Sul “marxismo” di Gramsci
di Fabio Frosini
1. L’albero del marxismo
Il marxismo di Gramsci: in questa espressione si annida un’intera serie di questioni aperte, fonti di equivoci e di dispute. Gli equivoci in realtà scaturiscono da una duplice sorgente, vale a dire la nozione di “marxismo” e quella di “affiliazione” o “appartenenza”. Anche solo pochi decenni fa ‒ lo spartiacque può essere fissato per comodità, almeno in Italia, al giro di boa del centenario del 1983 ‒ entrambe queste sorgenti sembravano essere per un verso troppo calda materia del contendere, per un altro scenari illuminati di una luce eccessivamente viva e ravvicinata, perché se ne potessero cogliere la profondità e i contorni, cioè le implicazioni e i limiti. Oggi tutto ciò è possibile: la materia si è raffreddata ed è stata “sistemata” in grandi opere collettive, che hanno comportato anche una certa riflessione su cosa comporti scrivere una storia del marxismo. Le pagine da questo punto di vista più interessanti sono probabilmente quelle premesse da Eric J. Hobsbawm alla monumentale Storia del marxismo da lui diretta per Einaudi, e datate 1978. Per l’interesse metodologico che esse presentano, sarà il caso di ripercorrerne rapidamente l’intelaiatura.
La definizione di «marxismo» inizialmente proposta è: «la scuola teorica che nella storia del mondo moderno ha avuto maggiore influenza pratica (e le più profonde radici pratiche), [...] al tempo stesso un metodo per interpretare il mondo e per cambiarlo»[1].
Dunque, se non è possibile una storia del marxismo come movimento puramente intellettuale, esiste però una dimensione metodologica che giustifica la possibilità di identificare un nucleo unitario, un nucleo che si sviluppa («la storia del marxismo non può considerarsi conclusa»[2]), attrezzandosi per la «soluzione di problemi attuali»[3], ma che gode pur tuttavia di una
Le presupposizioni non ovvie, né evidenti, presenti in queste poche righe, sono troppe, perché sia possibile darne un elenco dettagliato. Mi limiterò perciò a osservare che la problematicità di questo passaggio deriva non solo dal fatto che esso deve sforzarsi di esprimere un punto di vista condivisibile da un intero gruppo di studiosi (si tratta di «una versione lievemente modificata del memorandum distribuito ai collaboratori della Storia del marxismo»[5]), ma anche da ciò, che esso progetta una riflessione su un corpus vivente, in movimento e soprattutto percorso da diversità e conflitti, di cui si tiene ferma la singolarità, mentre si è spinti a riconoscerne la pluralità. Per esprimere ciò, Hobsbawm si serve della formula togliattiana della «unità nella diversità», che nel cosiddetto Memoriale di Yalta giungeva come un estremo tentativo di conservare l’unità di intenti in un campo comunista internazionale già ampiamente diviso dal «nazionalismo rinascente»[6]. Si trattava, in Togliatti, di un’unità complessa, che presupponeva la messa in chiaro delle fonti reali di divisione, la libertà piena di discussione e la volontà di ritrovare le ragioni dell’unità.
Anche in Hobsbawm questa formula sembra essere il tentativo di ritrovare le ragioni di un’unità, dinnanzi a una frantumazione pienamente in corso da (nel momento in cui quelle righe venivano scritte) almeno due decenni[7]. Diversamente stanno però le cose per l’ancoraggio al «corpo teorico elaborato da Marx», a cui poi si aggiunge Engels (da Hobsbawm abbandonato già all’altezza del 1982, quando introduce con un importante saggio su “Il marxismo oggi: un bilancio aperto” l’ultimo volume della Storia del marxismo[8] ‒ e che appare oggi poco meno di una petizione di principio. Infatti la consistenza di quel «corpo teorico», la sua formazione, i suoi limiti, la sua natura, e insomma il suo significato, sono precisamente l’oggetto di un’opera di selezione, ricostruzione, interpretazione, avviata dallo stesso Engels e mai interrotta in seguito. Di conseguenza, qualsiasi riferimento a essa come radice unitaria dell’albero marxista mette a tacere l’interrogazione sul modo in cui il “tronco” storico-politico del marxismo “organizzato” ha per così dire costruito retroattivamente le sue proprie “radici”.
