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Cento volte Lenin
di Gianmarco Pisa
Il contributo di Lenin, nella storia del movimento operaio e democratico, in tutta la sua profondità e attualità
Movimenti democratici, lotte partigiane, resistenze antifasciste e antiautoritarie, lotte di liberazione dei popoli, scalate al cielo rivoluzionarie, tutte devono qualcosa a Lenin, ai contenuti dei suoi scritti, alle iniziative della sua direzione politica, alle realizzazioni dell’esperienza sovietica.
Tra i più grandi, se non il più grande, dei prosecutori e innovatori del pensiero dei fondatori, Karl Marx e Friedrich Engels, Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov: Simbirsk, 1870 – Gorki, Mosca, 1924) ha fornito un impulso formidabile, essenziale, allo sviluppo del marxismo e, in generale, del pensiero e della prassi del movimento operaio, e ha rappresentato un’ispirazione luminosa, prospettica, per generazioni di comunisti, partigiani, rivoluzionari, per l’oggi e per il domani, letteralmente ai quattro angoli del pianeta.
Organizzatore della frazione bolscevica in seno al marxismo russo; principale protagonista dell’Ottobre rosso, la vittoriosa rivoluzione d’Ottobre del 1917; capo del primo governo della Russia sovietica, il primo compiuto Stato socialista della storia, e poi, dal 1922, dell’Unione sovietica; teorico e costruttore della democrazia consiliare attraverso il sistema dei Soviet, della programmazione economica, della Nuova Politica Economica, delle grandi conquiste sociali da lui inaugurate e quindi proseguite dalla successiva direzione politica dell’Unione sovietica; e ancora, ispiratore della moderna teoria dell’imperialismo e teorico del moderno diritto dei popoli all’autodeterminazione, è impossibile sintetizzare grandezza e attualità del contributo di Lenin, sul piano politico e filosofico, alla storia e al pensiero del movimento operaio.
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La NATO guida il riarmo globale tra cyberwar e tecnologie quantistiche
di Antonio Mazzeo
Alea iacta est. Il dado è tratto. Ciò che disse Cesare prima di varcare il Rubicone e iniziare la guerra contro Pompeo, lo hanno ripetuto duemila anni dopo i Capi di Stato maggiore della difesa dei 31 paesi membri della NATO più la new entry di Svezia. Solo che stavolta sarà guerra totale e in ogni angolo del pianeta, prima contro Mosca e poi contro Pechino. E se sarà necessario, generali e ammiragli si dichiarano pronti a usare le più sofisticate tecnologie di distruzione di massa.
Il 17 e 18 febbraio i vertici delle forze armate dell’Alleanza si sono dati appuntamento a Bruxelles per il Military Committee NATO: all’ordine del giorno come accelerare il processo di trasformazione delle strategie e delle “capacità di combattimento” e come garantire l’implementazione immediata dei nuovi “piani di difesa” approvati al summit di Vilnius della scorsa estate. È in atto una spasmodica corsa verso il riarmo globale e la NATO si candida a divenire il motore della ricerca e dello sviluppo delle tecnologie di morte, possibilmente in partnership con le grandi holding del complesso militare-industriale e con un ampio numero di attori della società “civile” (università, centri di ricerca, start up, agenzie spaziali nazionali e internazionali, ecc.).
“Le regole su cui si basa l’ordine internazionale sono sotto un’immensa pressione”, ha esordito il vicesegretario generale della NATO, Mircea Geoană, all’apertura della sessione di lavoro del Military Committee dedicata alle “priorità della deterrenza”. Geoană è pure ricorso al minaccioso frasario dei tempi più bui della Guerra fredda, condendolo con suggestivi accenni geologici. “Le placche tettoniche del potere stanno cambiando”, ha enfatizzato il vicesegretario NATO.
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Adam Smith a Pechino
di Salvatore Bravo
Il comunismo nella formula cinese è nell’Occidente motivo di discussione. Non pochi comunisti ritengono che in Cina il montante capitalismo del dragone sia soltanto mera apparenza, in quanto lo Stato cinese usa e incentiva gli appetiti borghesi e capitalistici per sollecitare la produzione e risolvere la piaga della povertà. I risultati sono strabilianti, la Cina è oggi avviata a superare gli Stati Uniti nella produzione ed è concorrente temibile in campo tecnologico, funge da katechon all’onnipotenza a stelle e strisce.
Nel testo di Arrigo Giovanni Adam Smith a Pechino, l’autore dimostra che la via cinese al comunismo passa attraverso la formula smithiana. Adam Smith con la sua “La ricchezza delle nazioni” è spesso citato, ma nei fatti pochi sono i lettori del testo di Adam Smith. Due sono gli obiettivi che si desumono dal saggio di Arrigo: rimuovere i pregiudizi su Adam Smith e dimostrare come la via cinese verso il benessere collettivo passi attraverso il mercato efficacemente controllato e non certo dal pensiero marxista e marxiano.
Adam Smith non è stato il fautore dell’autoregolamentazione del mercato, ma dello Stato forte che regola il mercato. La Cina applica la formula smithiana inconsapevolmente. Il mercato in Cina è solo un mezzo, i capitalisti e la borghesia sono al servizio del benessere collettivo. Non vi sono monopoli, ma capitalisti in competizione, per cui la Cina comunista risulta essere più liberale nei principi degli Stati che si dichiarano baluardo del sistema liberale e liberista:
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Stati Uniti e Cina allo scontro globale
Epilogo
di Raffaele Sciortino
"Pubblichiamo il capitolo di aggiornamento al volume di Raffaele Sciortino "Stati Uniti e Cina allo scontro globale", redatto nello scorso settembre per l'edizione inglese del libro che uscirà per Brill il prossimo aprile."
