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Profitti reali ed eresie immaginarie

di Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Matteo Gaddi, Nadia Garbellini, Joseph Halevi, Roberto Lampa, Gianmarco Oro

Una risposta a Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell’inflazione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri

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Gli autori del volume L’inflazione: falsi miti e conflitto distributivo hanno risposto alla recensione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri

Diamo spazio alle loro argomentazioni perché ci sembra interessante poter guardare da vicino un dibattito su temi economici spesso lasciati alla sola disputa tra esperti. Sempre più sentiamo la necessità di riflettere su proposte di politica economica che vengano però da una prospettiva di classe e in conflitto con le sfide poste dal capitalismo contemporaneo.

 

Premessa

Sono contro le discussioni astratte. Il marxismo ci richiama sempre al concreto
(G. Lukács, 1968)

Quando abbiamo deciso di scrivere L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo il nostro obiettivo era quello di preparare il materiale didattico per un corso di formazione sull’inflazione rivolto a funzionari e delegati sindacali. In particolare, ci premeva chiarire alcuni punti di carattere generale e avanzare un’analisi dell’esplosione della dinamica dei prezzi nel 2022-2023. Scopo del corso era quello di fornire ai lavoratori e ai loro rappresentanti strumenti per rispondere concretamente al crollo dei salari reali.

Dopo le prime giornate di inizio marzo – a Milano, Mestre e Bologna – il corso è stato replicato una ventina di volte in svariati contesti territoriali, e altre “repliche” sono in preparazione.

Si è trattato di uno sforzo realmente collettivo: sebbene ciascuno di noi abbia partecipato direttamente alla stesura di uno o più capitoli, la struttura del volume e i contenuti di ogni saggio sono stati discussi e condivisi collettivamente, e dunque il contenuto di ciascun capitolo è da attribuire a ciascuno di noi.

Tutte le recensioni al volume menzionate nell'introduzione alla seconda edizione – anch’essa a firma collettiva, e non del solo Esposito – hanno colto perfettamente il suo carattere politico, adottando lo stesso registro.

Fa eccezione quella di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri, un vero e proprio saggio di quarantatré pagine di cui ci è stato arduo cogliere il senso profondo: qual è il principale punto di disaccordo circa la diagnosi, la prognosi, e la terapia?

Nella loro recensione abbiamo osservato la rappresentazione estremizzata e unilaterale di alcuni passaggi senza entrare nel merito dei dati e della letteratura scientifica che abbiamo presentato e senza portare dati o riferimenti alla rilevante letteratura.

Abbiamo ritenuto utile rispondere agli unici due punti concreti che ci sembrano emergere, costituiti dalle critiche all’idea che l’inflazione sia legata ai profitti e all’importanza che attribuiamo al monetarismo. A queste ci dedicheremo il più sinteticamente possibile, per chiudere riportando il discorso sul terreno politico, che è ciò che ci interessa e che intendiamo portare avanti come collettivo.

 

La natura dell’inflazione

I profitti aziendali sono l’elemento chiave nel determinare il funzionamento di un’economia capitalista (H. Minsky, 1981)

Il punto centrale del nostro libro è costituito dall’analisi della causa e degli effetti dell’inflazione. La recensione comincia con questa osservazione: «Attribuire l’inflazione alla crescita dei profitti (qualsiasi cosa questo voglia dire) è una parte soltanto della storia. Si degenera, talora, in una troppo sommaria recriminazione sulla natura predatoria del capitale». Per quanto ci riguarda, non servono i rialzi dei prezzi degli ultimi anni per avere consapevolezza della natura predatoria del capitale. Né siamo così ingenui da recriminare sulla natura predatoria del capitale: al contrario ci interessa analizzarla, per tentare di fornire al movimento dei lavoratori strumenti di conoscenza utili alla lotta di classe.

L’inflazione è una crescita generalizzata del livello dei prezzi e poiché i prezzi sono fissati dalle imprese, sono sempre le scelte di queste ultime a determinarne la dinamica. Ovviamente le imprese non possono decidere tutto. Ci sono altri due importanti giocatori a questo tavolo: i lavoratori e le banche centrali. La sequenza è questa: lavoratori e aziende contrattano il salario nominale, le imprese fissano i prezzi con ciò determinando i propri margini di profitto, le banche centrali decidono la politica monetaria che più si adatta a preservare condizioni positive per l’accumulazione.