2. Teoria e politica di massa
Queste sono però considerazioni che dalla prospettiva odierna è fin troppo facile fare, e che non escludono, si badi, la validità politica delle considerazioni di Hobsbawm, non solo limitatamente a quella fase, ma in qualsiasi altra condizione simile. Semplicemente, ne fanno rilevare l’inconsistenza logica. Quest’ultima considerazione ci conduce però, o almeno ci può condurre ‒ e questo è per me il punto essenziale ‒ a saggiare la praticabilità di un diverso terreno di approccio metodologico alla “storia del marxismo”, che si può riassumere nella seguente alternativa: o si assume la circolarità tra unità e pluralità del marxismo, cioè tra il corpo teorico e la sua dimensione storico-politica, nei termini della circolarità ermeneutica; o in alternativa sarà necessario fare, da marxisti (qualsiasi cosa ciò voglia dire), una riflessione sul rapporto tra “teoria marxista” e “movimento operaio” (e ciò che ne segue oggi nel mondo) come essenziale per identificare la peculiare natura del marxismo stesso.
Nel primo caso si potranno avere delle più o meno eleganti variazioni sul tema della critica del fondamento, un argomento che occupa le menti di tanti intellettuali nelle accademie euro-americane, compresi coloro i quali dichiarano di prendere parte per i “subalterni”. Nel secondo, si metterà in evidenza un fatto tanto elementare da essere quasi invisibile: che il marxismo non può sopravvivere a lungo, se si riduce a un circuito accademico o comunque a un movimento di intellettuali come gli altri[9]. In questo secondo caso, e solo in questo, la distanza tra validità politica e inconsistenza logica nel discorso di Hobsbawm[10] acquisirà i tratti di una tensione necessaria alla vita concreta di un organismo che non è solo teorico ma vive del e nel nesso tra elaborazione scientifica e prassi collettiva. La questione si sposta, e può essere così formulata: teoria (“radici”) e politica-storia (“tronco” e “rami”) non si contraddicono, nel marxismo, ma si implicano, a condizione di assumerli non come un fatto imbarazzante, un limite di una teoria incapace di attingere coerenza e completezza, ma come il punto di osservazione, solamente assumendo il quale la peculiarità del marxismo diventa comprensibile[11].
L’unità teorica e la diversità politico-storica, del resto, si implicano reciprocamente. Di fatto, è stata la potenza organizzativa del marxismo, il suo vivere dentro la politica, ciò che ‒ come si è notato più sopra ‒ ha potuto retroattivamente produrre, a prezzo di dolorose semplificazioni, un’unità di origine, sul piano del corpus testuale e della sua lettura “ortodossa”. Ciò spinge a dire che le ortodossie marxiste della seconda e della terza Internazionale sono dei fatti, la cui importanza è anche teorica[12]. Esse mostrano infatti come una certa verità sia stata costruita e al contempo naturalizzata, dato che solo una naturalizzazione dell’intervento retroattivo veniva pensata come compatibile con l’unità di intenti sul piano politico-organizzativo, esattamente come nella storia del cristianesimo organizzato in chiesa. Il conflitto tra l’ortodossia delle due internazionali si è aggirato infatti non solamente sul modo di interpretare Marx ed Engels, o di costruire delle genealogie (con il marxismo-leninismo), ma anche ‒ e questo qui conta ‒ sullo stabilimento del corpus testuale originario: la primissima idea della MEGA, non lo si dimentichi, nasce nel febbraio del 1921 (quando l’URSS non era ancora ufficialmente nata) per decisione di Lenin[13]. C’è insomma, nella storia del marxismo (in quanto questo non si limiti a teoria di gruppi di intellettuali), una tensione incoercibile tra unità e diversità, che è anche una tensione tra la compattezza ideologica e la scepsi critica. Questa tensione è incoercibile: non può essere estirpata ed è destinata a riproporsi in ogni momento, nel quale la “teoria” incontrerà la “politica” di massa. Il marxismo è insomma stato, e non poteva non essere, un organismo funzionante al modo delle chiese organizzate. Che tutto ciò sia dovuto accadere non è qui in questione. In questione è piuttosto il come ciò sia accaduto e avrebbe potuto diversamente accadere.