Questo capitolo, che aggiungiamo alla traduzione dell’edizione originale uscita nell’ottobre del 2022, mira a dar conto sinteticamente delle principali novità (relative) che si sono date nell’ultimo anno. Ne risulta confermata, crediamo, la tendenza alla disconnessione US-Cina e alla riconfigurazione del mercato mondiale (in senso marxiano) ma ancora al di qua di quelle precipitazioni drammatiche che possono portare a una sua vera e propria frammentazione attraverso crisi economiche, sociali e geopolitiche senza ritorno. La globalizzazione, così, sempre meno vale come cornice data dell’accumulazione mondiale, e sempre più come terreno di aspra competizione che dal livello dei singoli capitali trascresce a quello tra stati nazionali nel quadro della contrapposizione di fondo tra Occidente imperialista e Cina.
Inizieremo dalla principale novità: il cambio di passo impresso da Washington alla strategia del decoupling anti-cinese, sullo sfondo delle crescenti difficoltà statunitensi e occidentali nello scenario di guerra ucraino. Ne rintracceremo i primi effetti evidenti sulla dinamica già ben delineata di rallentamento generale della globalizzazione. Concluderemo con alcune osservazioni sulla risposta cinese, che a fronte dell’acuirsi dello scontro con gli Stati Uniti sta mostrando una continuità di linea strategica, e sulle prospettive di un’economia mondiale segnata dall’incertezza ma non (ancora) in recessione generale. Il che contribuisce a dar corpo a quella che abbiamo definito una sfida “riformista” sui generis all’ordine internazionale egemonizzato da Washington.
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Rileggere oggi il “Manifesto contro il lavoro”
di Paolo Lago
Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di M. Maggini, prefazione di A. Jappe, postfazione di N. Trenkle, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 164, euro 16,00
È sicuramente un’esperienza interessante rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro (Manifest gegen die Arbeit) del Gruppo Krisis, uscito in Germania nel 1999 e tradotto per la prima volta in italiano nel 2003 per DeriveApprodi1. Come ci informa Massimo Maggini nell’introduzione di questa nuova edizione uscita per i tipi di Mimesis, il Manifest ebbe in Germania altre tre edizioni, la seconda già nel settembre del 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel 2019. Le teorie esposte nel Manifest appartengono alla corrente di pensiero chiamata Wertkritik, cioè “Critica del Valore”, secondo la quale la crisi che sta investendo il sistema del capitale è irreversibile ed è determinata proprio dalla crisi del lavoro, provocata a sua volta dalle varie ‘evoluzioni’ che esso stesso ha subito nel tentativo di aumentare e rendere migliori le sue applicazioni tecnico-scientifiche. Ciliegina sulla torta è stata la “rivoluzione micro-elettronica”, che ha espulso e reso inutili enorme masse di forza lavoro umana, ormai improduttive dal punto di vista della valorizzazione capitalistica. Naturalmente, come ricorda anche l’autore dell’introduzione, il lavoro che attaccano gli studiosi della “Critica del Valore” non è tanto l’operare umano in sé quanto invece quello che Marx definisce “lavoro astratto”, non finalizzato al benessere degli individui ma all’aumento del profitto e all’accumulazione monetaria in vista di nuovi investimenti.
Gli autori del Manifesto sono tre fra gli studiosi di spicco del Gruppo Krisis: Robert Kurz, Norbert Trenkle e Ernst Lohoff. La presente edizione2 ripropone, insieme al Manifesto, dei saggi significativi di questi studiosi (ai quali si aggiunge un saggio di Anselm Jappe) già presenti nella traduzione italiana del 2003.
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La resa dei conti
di Alberto Burgio
Nell'articolo di oggi, Alberto Burgio sviluppa i ragionamenti già espressi nel suo ultimo articolo «Salute al duce!». La reazione alle conquiste delle lotte operaie e del movimento operaio che si è sostanziata negli ultimi trenta/quaranta anni, arriva a compimento oggi con una radicalizzazione delle nuove logiche di dominio che si può comprendere come processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, ci dice l'autore. L'avanzata di Alternative für Deutschland in Germania e le riforme che sta portando avanti il governo Meloni sono, in tal senso, paradigmatiche.
* * * *
Approfitto dell’ospitalità di Machina per tornare sui temi trattati nell’intervento precedente e provare a svilupparli.
Chiarisco subito il punto: sono convinto che oggi in Italia (come in larga parte dell’Europa e dell’Occidente) sia in atto un processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, e che in questo processo giunga a compimento una fase (ultra quarantennale) di reazione organica alle conquiste che il movimento operaio e i movimenti anticoloniali avevano ottenuto nei «Trenta gloriosi» (sino alla metà degli anni Settanta).
Sul piano economico la reazione alle conquiste del movimento operaio e alle lotte anticoloniali nel trentennio post-bellico (conquiste salariali e politiche; in termini di diritti, indipendenza e influenza politica) si è basata (1) sulla mondializzazione del sistema di accumulazione, che ha disarmato il lavoro salariato e (2) sull’egemonia del capitale finanziario, che ha sradicato la sovranità economica degli Stati nazionali.
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La vergognosa strumentalizzazione del Giorno della Memoria
di Lorenzo Vagni
Il 27 gennaio 1945 è una data fondamentale, una ricorrenza che non va dimenticata e il cui significato è necessario tramandare alle nuove generazioni. Quello che è stato internazionalmente istituito come Giorno della Memoria commemora la liberazione da parte dell’Armata Rossa del campo di concentramento di Auschwitz, nei pressi della città polacca di Oświęcim, il cui complesso di campi di concentramento e di sterminio fu il più grande realizzato dalla Germania e in cui si stima persero la vita oltre un milione di persone. La celebrazione della giornata fu stabilita dalle Nazioni Unite nel 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della liberazione del campo, per commemorare le vittime dell’Olocausto, lo sterminio di due terzi della popolazione ebraica europea, oltre che di una serie di minoranze considerate inferiori dall’ideologia hitleriana.