Non vediamo in che modo si possa negare che l’inflazione sia dunque dovuta, prima facie, alle decisioni sui prezzi compiute dalle imprese.

Come principale sostegno contro le nostre posizioni gli autori adducono alcuni brevi scritti di Marc Lavoie che considera “inflazione da profitti” soltanto quella determinata da un incremento del mark-up. In pratica si distingue tra la massa dei profitti (la somma, cioè, di quelli realizzati dalle imprese), la quota dei profitti sul valore aggiunto, e il mark-up (ovvero il ricarico fissato dalle imprese sui costi di produzione che determina il prezzo). Soltanto la crescita di quest’ultimo giustificherebbe il termine di inflazione da profitti.

Si tratta, a nostro avviso, di una definizione parziale e fuorviante. Alle imprese e ai percettori di reddito da capitale-impresa non interessa il mark-up applicato, ma il livello di profitti realizzati. Ragionare soltanto in termini di incremento di mark-up rileva poco ai fini della nostra analisi1. Mantenere mark-up costanti a fronte di un incremento dei costi di produzione significa scaricare interamente gli aumenti di quest’ultimi sui consumatori, producendo inflazione. Quando ciò avviene, ad aumentare sono:

  1. il profitto unitario;
  2. la massa dei profitti;
  3. la quota profitti sul valore aggiunto, nel caso in cui i salari non aumentino o lo facciano in misura risicata (come effettivamente è avvenuto).

Poiché nessuno mette in dubbio che profitti aggregati e quota profitti siano aumentati (anzi, i dati a disposizione lo dimostrano ampiamente), ciò significa che il mark-up quantomeno non si è ridotto. Non vediamo come si possa negare l’inflazione da profitti.

Che l’inflazione post-pandemica sia strettamente legata al tema dei profitti, è cosa evidenziata da un nutrito e variegato stuolo di osservatori (ne abbiamo parlato anche nel libro), che va dalla Bce al Fondo Monetario Internazionale, dal Wall Street Journal all’Ocse. Lo ha osservato Christine Lagarde, presidente della Bce nel maggio scorso (Lagarde, 2023); ugualmente Lane, capo economista della stessa Bce (Randow et al., 2023) e molti altri con loro. Escludendo l’improbabile conclusione che tutti questi commentatori recrimino sulla natura predatoria del capitale, non rimane che la spiegazione più lineare: lo osservano perché è vero.

La differenza è che per i difensori del sistema, cercare di aumentare i profitti è cosa buona e giusta. Per noi, no.

La nostra confusione aumenta quando leggiamo che: «L’inflazione non è essenzialmente un fenomeno macroeconomico: è in larga misura microeconomico, nel senso di settoriale. L’inflazione origina dai ‘venditori’ (sellers’ inflation) che fanno il prezzo: sono price maker, come si dice in gergo».

Settoriale non è sinonimo di microeconomico! Le dinamiche settoriali sono dinamiche macroeconomiche: i settori sono aggregazioni di imprese, e dunque le grandezze settoriali sono grandezze macroeconomiche, solo con un diverso livello di aggregazione. La propagazione degli shock (nel nostro caso l’aumento del prezzo dell’energia) attraverso la rete delle transazioni inter- industriali è quindi un fenomeno assolutamente macroeconomico.

La conclusione del passaggio ci vede ovviamente concordi e lo abbiamo più volte ribadito nel libro: le imprese sono price maker (cioè sono loro a fare i prezzi), e sono dunque le aziende a determinare la dinamica dei prezzi. Poiché la conclusione del passaggio si sposa perfettamente con la nostra impostazione, siamo portati a chiederci quali sono le motivazioni che inducono Bellofiore e Coveri a prendere le distanze dalle nostre tesi, e in particolare da quella di inflazione da profitti.

I due autori ricorrono a un argomento teorico, ed è bene precisare che si tratta soltanto di un argomento teorico, in quanto le loro considerazioni non poggiano su nessuna analisi empirica, alla quale noi cerchiamo invece di porre la massima attenzione.

Come anticipato, il principale sostegno all’argomentazione degli autori è costituito da alcuni scritti di Lavoie, il quale sul piano teorico giustamente – distingue tra

quattro fenomeni diversi: la massa dei profitti incassati, la quota dei profitti sul valore aggiunto, il margine di profitto (gli utili rispetto al valore complessivo delle vendite), e il mark-up in senso proprio (ovvero il ricarico sui costi diretti che va a fissare il prezzo, che non è altro che il margine di profitto di cui si è appena detto, ma espresso in percentuale dei costi di produzione complessivi). Per qualche ragione non viene considerato interessante interrogarsi sull’andamento del saggio di profitto, il che non è sempre del tutto appropriato.