3. Il circuito ideologia/verità e la duplice funzione dell’ideologia
Se il marxismo storico ha funzionato come una chiesa, esso ha poggiato su di una “concezione del mondo”. Le due cose non possono essere separate: l’ortodossia non verte su questioni di dettaglio, ma articola molti elementi in una visione d’insieme di trasformazione globale della società. Si potrà trovare antiquata questa categoria di Lebens - und Weltanschauung, ma il discorso andrebbe ribaltato, osservando che il radicamento della filosofia in una più ampia e complessiva concezione della vita e del mondo è precisamente ciò che denota l’originalità del marxismo, il cui obiettivo non può essere confinato entro le aule dell’università, dato che esso, come ogni altra “religione”, mira a trasformare il mondo.
Anzi, la critica marxista della filosofia comprende proprio la “riduzione” delle filosofie a delle “concezioni del mondo”, cioè a ideologie, la cui a volte estrema “raffinatezza concettuale” rappresenta spesso la parte individuale e caduca della concezione del mondo, che ‒ quando c’è ‒ rimane legata all’interpretazione e alla soluzione (sempre da un punto di vista particolare) di questioni riguardanti i più ampi gruppi umani, cioè l’“umanità” che eccede la comunità degli studiosi (altrimenti, non di filosofia si tratta, ma di una tecnica o di una scienza, ovvero di una semplice esercitazione di scuola e di gergo, priva di contenuto rilevante)[14].
Ma dicendo che il marxismo è una concezione del mondo, non si è individuata che una metà del problema. L’aspirazione a “fare presa” sulla vita nella sua interezza, estensiva e intensiva, accomuna il marxismo alle concezioni del mondo, ma in cosa esso si differenzia da esse? Nel fatto che il marxismo, a differenza di qualsiasi altra concezione del mondo, comprende in sé non solamente la spinta all’universalizzazione pratica, ma anche la spiegazione concettuale di questa spinta: di come essa nasca e di quale sia il meccanismo, grazie al quale essa può diffondersi. Di conseguenza, la forza del marxismo si misura dalla sua capacità di applicare a sé stesso i criteri di critica che esso dirige alle altre concezioni del mondo[15].
Se pertanto la teoria dell’ideologia è la spiegazione concettuale della spinta pratica all’universalizzazione, essa servirà alla riduzione delle filosofie a concezioni del mondo, ivi compreso anche il marxismo. Solo a patto di intendere l’ideologia come non solamente ciò che marca il limite dell’universalità del sapere (di ogni sapere), ma anche come l’indice della potenza pratica del sapere stesso, sarà possibile operare questo scambio tra “osservatore” e “osservato”, evitando di cadere nel paradosso «di un osservatore che pretende di stare fuori dell’osservazione senza essere egli stesso sottoponibile ad osservazione»[16].
La necessità di rendere possibile questo scambio, e quindi la teoria dell’ideologia, ha costituito nella storia del marxismo il punto di più difficile comprensione, per cui si è assistito all’oscillazione tra l’idea che il marxismo dovesse porsi, «con semplicità, come scienza»[17], o, tutto al contrario, che fosse una «scienza di classe, di una classe», una “scienza” il cui compito consisteva nell’elaborazione di un «pensiero operaio» già esistente[18]. Questa oscillazione è in realtà presente già in Marx che, per un verso parla di sé come economista, e per un altro si ostina a titolare o sottotitolare le proprie opere con il termine «critica». In questo concetto, che attraversa l’intera opera di Marx[19] senza mai perdere di protagonismo, e che non può essere letto come un mero residuo “giovane hegeliano”, è come il contrassegno dell’irriducibilità di questa impresa teorica a mera teoria, senza pertanto che essa sia per altro verso riducibile ad agitazione politica. Tutto ciò non sempre è trasparente allo stesso Marx, ma non viene mai meno, come testimonia la riemersione di un’interpretazione spiccatamente politico-polemica della dialettica a ridosso della Comune parigina[20].