Senza soffermarsi sugli eventi storici che portarono alla liberazione di Auschwitz da parte dei soldati sovietici, che segue cronologicamente la presa dei campi smantellati dai tedeschi di Majdanek, Chełmno, Bełżec, Sobibor e Treblinka, è necessaria una riflessione sul Giorno della Memoria e sul suo significato. La liberazione dei campi di concentramento e di sterminio rese possibile la scoperta degli orrori commessi nei lager nazisti, per lo più rimasti celati fino alla controffensiva sovietica e occultati dalle SS, che si affrettarono a distruggere quante più prove del genocidio non appena l’avanzata dell’URSS in quei territori si rivelò inarrestabile. La conseguente diffusione delle immagini, delle notizie e delle testimonianze dei sopravvissuti ebbe un notevole impatto sull’opinione pubblica in tutto il mondo, provocando sgomento per le atrocità commesse dai fascisti in tutta Europa e per ogni forma di genocidio, segregazione e discriminazione razziale.
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La dialettica dell’ecologia, un’introduzione
di John Bellamy Foster
Pubblichiamo dal sito Antropocene.org, rassegna internazionale di ecosocialismo, la traduzione di un importante saggio di John Bellamy Foster dal numero di gennaio della rivista Montly Review
L’intera natura si trova in un perpetuo stato di flusso…
Non vi è nulla che sia chiaramente definito in natura…
Ogni cosa è legata a tutto il resto…
Denis Diderot [1]
Come ha osservato l’ecologo di Harvard e teorico marxiano Richard Levins, «probabilmente la prima indagine di un oggetto complesso studiato come un sistema è stato il capolavoro di Karl Marx, Il capitale», che ha esplorato sia la base economica che quella ecologica del capitalismo, inteso come sistema socio-metabolico.[2] La premessa della Dialettica dell’ecologia, così come affrontata in quest’articolo, è che troviamo soprattutto nel materialismo storico classico/naturalismo dialettico, il metodo e l’analisi che ci permette di collegare “la storia del lavoro e del capitalismo” alla storia della “Terra e del pianeta”, consentendoci di indagare da un punto di vista materialista la crisi dell’Antropocene propria del nostro tempo.[3] Nelle parole di Marx, l’umanità è sia “una parte della natura”, che una “forza della natura”.[4] Nella sua concezione non era presente alcuna rigida divisione tra storia naturale e storia sociale. Piuttosto, «La storia della natura e la storia dell’uomo [umanità]» erano pensate come «l’una in dipendenza dall’altra sin tanto che l’uomo esisterà».[5]
Da questa prospettiva, la relazione tra lavoro, capitalismo e metabolismo terrestre, è al centro della critica dell’ordine esistente. «Il lavoro», scriveva Marx, «è, anzitutto, un processo che passa tra l’uomo e la natura, un processo attraverso il quale l’uomo, per mezzo delle sue stesse azioni, media, regola e controlla il metabolismo tra sé e la natura.
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Il fango e le stelle
di Giorgio Agamben
Tutti ricordano l’aneddoto, narrato da Socrate nel Teeteto, della servetta trace, «arguta e graziosa», che ride osservando Talete che, tenendo fisso lo sguardo verso il cielo e le stelle, non vede quel che gli sta sotto i pedi e cade in un pozzo. In un appunto del Quaderno genovese, Montale rivendica in qualche modo il gesto del filosofo, scrivendo: «Chi trascina i piedi nel fango e gli occhi nelle stelle; quello è il solo eroe, quello è il sol vivente». Che il poeta ventunenne compendi e anticipi in questo appunto l’essenza della sua futura poetica, non è sfuggito ai critici; ma altrettanto importante è che questa poetica, come ogni vera poetica, implichi per così dire una teologia, sia pure negativa, che uno studioso attento ha drasticamente riepilogato nella formula «teologia della briciola» («Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola» – si legge in Rebecca, «Solo la morte lo vince se chiede l’intera porzione»).
La teologia che è qui in questione, com’è evidente già nel dualismo «fango/stelle» dell’appunto giovanile e nelle «buie forze di Arimane» evocate in un intervento del 1944, è certamente gnostica. Come in ogni gnosi, i principi – o gli dei – sono due, uno buono e uno malvagio, uno assolutamente estraneo al mondo e un demiurgo che lo ha invece creato e lo governa. Nelle correnti gnostiche più radicali, il dio buono è così estraneo al mondo, che nemmeno si può dire che esista: secondo i Valentiniani, egli non è esistente, ma pre-esistente (proon), non è principio , ma pre-principio (proarche), non padre, ma pre-padre (propator). E come è estraneo al mondo, è anche estraneo al linguaggio, paragonabile a un abisso (bythos) intimamente congiunto al silenzio (sige):
«Il silenzio, madre di tutto ciò che è emesso dall’abisso, in quanto non poteva dire nulla dell’ineffabile, tacque; in quanto comprendeva, lo chiamò incomprensibile».
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Riflessioni sulla Palestina
di Comitato Antimperialista Arezzo e Collettivo Millepiani Arezzo
1. Resistenza e Rivoluzione in Palestina
Il genocidio che lo Stato neocoloniale israeliano sta perpetrando sui palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, un genocidio che strazia le sue vittime con tutta la sproporzione tecnica dei suoi mezzi offensivi, a cominciare dal calcolato piano generale – amministrativo, militare ed etnico – inflessibilmente seguito, si scontra tuttavia con un ostacolo, poiché viene contrastato, e quindi indebolito, nella sua furia genocida, dalla irriducibile Resistenza di mobilissime formazioni di fedayyin, che spuntano improvvise e che scompaiono prontamente in quelle distese di macerie che una volta erano gli edifici di Gaza. Il genocidio sta dentro una guerra implacabile: una guerra di sterminio, da una parte; una guerra di liberazione dall’altra. Questo è il senso storico e politico di quanto sta avvenendo in Palestina, dal quale non si può assolutamente prescindere, in un’azione di massa che miri a dare forza e valore all’espressione “Palestina libera”, gridata in tutte le piazze. Infatti, se non si appoggia, se non si rende visibile, se non si dà un volto politico alla “lotta di liberazione armata” del popolo palestinese, la parola d’ordine “Palestina libera” diviene semplice coreografia. Occorre pertanto rendere netto e inconfondibile il profilo della lotta di liberazione armata dei palestinesi e, contemporaneamente, occorre adoperarsi con tutte le nostre forze per conquistare le masse popolari occidentali a un deciso e completo “riconoscimento” di questa guerra popolare di liberazione. Come per la Repubblica spagnola, aggredita nel ’36 dall’imperialismo nazifascista, e per il Vietnam bombardato con il Napalm dall’imperialismo statunitense negli anni Sessanta, una mobilitazione internazionalista sostenne il peso di una lotta comune, così oggi, di fronte alla “soluzione finale” avanzante a Gaza con gli aerei e i blindati israeliani, diventano urgenti le idee e le parole d’ordine internazionaliste per sostenere fino in fondo e senza perifrasi la Resistenza palestinese.
