Dalla struttura alla scrittura
di Pietro Bianchi
[È uscita da poco la traduzione italiana degli Altri scritti di Jacques Lacan (testi riuniti da Jacques-Alain Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, pp. 624, € 34,00)]
Freud l’aveva definita una talking cure, e forse è per questo che la psicoanalisi ha sempre avuto una relazione così difficile con la parola scritta. Questo fatto è ancora più evidente quando si parla di Lacan che infatti scrisse relativamente poco durante la sua vita. Non è un caso che solitamente si identifichi lo psicoanalista francese con un seminario più che con un corpus di opere vere e proprie; o che i suoi articoli siano per lo più sbobinature di conferenze, testi pensati per presentazioni orali, o appunti di interventi; e che persino i suoi allievi ancora oggi si riferiscano alla sua esperienza intellettuale chiamandola insegnamento, sottolineandone l’aspetto orale e di formazione degli allievi. E infatti l’unica vera pubblicazione della sua vita, quella che diede una svolta alla sua fama intellettuale – il volume appunto degli Scritti, pubblicato da Seuil nel 1966 – fu reso possibile dalla volontà e dalla perseveranza di un esterno: François Wahl, che riuscì a convincere Lacan con mille sforzi della bontà del progetto. In particolare Wahl riuscì a persuaderlo del fatto che avrebbe avuto bisogno di un proprio “libro” per potersi elevare alla dignità di intellettuale pubblico. Per essere finalmente legittimato come un grande pensatore del proprio tempo.
La storia diede ragione a Wahl, e infatti gli Scritti del 1966 segnarono il definitivo successo pubblico di Jacques Lacan.
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Teoria critica della società?
Critica dell’economia politica. Adorno, Backhaus, Marx
Tommaso Redolfi Riva
Abstract: The aim of this paper is to show that Marx’s analysis of the form of value can give foundation to the main concepts of Adorno critical theory of society. The concept of society as objective totality, developed by Adorno in his sociological writings, finds its own core in the concept of exchange understood as real abstraction. In the reflection of Adorno, the notion of real abstraction, taken from Alfred Sohn-Rethel, remains undetermined, and the task of showing the genesis of the social objectivity remains at the stage of a project.Marx’s critique of political economy, understood at the light of the analysis of the form of value developed by Backhaus and the Neue Marx-Lektüre, is able to achieve the task Adorno assigns to critical theory, that is, to show the “anamnesis of the genesis” of the autonomization of the society.
0. L’intento delle pagine seguenti è quello di mostrare come il Marx teorico della forma di valore sia in grado di approfondire e portare a fondamento i concetti centrali della teoria critica di Adorno. Nei primi paragrafi (§§ 1-3) farò vedere che i temi essenziali della sociologia critica di Adorno, in particolare il tema dell’oggettività sociale e dell’autonomizzazione della società, trovano il proprio centro esplicativo nel concetto di scambio quale astrazione reale. Mostrerò poi che tale concetto rimane sostanzialmente indeterminato e privo di una precisa fondazione teorica nell’opera di Adorno. Nei paragrafi successivi (§§ 4-6) cercherò di mostrare che una fondazione dello scambio quale astrazione reale può essere guadagnata con l’analisi della forma di valore sviluppata dalla Neue Marx-Lektüre e in particolare da Hans-Georg Backhaus attraverso un’attenta lettura della critica dell’economia politica di Marx [1].
1. Nella Dialettica negativa, l’excursus su Hegel ha per titolo Spirito del mondo e storia naturale. Quello che appare come un dualismo tra la progressiva umanizzazione del mondo – quindi realizzazione della libertà, storia – e la cieca necessità della natura, ben presto si dà a vedere come una prosecuzione della natura all’interno della storia, come una continuazione dell’eteronomia nella sfera della vita storica: “la storia umana, il progressivo dominio sulla natura, prosegue quella inconsapevole della natura”[2].