Questa motivazione politico-pratica non è qualcosa di estrinseco rispetto alla teoria, che godrebbe pertanto di una sua completa autonomia, sia pure legandosi alla pratica, come accade in Aristotele o, in modo diverso, in Kant. La “critica” designa al contrario il fatto che ogni autonomia della conoscenza scientifica è resa impossibile, perché la conoscenza scientifica consiste precisamente nel mostrare il modo in cui le categorie “oggettive” dell’economia sono sempre attraversate dai rapporti di forze politici (che d’altra parte Marx formuli anche una critica della politica e del diritto, in quanto forme limitate e mere portatrici di interessi economici, per cui da un lato ritrova il carattere politico dell’economia, dall’altro riduce la politica all’economia, fa parte del problema e non ne è la soluzione)[21]. Parzialità dei concetti e globalità delle visioni del mondo si riflettono l’una nell’altra, dato che la critica di un concetto, di una categoria ne mostra non solamente la falsità e parzialità rispetto alla pretesa neutralità e universalità del sapere; ma al contempo, in quanto ne mette in mostra il contenuto ideologico, ne illumina la specifica potenza, la capacità di organizzare la realtà, di formarla attivamente e insomma di intervenire in essa come una potenza politica. Da questo punto di vista, dalla Misère de la philosophie al Capitale non vi sono differenze apprezzabili[22].
La “critica” riduce il sapere a una forma di politica, e sposta il conflitto dalla pura scienza, con la sua pretesa obbiettività “teorica” ecc., al confronto tra le visioni del mondo complessive, in cui la questione dell’obbiettività non si perde, né diviene una mera questione di “punto di vista di classe”, ma risulta radicalmente storicizzata (restituita cioè alla dinamica reale delle forze sociali)[23]. Come tale, il marxismo è cresciuto, con enormi limiti e mancanze[24]. Ma è cresciuto, tra XIX e XX secolo, precisamente riuscendo a sfidare il mondo borghese sul terreno globale, della civiltà[25].
4. Traducibilità dei linguaggi, immanenza, religione
Si può dire che Gramsci è stato un marxista? No, se per marxismo s’intende una qualsiasi delle tante versioni che hanno perso di vista il crinale di filosofia e politica. In questi opposti casi (più sopra esemplificati nel Tronti “dellavolpiano” nel 1958 e “operaista” nel 1966, ma ciascuno può completare il catalogo per proprio conto) si assiste alla fissazione di una determinata dottrina come costitutiva della “ortodossia”, e si misura di conseguenza l’appartenenza di Gramsci (o di chiunque altro) a questa dottrina. Nulla di più facile, nulla di più arbitrario e in fondo anche nulla di più simile alle secolari dispute di scuola, a volta rese drammatiche dalla presenza di corpose implicazioni politiche[26], ma più spesso simili alle “terribili” dispute tra Bruno Bauer e soci. Gramsci è invece stato un marxista, se del marxismo si assume pienamente (come fa Hobsbawm) la sfida rappresentata dalla polarità tra «verschieden interpretiert» e «verändern», da Marx scolpita nell’undicesima glossa ad Feuerbach e da lui annodata con un apparentemente inoffensivo «es kömmt drauf an», «si tratta di»[27].
Il marxismo di Gramsci è qui: egli ha saputo collocare la propria riflessione esattamente su questo crinale, all’intersezione di politica e filosofia, facendo dell’unificazione di teoria e pratica il compito per il quale il marxismo è sorto e che ne identifica la natura più profonda. Egli ha anche elaborato, nella nozione di traducibilità dei linguaggi, lo strumentario logico che permette di intendere la specifica posizione della teoria e della pratica nel loro riflettersi reciproco l’una nell’altra (il valore pratico della teoria e quello teorico della pratica). L’insieme di queste due tesi ‒ unità di teoria e pratica e traducibilità dei linguaggi ‒ costituisce il suo marxismo, non solo: è l’intervento più acuto che lo stesso marxismo abbia prodotto per essere all’altezza del proprio compito, se questo deve essere la trasformazione globale del mondo[28].