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I guerrafondai, i sonnambuli e i movimenti per la pace
di Alfonso Gianni
Non era mai successo nulla di simile: un impero (la Gran Bretagna) promette una terra non sua a un popolo che non ci vive senza chiedere il permesso a chi ci abita1
Gideon Levy
Cessate il fuoco! Ora! Questo grido, rivolto in particolare alle due più sanguinose guerre in corso - tra le 60 attualmente in atto nel mondo -, in Ucraina e in Palestina, ha attraversato le piazze e le strade delle principali città del Sud e del Nord del globo terrestre. Il popolo della pace, variegato e multiforme, è tornato a farsi, sentire, a imporsi all’opinione pubblica, malgrado i tentativi di nasconderne o sminuirne la forza e l’estensione da parte dei mass media mainstream. Non siamo di fronte a quella dimostrazione di grande forza e compattezza, pur nell’articolazione geografica, che contraddistinse le celebri manifestazioni del 15 febbraio del 2003 e che fecero scrivere al New York Times che aveva preso corpo una seconda potenza mondiale. Neppure quella straordinaria prova di forza fermò la guerra, ovvero l’aggressione degli Usa e dei paesi volenterosi all’Iraq. Ma essa entrò nella storia, sedimentò una diffusa coscienza civile, trasformò il pacifismo da una opzione morale e individuale in un obiettivo politico condiviso da milioni di persone disposte ad attivarsi per il suo conseguimento. Le manifestazioni che si sono susseguite in centinaia di città lo scorso 13 gennaio2 e che continueranno a riproporsi e ci auguriamo a crescere, non sarebbero potute avvenire senza poggiare sull’humus fertilizzato da quella storica giornata di inizio di secolo. E a farlo in condizioni assai più difficili di allora. Nel 2003 l’obiettivo era chiaro: impedire agli Usa di fare quello che poi hanno fatto in Iraq, sconvolgendo quel territorio e l’insieme del Medio Oriente, con conseguenze che proprio ora mostrano i loro devastanti effetti.
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Israele è una democrazia?
di Paolo Arigotti
Esiste una frase che molti analisti e giornalisti amano ripetere: Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente.
Da quelle parti, eccezion fatta per la “cleptocrazia” libanese, l’unica nazione che si avvicinerebbe (forse) agli standard democratici occidentali sarebbe la Turchia, dove però esiste una minoranza perseguitata, quella curda, che potrebbe fornire qualche spunto per un possibile confronto col caso israeliano.
Mettendo da parte ogni facile polemica, prima di tutto sarebbe necessario stabile cosa si intenda per “democrazia”, per poi applicare il concetto al caso concreto.
L’enciclopedia Treccani[1] definisce democrazia qualunque “forma di governo in cui il potere risiede nel popolo, che esercita la sua sovranità attraverso istituti politici diversi; in particolare, forma di governo che si basa sulla sovranità popolare esercitata per mezzo di rappresentanze elettive, e che garantisce a ogni cittadino la partecipazione, su base di uguaglianza”. Lo stesso dizionario contiene anche la definizione di “democratura”, neologismo riferito a un “regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale”[2].
Il politologo Robert Dahl, nel suo saggio I dilemmi della democrazia pluralista, individua nel pluralismo un elemento imprescindibile per ogni assetto che voglia dirsi democratico; Norberto Bobbio, filosofo del diritto, definiva democratici i gruppi nei quali le determinazioni collettive sono caratterizzate da due regole: un’ampia partecipazione diretta o indiretta e le decisioni scaturiscano da una libera discussione a maggioranza. Naturalmente potremmo continuare con le citazioni, prendendo le mosse dall’antica Grecia, ma come notava qualche anno fa il filosofo Salvatore Veca[3]: “una soddisfacente teoria della democrazia è a tutt’oggi lungi dall’essere disponibile e […] le nostre analisi dei fatti e delle istituzioni dei regimi democratici oscillano fra descrizioni e prescrizioni, aspirazioni e valutazioni che difficilmente risultano a volte fra loro coerenti.”
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La cassetta degli attrezzi
Postille a "Guerra e rivoluzione"
di Carlo Formenti
In "Guerra e Rivoluzione" (2 voll. Meltemi, Milano 2023) ho affrontato alcuni temi "scabrosi" sui quali il marxismo occidentale non può esimersi di riflettere, se vuole uscire dalle secche in cui lo hanno impantanato decenni di opportunismo, settarismo e dogmatismo. Personalmente ritengo che l'opportunismo (vedi le ricorrenti tentazioni elettoralistiche e la conseguente disponibilità al compromesso con le borghesie liberali), benché pernicioso, abbia causato meno danni del settarismo e del dogmatismo, cioè della riproposizione rituale e ottusa di dogmi che un secolo di storia ha impietosamente falsificato. È questo crampo ideale che ha impedito alle formazioni neo comuniste di radicarsi nel sociale e raccogliere consensi (mi riferisco all'arruolamento di nuove leve di militanti, non a qualche manciata di voti) fra i lavoratori e le giovani generazioni. In questo articolo propongo alcuni approfondimenti relativi ai temi affrontati nel libro uscito qualche mese fa. Non toccherò - se non marginalmente - le questioni relative alle trasformazioni strutturali del tardo capitalismo e alle nuove forme di socialismo emerse in Cina e America Latina, perché si tratta di problemi sui quali sono già tornato su queste pagine, per concentrarmi invece: 1) sulla critica degli "ismi" (economicismo, progressismo, eurocentrismo, universalismo, ecc.) che hanno sterilizzato il marxismo occidentale; 2) sulla questione della forma partito.