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Le quattro vecchie fallacie della nuova Grande Depressione
di Robert Skidelsky
Il periodo iniziato nel 2008 ha prodotto un’abbondante raccolta di fallacie economiche riciclate, soprattutto sulle labbra dei leader politici. Ecco le mie quattro preferite.
1) La casalinga sveva. “Si dovrebbe semplicemente chiedere alla casalinga sveva”, ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel dopo il crollo di Lehman Brothers nel 2008. “Lei ci avrebbe detto che non si può vivere oltre i propri mezzi”
Questa logica apparentemente sensata è la base dell’austerità. Il problema è che ignora l’effetto della parsimonia della casalinga sulla domanda totale. Se tutte le famiglie frenano le loro spese, il consumo totale cade e lo stesso accade per la domanda di lavoro [da parte delle imprese, ndr]. Se il marito della casalinga perde il lavoro, la famiglia starà peggio di prima.
Il caso generale di questa fallacia è la “fallacia di composizione”: ciò che ha senso per ogni famiglia o impresa individuale non necessariamente è bene in aggregato.
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Lenin, Gerico e i Pink Floyd
di Roberto Sidoli
Fin dal luglio del 1917, durante il sesto congresso di quell’eccezionale partito bolscevico guidato da Lenin – un congresso decisivo, che preparò l’imminente ed epocale Rivoluzione Socialista d’Ottobre – venne sottolineata pubblicamente la distinzione profonda esistente tra il marxismo creativo e il marxismo dogmatico: il secondo anche teorizzato e difeso ad oltranza dalla successiva teoria dell’invarianza, secondo la quale il marxismo doveva assolutamente rimanere nel corso del tempo una sorta di dogma immutabile, al pari dei Veda indiani o del Talmud.
I relatori e l’organizzatore di quest’incontro, il Centro culturale Concetto Marchesi (che ringrazio anche a nome di Daniele Burgio e Massimo Leoni, coautori di questa relazione) hanno scelto la via difficile ma proficua del marxismo creativo, capace di avviare un processo di sviluppo e di arricchimento del suo già gigantesco bagaglio di conoscenze proprio confrontandosi con le novità esplosive offerte, dopo il 1883 e la morte del geniale Karl Marx, dalla dinamica storica su scala planetaria nei suoi diversi aspetti, a partire da quello tecnologico-scientifico, di importanza sempre crescente.
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In memoria di Preve
di Diego Fusaro
È scomparso il 23 novembre il filosofo Costanzo Preve. La sua notorietà era inversamente proporzionale alla sua statura intellettuale. Pochi (o comunque non abbastanza), anche tra gli addetti ai lavori, conoscevano il suo nome, il suo pensiero, le sue numerosissime opere. Dopo aver studiato in Francia sotto la guida di Hyppolite, Preve ha vissuto a Torino: città alle cui logiche si è sempre sentito estraneo, vivendo, di fatto, come uno straniero in patria.
La città, probabilmente, non tributerà il degno ricordo al filosofo. Ed è anche per questo che ho deciso di ricordarlo io in questa sede. È per me un dovere, anche se mi costa molta sofferenza. È un dovere perché Costanzo è stato il mio maestro a Torino e perché vi era una profonda amicizia che mi legava a lui fin dal 2007. Non è facile parlarne, come sempre accade quando scompare una persona a noi vicina, a cui volevamo autenticamente bene. Con Costanzo, se ne va anche un pezzo – e non secondario – della mia vita e del mio legame con la città di Torino.
Ricordo quando lo conobbi: in una gelida serata del gennaio del 2007, al bar Trianon, in piazza Vittorio. Si trattava di una serata filosofica dedicata alla presentazione del libro di Giuseppe Bailone, Viaggio nella filosofia europea. Conoscevo già Preve, sia pure indirettamente: avevo letto alcuni suoi lavori su Marx, l’autore a cui Preve ha dedicato la sua vita e di cui si può con diritto riconoscere tra i massimi esperti a livello internazionale.
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