La definizione probabilmente più compiuta di cosa esattamente intenda con “traducibilità dei linguaggi”[29], Gramsci la dà nel seguente passo del Quaderno 10:
Nella misura in cui non sono elucubrazioni intellettuali, ma intervengono su problemi concreti (politicamente concreti), le filosofie tradizionali possono essere tradotte (ridotte)[31] criticamente in rapporti di conoscenza reali, cioè efficaci sul senso comune, cioè infine possono essere intese come «elemento di “egemonia” politica». Ciò accade naturalmente tenendo in conto la specificità dei livelli sui quali tutto ciò accade:
La filosofia intesa in senso tecnico acquisisce il suo significato autentico non in quanto si separa dal senso comune, ma in quanto, separandosene, riesce a rimanere partecipe dei problemi che il senso comune pone, e che sono le questioni vitali (sia pure formulate malamente e in modo incoerente) che attraversano una determinata epoca[33]. Solo in questo modo il filosofo è pienamente tale: perché riesce a formulare in un linguaggio che è astratto e rigoroso – ma è anche tendenzialmente “gergale” e segregante (di scuola)[34] – le questioni che interessano tutti, in un determinato ambiente (che può essere nazionale o, come nel caso di Croce, continentale). Naturalmente, il punto di vista da cui tale formulazione viene realizzata è quello delle classi dirigenti, in un senso ampio sia socialmente sia territorialmente. Di conseguenza l’efficacia della filosofia professionale di un’epoca storica consisterà nella somma di modificazioni del senso comune che essa sarà riuscita a conseguire in vista della formazione o del consolidamento di una determinata egemonia. È su questo piano di ragionamento che la distinzione tra “filosofia” e “storia” perde la sua rigidezza, e le distinzioni si convertono in momenti di differenziazione analitica all’interno di un continuum reale:
Questa concezione realistica della filosofia, si badi, non equivale a uno storicismo ingenuo, perché è resa possibile da una parte teorica, che è data appunto dalla traducibilità dei linguaggi. È questa che rende possibile comparare tra loro le differenti «spinte» nazionali, che «quasi sempre riguardano determinate attività culturali o gruppi di problemi»[36]. Ma questa comparazione era stata impostata proprio da Hegel, quando aveva assegnato a francesi e tedeschi «per opposti che siano tra loro, anzi appunto perché opposti», la titolarità dello Spirito del mondo[37].
Più tardi, nel Quaderno 10, Gramsci scrive:
Queste righe sono state scritte nel maggio del 1932. Leggendole, si capisce anche perché Gramsci ribadisca, pochi mesi dopo, che «la Miseria della Filosofia è un momento essenziale nella formazione della filosofia della praxis; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach»[40]: appunto perché nella Miseria Gramsci ritrova la presenza esplicita di Ricardo come correttivo realistico dell’identificazione speculativa di teoria e pratica realizzata da Hegel grazie all’equiparazione di Francia e Germania.
La teoria della traducibilità dei linguaggi è dunque il lascito teorico maggiore della filosofia classica tedesca e dell’economia inglese: due distinti elementi che si ritrovano, rielaborati, nelle Tesi su Feuerbach, che ne sono la “somma” o, più precisamente, la sintesi: il “pensare insieme” l’unità di teoria e pratica (Hegel) e, rispettivamente, il carattere pratico, mondano, profano, in una parola “immanente” della verità (Ricardo), ossia una concezione dell’unità di teoria e pratica che non viene pensata a partire dalla teoria, ma come questione essa stessa pratica, cioè storica e politica. L’originalità filosofica del marxismo sta insomma nell’aver riletto la «traducibilità dei linguaggi» (Hegel) in modo realistico (non speculativo), grazie alla «immanenza storicistica o realistica» (Ricardo), producendo così una nuova concezione filosofica, che, strutturalmente, sarà una politica, un’egemonia. Di qui discende la lettura che Gramsci dà dell’undicesima glossa a Feuerbach: «come rivendicazione di unità tra teoria e pratica, e quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del mondo con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della filosofia fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una “terrestrità assoluta”»[41].
Gramsci si riferisce alla riduzione della filosofia a religione nel significato di «una concezione della realtà e [...] un’etica conforme», prescindendo «dall’elemento mitologico, per quale solo secondariamente le religioni si differenziano dalle filosofie», realizzata da Croce nella Storia d’Europa[42], ma già presente nel saggio su “Storia economico-politica e storia etico-politica” da lui pubblicato nel 1924[43]. È significativo il fatto che questa equiparazione si accompagna in Croce alla sempre più avvertita necessità di lottare Contro le sopravvivenze del materialismo storico, come recita il titolo di un suo opuscolo anch’esso del 1924, posseduto da Gramsci prima dell’arresto[44]. In questa concomitanza Gramsci fissa l’importanza dell’elaborazione più recente del filosofo abruzzese, che gli appare tutta svolta in previsione di «una rivalutazione trionfale del materialismo storico [...] Egli ‒ prosegue Gramsci ‒ resiste con tutte le sue forze a questa pressione della realtà storica, con una intelligenza eccezionale dei pericoli e dei mezzi dialettici di ovviarli. Perciò lo studio dei suoi scritti dal 19 ad oggi è del maggior valore»[45].