PS. In questa seconda parte ho cercato di ridurre al minimo l'apparato di note in quanto si tratta di un testo assai lungo (il doppio del precedente) quindi, se avessi applicato gli stessi criteri, le note sarebbero state più di cinquanta e forse avrebbero sfiorato il centinaio, appesantendo la lettura. Per riferimenti bibliografici più esaustivi rinvio alla bibliografia generale di "Guerra e rivoluzione". Mi preme infine precisare che l'ultimo libro di Alessandro Visalli ("Classe e partito", Meltemi 2023) ha ispirato molte delle riflessioni che troverete nelle prime pagine anche se non è citato direttamente.
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L’occhio del padrone
di Tiziano Bonini
Guidare un camion è un’attività molto complessa: richiede forza fisica, concentrazione mentale per lunghi periodi di tempo, destrezza nei movimenti, controllo delle proprie emozioni, capacità di cooperazione con altri camionisti, un’attività cognitiva continua, per evitare di fare incidenti o mantenere a lungo la stessa direzione di marcia. Eppure, quando si parla di professioni che implicano un lavoro cognitivo, ci si riferisce sempre ad altri tipi di lavori, come la designer, la programmatrice informatica, la manager di azienda…, tutte professioni diventate centrali con l’emergere della società dell’informazione e con la diffusione dei computer nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni e nelle case private. Il camionista non è considerato un lavoro prettamente “cognitivo”. Eppure, gli attuali sistemi di intelligenza artificiale fanno ancora molta fatica ad automatizzare i complessi processi cognitivi che stanno alla base della guida umana di un camion. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha inavvertitamente dimostrato che lavori apparentemente poco qualificati come guidare un camion richiedono molta “intelligenza”, destrezza fisica e qualità emotive, e sono a tutti gli effetti dei lavori “cognitivi”. I veicoli a guida autonoma, infatti, dipendono dall'IA che impara via via a imitare le decisioni intelligenti dei conducenti sulla strada. “Se, infatti, la capacità di guidare un veicolo può essere tradotta in un modello algoritmico è perché guidare è un’attività con una componente logica, – perché, in ultima analisi, all labour is logic”, (p. 3), tutte le attività lavorative per essere eseguite presuppongono operazioni mentali logiche, che possono essere misurate, calcolate e riprodotte da un sistema logico come una rete neurale.
Questa è la constatazione da cui parte il bellissimo libro di Matteo Pasquinelli, The Eye of the Master, A Social History of Artificial Intelligence (Verso Books, 2023, di prossima traduzione italiana presso Carocci), per dimostrare come l'intelligenza artificiale sia una serie di tecnologie che emergono dal tentativo di “cattura” dell'intelligenza sociale incorporata nelle relazioni umane.
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Anche se è un genocidio, non verrà fermato
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia è stata una vittoria legale per il Sudafrica e i palestinesi, ma non fermerà il massacro
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) si è rifiutata di soddisfare la cruciale richiesta avanzata dai giuristi sudafricani: “Lo Stato di Israele dovrà sospendere immediatamente le sue operazioni militari a Gaza e contro Gaza”. Ma, allo stesso tempo, ha inferto un colpo devastante al mito fondamentale di Israele. Israele, che si dipinge come eternamente perseguitato, è stato accusato in modo credibile di aver commesso un genocidio contro i palestinesi di Gaza. I palestinesi sono le vittime, non gli autori, del “crimine dei crimini“. Un popolo, un tempo bisognoso di protezione dal genocidio, ora lo starebbe commettendo. La sentenza della Corte mette in discussione la stessa ragion d’essere dello “Stato ebraico” e sfida l’impunità di cui Israele ha goduto fin dalla sua fondazione, 75 anni fa.
La Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato a Israele di adottare sei misure provvisorie per prevenire atti di genocidio, misure che saranno molto difficili, se non impossibili, da realizzare se Israele continuerà a bombardare a tappeto Gaza e a colpire indiscriminatamente le infrastrutture vitali.
La Corte ha chiesto a Israele di “prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio”. Ha chiesto a Israele di “adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria urgentemente necessari”. Ha ordinato a Israele di proteggere i civili palestinesi. Ha chiesto a Israele di proteggere le circa 50.000 donne che partoriscono a Gaza. Ha ordinato a Israele di prendere “misure efficaci per prevenire la distruzione e garantire la conservazione delle prove relative alle accuse di atti che rientrano nell’ambito dell’articolo II e dell’articolo III della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio contro i membri del gruppo palestinese nella Striscia di Gaza”.
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La memoria della Shoà: due posizioni in conflitto
di Stefano Levi Della Torre
Questa è una tragica lezione della storia: i discendenti di un popolo perseguitato per secoli dall’Occidente, cristiano e poi razzista, possono diventare al tempo stesso i persecutori e il bastione avanzato dell’Occidente nel mondo arabo.
Edgar Morin, La resistenza dello spirito, La Stampa, 24 gennaio 2024
“Le vittime che si fanno carnefici”? Fino a ieri, ho sempre obiettato a questa formula accusatoria, per l’incommensurabile sproporzione tra gli atti subiti dagli ebrei come vittime fino alla Shoah, e gli atti compiuti da ebrei come persecutori o carnefici. Ma ora questi due termini, vittime e carnefici, si confrontano in modo ravvicinato: il 7 ottobre 2023 ebrei, e Israele nel suo insieme, sono stati vittime della terribile aggressione, strage, stupro, rapimento di massa di Jihad e Hamas, ma in sequenza immediata degli ebrei e Israele, perché vittime, sono diventati carnefici, e da settimane stanno devastando e facendo strage indiscriminata nella Striscia di Gaza, con 25000 morti finora, e un numero imprecisato di feriti e mutilati. Il fatto che le vittime si siano fatti carnefici è evidente. È contestabile?
Sullo sfondo di questa parabola compiuta, che le parole di Edgar Morin descrivono in breve, si svolge la Giornata della Memoria del 2024.
1. Sulla memoria della Shoah, si sono contrapposte in questi anni due tesi. Secondo la prima, la Shoah è paradigma di ogni strage programmata e genocidio in quanto riassume tutte le modalità che in altre persecuzioni compaiono in parte, e la memoria della Shoah vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra “crudeltà di massa” del passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano né per gli Ebrei né per altri.
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Perché “La Storia” di Elsa Morante non piacque troppo a sinistra
di Linda Dalmonte
La pubblicazione della Storia di Elsa Morante fu uno di quei casi grandiosi in cui la storia che voleva rappresentarsi da fuori, finì involontariamente per cogliere sé stessa “dal di dentro”. Tutto il dibattito critico che ne seguì, elogi e accuse da più fronti, sono in un certo senso immanenti all’opera: non si può parlare della Storia di Elsa Morante prescindendo dal dibattito letterario che infervorò nell’estate del 1974 (anzi, proprio la congiuntura storica in cui – inconsapevolmente – si inserisce, e che dal romanzo è inseparabile, fa da cartina da tornasole per comprendere il senso storico di quegli anni).
Sulla sinossi non ci soffermiamo: La Storia racconta la vita della maestra “mezza ebrea” Ida Ramundo, e di suo figlio Useppe, nato da uno stupro nel 1941; e ne segue le avversità, gli incontri, i momenti di indigenza, nel corso della seconda guerra mondiale, fino al noto epilogo (qui per i dettagli: https://it.wikipedia.org/wiki/La_storia_(romanzo)).
Il successo di massa
Effettivamente, si trattava di un romanzo che non soltanto usciva nel periodo migliore per le vendite, alle soglie dell’estate e del tempo libero che si profilavano nel giugno del ’74. Di più: fu proprio Morante a fare pressioni perché venisse stampato direttamente in edizione economica, col prezzo modicissimo di 2.000 lire (nonostante il rincaro della carta e i forti contraccolpi della crisi del ’73); insieme alla trovata di apporre alla copertina un sottotitolo “audace”, che non poteva che rinvigorire le opinioni di chi ne vedeva un mero battage pubblicitario: «Uno scandalo che dura diecimila anni». La prima tiratura, di centomila copie, si esaurì in brevissimo tempo; spesso accompagnata da uno slogan predisposto da Einaudi: «Un grande romanzo, una lettura per tutti».
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Le guerre di religione non esistono
di CityStrike
Vale la pena di approfondire la tendenza, abbastanza diffusa, che porta a considerare la guerra tra Israele e Palestina come un conflitto religioso. Conflitto da cui i comunisti dovrebbero tenersi fuori dal momento che, per chi guarda alla realtà attraverso la prospettiva del materialismo dialettico, la religione va considerata come l’oppio dei popoli.
Per approfondire la questione è necessario fissare due punti:
cosa intendiamo, riferendoci a Marx, per religione;
cosa intendiamo con l’espressione “guerre di religione” (espressione che abbonda non soltanto nei resoconti dei media ma anche sui libri di storia nell’analisi dei conflitti e delle guerre).
L’oppio dei popoli
Questa definizione si accompagna sempre alla locuzione “come ha detto Marx la religione è…”. Ma se vogliamo veramente entrare nel senso di questa celebre espressione, dobbiamo sottrarci a qualsiasi semplificazione da social network: Marx non poteva certo accompagnare questa frase all’immagine di qualche pittoresca sfilata di santi, icone o flagellanti – come fosse autoevidente nel suo significato. Per coglierne il senso originario nella sua complessità vale quindi la pena di riportarla per esteso, nel suo contesto discorsivo:
«Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti, la religione è coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un’entità astratta posta fuori dal mondo.
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La sfuggente politica di Netanyahu non è uno stratagemma, ma un ritorno alla vecchia strategia sionista
di Alastair Crooke - strategic-culture.su
Una volta, il defunto Ariel Sharon, leader militare e politico israeliano di lungo corso, aveva confidato al suo caro amico Uri Dan che “gli Arabi non avevano mai veramente accettato la presenza di Israele… e quindi una soluzione a due Stati non era possibile – e nemmeno auspicabile“.
Nelle menti di questi due – così come della maggior parte degli israeliani di oggi – c’era il “nodo gordiano” che caratterizza l’essenza del Sionismo: come mantenere diritti differenziati su un territorio fisico che include una vasta popolazione palestinese.
I leader israeliani ritenevano che, con l’approccio non convenzionale di Sharon basato sull'”ambiguità spaziale“, Israele fosse sul punto di trovare una soluzione all’enigma della gestione dei diritti differenziati in uno Stato a maggioranza sionista ma con al suo interno minoranze consistenti. Molti israeliani ritenevano (fino a poco tempo fa) che i palestinesi fossero stati relegati con successo in uno spazio politico e fisico delimitato – e che fossero addirittura “scomparsi” da ogni parvenza di significato – solo che Hamas, il 7 ottobre, ha fatto saltare in aria tutto questo elaborato paradigma.
Questo evento ha innescato un diffuso ed esistenziale timore che il progetto sionista possa implodere, se le sue particolari fondamenta sioniste dovessero essere messe in dubbio da un’ampia resistenza pronta a entrare in guerra per risolvere la questione.