Non casualmente, se da un lato Croce “forza” la struttura dei distinti coniando questo nuovo concetto di “religione/filosofia”, dall’altra mantiene ferma la sua interpretazione delle Tesi su Feuerbach come presa di congedo da ogni filosofia e passaggio all’agitazione e propaganda politica. Il marxismo, insomma, non poteva essere un movimento di pensiero, perché era una corrente politica, come tale «inconfutabile perché non maschera ma realtà, non pensiero ma azione»[46]. L’importanza che Gramsci gli assegna nasce dalla posizione che Croce riesce a occupare: il più possibile mimetica di quella marxista autentica, in modo da impedire la sua riammissione (dopo la conclusione dell’esperienza di Labriola, oculatamente gestita dallo stesso Croce) nel circuito della discussione culturale[47], e in modo da poter sfigurare la posizione marxista in filosofia, egemonizzandola da una prospettiva borghese.
5. Ideologia, egemonia, metafisica
Quest’ultima osservazione, relativa alla “guerra di posizione” condotta da Croce contro il marxismo, rinvia a uno sfondo più generale, che discende però anch’esso dalla concezione gramsciana del marxismo come tentativo di unificare filosofia e politica. Per intendere questo sfondo, il punto di partenza deve essere il seguente passaggio, tratto dal Quaderno 4: «Perché il marxismo ha avuto questa sorte, di apparire assimilabile, in alcuni suoi elementi, tanto agli idealisti che ai materialisti volgari? Bisognerebbe ricercare i documenti di questa affermazione, ciò che significa fare la storia della cultura moderna dopo Marx e Engels»[48].
Rovesciando completamente il proprio approccio giovanile, quando era prevalso un «uso estremamente libero degli scritti di Marx»[49], e all’integrazione positivistica di Marx, perpetrata dal socialismo italiano, Gramsci ne aveva opposta una, simmetrica, con l’idealismo e con Bergson, ora egli riconosce nell’intera «cultura moderna» una variegata serie di successivi “assorbimenti” del marxismo nelle forme consuete della cultura, assorbimento realizzato mediante la decomposizione in momenti opposti, materialismo e idealismo, di ciò che in Marx si ritrovava unito.
Tali assorbimenti sono pertanto tutto, tranne che una stanca genealogia di concetti: sono operazioni politiche destinate a sottrarre di nuovo alle classi popolari[50] la capacità, presente nel marxismo, di attaccare la grande questione della «differenza intellettuale», cioè dell’intreccio tra conoscenza (verità) e potere (politica) inscritto nell’organizzazione materiale della cultura e dello Stato[51]. «Lo studio del Sorel ‒ scrive Gramsci ‒ può dare molti indizi a questo proposito. Bisognerebbe però studiare specialmente la filosofia del Bergson e il pragmatismo per vedere in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico del marxismo; così per il Croce e Gentile ecc.»[52]. E, poco più avanti, Gramsci riafferma contro Croce il legame del concetto di sovrastruttura/ideologia[53] con la realtà e con la verità. Le ideologie, scrive, sono reali e veicolo alla verità non in sé stesse, ma nella concreta funzione conoscitiva e politica che intrattengono con le diverse forze sociali. La verità non è il neutro rispecchiamento di un oggetto, ma la tendenza inscritta in un movimento reale, la costituzione di uno specifico intreccio tra cultura e Stato[54].
Da questo punto di vista, Sorel e Croce rappresentano due revisioni speculari della nozione marxiana di ideologia. Nel primo si deposita il valore mobilitante e pratico, costruttivo, dell’ideologia, mentre il secondo ne esalta la funzione critico-distruttiva, di separazione rispetto alla sfera della verità[55]. Scrive infatti Gramsci, dopo aver criticato la riduzione crociana dell’ideologia a mera finzione: «Questo argomento del valore concreto delle superstrutture in Marx dovrebbe essere bene studiato. Ricordare il concetto di Sorel del “blocco storico”»[56]. Come ha ben visto Valentino Gerratana annotando questo testo, la nozione di «blocco storico» rinvia a quella di «mito»[57]. Prescindendo dal non chiaro riferimento letterale[58], è il modo stesso in cui Gramsci legge Sorel, che giustifica il nesso tra il concetto di mito e il «valore gnoseologico» delle superstrutture in Marx[59]; e che spiega anche perché Gramsci, poco più avanti, nel § 38 del Quaderno 4, colleghi a questo ragionamento anche il «concetto di egemonia» elaborato da Lenin[60], perché l’elaborazione «del concetto e del fatto di egemonia, dovuto a Ilici»[61] è un prolungamento, dentro e non fuori del marxismo, degli effetti costruttivi del concetto marxiano di ideologia.