Un recente articolo del giornalista statunitense Steve Inskeep – Israel’s Lack of Strategy is the Strategy – mette a fuoco un apparente paradosso: mentre Netanyahu è molto chiaro su ciò che non vuole, allo stesso tempo rimane ostinatamente opaco su ciò che vuole come futuro per i palestinesi che vivono in un territorio condiviso.
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Lo strano caso del caso Moro – Parte Seconda
di Davide Carrozza
Lo scorso 13 Gennaio un mio articolo sulla puntata di Report dedicata al così detto caso Moro, è stato ripreso e pubblicato da Sinistra in Rete (LINK), una sorta di archivio molto popolare di articoli e documenti per la discussione politica. Come era lecito aspettarsi, numerosi commenti all’articolo hanno ripreso molte delle teorie complottiste che aleggiano da decenni sul caso Moro (su questa definizione torneremo), con lo scopo di screditare le tesi da me sostenute. Anziché rispondere ai singoli commenti preferisco affrontare le questioni poste con un altro articolo, approfittando delle sollecitazioni per scrivere anche di altre questioni rimaste ancora insolute, sulla puntata di Report e su tutta la vicenda.
Malgrado sia difficile negare la preparazione e l’erudizione dei miei detrattori, appare evidente che la letteratura saggistica di cui si sono nutriti sia interamente di natura dietrologica e che mai si siano imbattuti in altro tipo di volume sul tema. A loro parziale difesa c’è da dire che tale letteratura, che nei decenni è divenuta un vero e proprio genere, è purtroppo molto vasta e si è riprodotta in serie grazie all’incredibile successo editoriale, trovando terreno altrettanto fertile in ricostruzioni cinematografiche fantasiose, documentari, programmi televisivi, fino a coinvolgere l’insospettabile Sen. Pellegrino, presidente della Commissione Stragi, convinto durante un’audizione che davvero si verificò l’irruzione nel paesino di Gradoli, frutto invece della suggestione cinematografica del film “Il caso Moro “di Giuseppe Ferrara dell’86. Tuttavia, non c’è bisogno di essere un esperto del tema per capire che ciò che risponde alle esigenze di natura economica, spesso non coincide con i tempi lunghi e farraginosi della ricerca storiografica fine a se stessa, spesso fiaccata dall’assenza di fondi e addirittura a volte perseguitata, come dimostra il caso di Persichetti (LINK).
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I guardiani della memoria e la crisi della democrazia
di Valentina Pisanty
Da più di vent’anni la memoria della Shoah ha contribuito a riempire il vuoto lasciato dalla crisi delle grandi utopie rivoluzionarie del Novecento; utopie il cui schema narrativo si fondava sulla storia eroica dell’emancipazione degli Oppressi dagli Oppressori. Diventando egemonica, la narrazione “vittimo-centrica” dell’Olocausto (e di altri eventi traumatici che ricalcano quel modello narrativo) ha spinto ai margini il paradigma rivoluzionario e ha conquistato il cuore della coscienza occidentale, come racconto ammonitore delle catastrofi dalle cui ceneri è sorta l’Europa del dopoguerra. Ma che tipo di identità può ricavare i suoi valori democratici dalla promessa solenne “Mai Più”? Un’identità che nega il conflitto come uno dei rapporti umani primari e costitutivi. Non è peraltro chiaro a cosa si riferisca il “Mai Più”. Alla guerra in quanto tale? All’antisemitismo tout court o alla persecuzione di qualsiasi minoranza stigmatizzata? Allo sterminio su scala industriale o a qualsiasi altra forma di discriminazione?
Come che sia, l’equazione Per Non Dimenticare = Mai Più è talmente radicata nel senso comune che a pochi viene in mente di metterla in dubbio. Eppure le smentite non mancano. Violenze razziste in crescita esponenziale, parate di simboli fascisti, diffusione dell’odio on- e offline, partiti xenofobi al potere, e ora la guerra. Perché facciamo così fatica a prendere atto che qualcosa non ha funzionato? La riluttanza ad ammettere il fallimento delle politiche della memoria è sintomatica di un principio di autoritarismo che si è insinuato nelle pieghe della retorica e delle politiche della memoria, spesso a insaputa di chi le pratica.
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E’ già “tutta colpa di Netanyahu”: esecutore spietato e parafulmine del Sistema
di Konrad Nobile
È fin dai primi giorni della efferata reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre che noto un certo fenomeno che definisco di “Netanyahu-izzazione” nella descrizione dell’operato di Israele.
Vi è una tendenza molto diffusa infatti, che riguarda anche certi canali e personaggi “alternativi”, a puntare la lente d’ingrandimento e a concentrare le critiche nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Probabilmente anche sull’onda della crescente e forte impopolarità, interna a Israele, al presidente del Likud (ovvero il partito sionista, conservatore e nazionalista, che ha preso la maggioranza dei voti alle elezioni parlamentari del 2022) si è progressivamente accesa una corsa internazionale alla polemica contro “Bibi”, visto da alcuni come il maggior responsabile del 7 ottobre, da altri come uno spregiudicato leader genocida troppo influenzato dalla destra sionista, da altri ancora come il principale ostacolo alla pace tra Israeliani e Palestinesi.
E così, in un crescendo che partendo dal basso va dal grottesco sinistro Fratoianni, che blatera sul processare Netanyahu per crimini di guerra, fino ad arrivare a un’amministrazione statunitense insofferente per le scelte del capo dell’esecutivo di Tel Aviv, con tanto di accese tensioni (narrateci da molte testate giornalistiche -1) tra un irritato Biden e Netanyahu, pare che i vari problemi che stanno infiammando il Medio Oriente possano essere alla fin fine ricondotti a uno scellerato primo ministro, talmente cinico da giocare con l’allungamento di un conflitto, rendendosi responsabile di migliaia di morti e tensioni internazionali sempre più incandescenti, pur di salvare la sua carriera politica e tutelarsi da beghe giudiziarie.
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Gaza: Una finestra orrenda sulla crisi del capitalismo globale
di William I. Robinson e Hoai-An Nguyen
Mentre il mondo assiste inorridito al crescente numero di vittime tra i civili palestinesi e Israele affronta le accuse della Corte internazionale di Giustizia per il crimine di genocidio, la carneficina di Gaza ci offre una finestra spettrale sulla rapida escalation della crisi del capitalismo globale. Collegare i fili dalla spietata distruzione israeliana di Gaza a questa crisi globale richiede un passo indietro per mettere a fuoco il quadro generale. Il capitalismo globale deve affrontare una crisi strutturale di sovraccumulazione e stagnazione cronica. Ma i gruppi dominanti devono anche affrontare una crisi politica di legittimità dello Stato, di egemonia capitalista e di disintegrazione sociale diffusa, una crisi internazionale di contrapposizione geopolitica e una crisi ecologica di proporzioni epocali.
Le élite aziendali e politiche globali sono in preda alla sbornia del boom capitalistico mondiale della fine del XX e dell'inizio del XXI secolo. Hanno dovuto riconoscere che la crisi è fuori controllo. Nel suo Rapporto sui rischi globali per il 2023, il World Economic Forum ha avvertito che il mondo si trova ad affrontare una "policrisi" che comporta un'escalation di impatti economici, politici, sociali e climatici che "stanno convergendo per dare forma a un decennio unico, incerto e turbolento". L'élite di Davos potrebbe non sapere come risolvere la crisi, ma altre fazioni dei gruppi dirigenti stanno sperimentando come plasmare l'interminabile caos politico e l'instabilità finanziaria in una nuova e più letale fase del capitalismo globale.
Mentre l'esito militare della guerra di Gaza deve ancora essere determinato, non c'è dubbio che Israele e i suoi sostenitori negli Stati centrali del sistema capitalistico mondiale stiano perdendo la guerra politica per la legittimità.
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Profitti reali ed eresie immaginarie
di Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Matteo Gaddi, Nadia Garbellini, Joseph Halevi, Roberto Lampa, Gianmarco Oro
Una risposta a Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell’inflazione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri
Gli autori del volume L’inflazione: falsi miti e conflitto distributivo hanno risposto alla recensione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri
Diamo spazio alle loro argomentazioni perché ci sembra interessante poter guardare da vicino un dibattito su temi economici spesso lasciati alla sola disputa tra esperti. Sempre più sentiamo la necessità di riflettere su proposte di politica economica che vengano però da una prospettiva di classe e in conflitto con le sfide poste dal capitalismo contemporaneo.
Premessa
Sono contro le discussioni astratte. Il marxismo ci richiama sempre al concreto
(G. Lukács, 1968)
Quando abbiamo deciso di scrivere L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo il nostro obiettivo era quello di preparare il materiale didattico per un corso di formazione sull’inflazione rivolto a funzionari e delegati sindacali. In particolare, ci premeva chiarire alcuni punti di carattere generale e avanzare un’analisi dell’esplosione della dinamica dei prezzi nel 2022-2023. Scopo del corso era quello di fornire ai lavoratori e ai loro rappresentanti strumenti per rispondere concretamente al crollo dei salari reali.
Dopo le prime giornate di inizio marzo – a Milano, Mestre e Bologna – il corso è stato replicato una ventina di volte in svariati contesti territoriali, e altre “repliche” sono in preparazione.
Si è trattato di uno sforzo realmente collettivo: sebbene ciascuno di noi abbia partecipato direttamente alla stesura di uno o più capitoli, la struttura del volume e i contenuti di ogni saggio sono stati discussi e condivisi collettivamente, e dunque il contenuto di ciascun capitolo è da attribuire a ciascuno di noi.
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Il nuovo radicalismo di destra secondo Adorno (e come potremmo contrastarlo)
di Marco Rizzo
Parte I
Poco più di tre anni fa è stata tradotta ed edita per la prima volta in Italia una conferenza che Adorno tenne nel 1967 presso l’Università di Vienna, su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria1. Oggetto della conferenza, la riemersione e la crescita elettorale in Germania del neofascismo, nella fattispecie dell’NPD (Partito Nazional Democratico di Germania), allora appena fondato. Nel momento in cui si tiene questa conferenza l’NPD è in una fase di ascesa, tale da lasciar presagire un suo possibile ingresso nel parlamento tedesco alle elezioni federali del 1969; da qui la misurata ma ferma preoccupazione che fa da filo conduttore al discorso di Adorno.
Vale la pena riprendere in mano anche oggi questo breve testo per due motivi. In primo luogo occorre evidenziare che quando Adorno identifica alcuni caratteri ricorrenti della propaganda della nuova destra, quando descrive gli strumenti di cui questa si serve per catturare le menti di alcuni ceti sociali specifici, ha il pregio di impostare l’argomento su un piano che è già direttamente volto alla lotta politica: si tratta di costruire una cassetta degli attrezzi, un insieme di pratiche di base, degli strumenti di osservazione e di analisi da cui partire e mettersi al lavoro per contrastare un pericolo che avanza. Il secondo motivo deriva conseguentemente dal primo, ed è, un poco sorprendentemente, lo stile della conferenza. A differenza della complessità concettuale e della densità di riferimenti letterari ben noti ai lettori e alle lettrici di opere come Dialettica dell’illuminismo o Minima moralia, il linguaggio a cui Adorno ricorre in questo discorso risulta invece sobrio e comunicativo. Forse a causa della presenza di un uditorio e della conseguente natura orale della trattazione, o forse a causa dell’argomento in questione, che non ammette elitarismi di sorta, il fondatore dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte ha insomma cura di far sì che i suoi spunti possano essere compresi e raccolti senza troppa difficoltà anche da un pubblico di non iniziati.
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