«Il curioso antigiacobinismo del Sorel, settario, meschino, antistorico» (ma spiegabile storicamente con l’esperienza della guerra franco-prussiana e della Comune)[62], lo conduce all’ideologia dello spontaneismo; ma il suo approccio alla questione della lotta politica come affermazione di «una regola di vita originale e un sistema di rapporti assolutamente nuovi» testimoniava per Gramsci di un momento di elaborazione ulteriore, anche se parziale, del pensiero di Marx[63]. È per questa ragione che nei Quaderni il pensiero di Sorel viene riallacciato al concetto di egemonia, e il “mito” alla nozione di “ideologia”.
Nei Quaderni Gramsci matura dunque l’idea che le opposte riduzioni crociana e soreliana del concetto di ideologia trovano la loro composizione nella teoria e nella pratica dell’egemonia. I riferimenti di appoggio che Gramsci cerca in Marx mostrano certamente, nella loro estravaganza[64], il fatto che l’egemonia è una forte innovazione, anche se si tratta di un’innovazione che nel marxismo è stata a lungo cercata[65], perché in essa l’aporia dell’ideologia ‒ negazione teorica e affermazione pratica; testimone di una concezione assoluta e, rispettivamente, relativa della verità ‒ diventa per la prima volta pienamente pensabile. La teoria della traducibilità dei linguaggi rende possibile la decifrazione retrospettiva della cultura moderna come un variegato sistema di forme funzionali al riassorbimento del marxismo; ma allo stesso tempo mostra come il marxismo sia in esse presente, e come pertanto, proprio in quanto intendono controllarlo, quelle forme della cultura segnalino la presenza viva del marxismo nella storia delle masse, nella loro incoercibile tendenza a entrare nella politica. Esattamente come nel caso del rapporto tra ideologia e verità, non si tratta di separare il marxismo come tale dalle sue forme stravolte, ma di commisurare le deformazioni all’originale e viceversa, di ritrovare l’originale nelle sue deformazioni.
Il “luogo” in cui questo duplice passaggio è non astrattamente, ma concretamente possibile, come pratica di massa, è appunto l’egemonia. Ricordiamo il passo, già citato, del § 33 del Quaderno 7, in cui Gramsci accenna «all’importanza filosofica del concetto e del fatto di egemonia, dovuto a Ilici»[66]. Il rinvio riguardava in quel caso la necessità di spiegare «l’espressione che il proletariato tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca: come deve essere intesa – non voleva indicare Marx l’ufficio storico della sua filosofia divenuta teoria di una classe che sarebbe diventata Stato?»[67]. Il concetto e il fatto dell’egemonia (il fatto è essenziale per lo sviluppo del concetto: «per Ilici questo è realmente avvenuto in un territorio determinato») sono una “spiegazione” delle Tesi su Feuerbach, in cui la questione poteva essere posta in termini ancora solo teorici. A partire da ciò, il seguente passaggio del Quaderno 7 risulta finalmente chiaro:
La realtà del concetto “spirito” si definisce solamente attraverso l’unificazione contraddittoria, politica e culturale, del genere umano. Se metafisica è ogni affermazione di unità fatta prescindendo da questo passaggio, l’elaborazione teorica e pratica (in un luogo determinato) del metodo dell’egemonia segna una rottura nella storia della metafisica, o meglio nella storia metafisica della filosofia e della cultura in generale (dato che metafisico è un atteggiamento, non una dottrina particolare). L’egemonia presuppone infatti «che una massa di uomini sia condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente»[69], perché «la realizzazione di un apparato egemonico [...] crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza»[70].
La realizzazione di un apparato egemonico si colloca sullo stesso terreno della “metafisica”, perché riflette sulle condizioni dell’unità del genere umano. Ma lo fa in una maniera completamente nuova, identificando l’attività filosofica con la produzione politica concreta di quella unità:
Questa definizione del «filosofo “individuale”» nel marxismo non può che valere anzitutto autoriflessivamente: per chi l’ha coniata. Come «funzione di direzione politica» vanno pertanto letti i suoi quaderni carcerari, e insomma il suo marxismo.
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