Queste distinzioni sono piuttosto ovvie, così come ovvia ci pare la differenza tra margine e saggio del profitto; peraltro, quest’ultimo non è racchiuso da un solo indicatore: le aziende e gli analisti di bilancio utilizzano come indicatore del saggio di profitto quello che ritengono più appropriato a seconda delle circostanze (Roe, Roa, Roi, ecc.).

Tuttavia, non vediamo come questa maggiore complessità possa inficiare le nostre conclusioni. Oltretutto alla luce del fatto che il loro stesso principale riferimento teorico, Lavoie, non espone alcuna discussione di dati e coerentemente scrive “il mio blog non conteneva nessuna evidenza empirica di alcun tipo”.

Non ci sembra un modo di procedere adeguato alla discussione2.

 

La crescita della quota profitti

Tornando al dato empirico, in primo luogo, è interessante osservare che l’indicatore usato dalla Bce nelle analisi che confermano l’inflazione come determinata dai profitti – sia nel suo Bollettino economico che negli interventi di alcuni suoi dirigenti – è il rapporto margine operativo lordo/valore aggiunto, un indicatore in grado di dare una buona sintesi della capacità delle imprese di usare la leva dei prezzi per aumentare la propria profittabilità. In sostanza esso indica quanta parte di valore aggiunto è costituita dai profitti lordi. Trattandosi di un rapporto tra due grandezze, esso aumenta quando la variazione del numeratore (i profitti lordi) è maggiore di quella del denominatore (valore aggiunto). Usando questo indicatore, si nota che i diversi settori hanno visto una dinamica leggermente differente, ma che nel complesso si è avuta una crescita del rapporto (cfr. figura 1).

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Figura 1 (Bce, Bollettino economico, marzo 2023, p. 31).

In secondo luogo, sebbene vi possano essere nel breve periodo dinamiche differenti, è molto difficile che questi indicatori, per l’insieme delle aziende, divergano a lungo. È questa, ad esempio, la conclusione di un’analisi compiuta dalla Bce nel 2004 sui diversi indicatori di profittabilità. Sempre in quell’occasione, la Bce osservava come anche in quegli anni si era avuta una crescita dei margini (Bce, Bollettino economico, gennaio 2004, p. 73).

Riportiamo i dati della quota salari (in percentuale sul PIL) per l’Unione Europea, per l’area Euro (19 Paesi) e per l’Italia negli ultimi quattro anni. Osserviamo una riduzione generalizzata di tale rapporto, come si vede dalla Tabella 1.

Tabella 1

Paese

2022

2021

2020

2019

Unione Europea

54,7

55,4

56,8

55,3

Area Euro (19 paesi)

55,7

56,3

57,5

56,0

Italia

52,0

52,2

53,4

52,5

Fonte: database Ameco

Il 2022 costituisce, per i tre esempi sopra riportati, l’anno caratterizzato dal minor rapporto tra salari e PIL. La quota salari è cresciuta nel 2020 (anno della pandemia Covid) per il calo delle vendite delle aziende rispetto al 2019; nel 2021 si è abbassata e nel 2022 si è ulteriormente ridotta. Ne consegue che ad aumentare è stata la quota profitti, con particolare evidenza nel 2022 rispetto al 2021.

A conclusioni simili giunge un lavoro dello European Stability Mechanism - Esm (Capolongo et al., 2023): «Le aziende sono state in grado di resistere alle pressioni sui costi e di aumentare i margini di profitto e i profitti. In media, i profitti aziendali sono cresciuti di circa il 10% nel 2021 e nel 2022, ben al di sopra della media storica pre-pandemia» (i profitti, come precisato in una nota del citato paper, sono misurati in termini di gross operating surplus). Vi si legge anche:

«Nonostante l'impennata dei prezzi dell'energia, i margini di profitto delle imprese hanno conosciuto una forte accelerazione» (in questo caso i margini di profitto sono calcolati come rapporto tra gross operating surplus per unità di PIL reale). In sostanza, «le aziende sono state in grado di aumentare i prezzi finali, più che compensando i costi più elevati (anche se con un'elevata eterogeneità tra i vari settori) in un periodo di decelerazione dell'attività economica».

Anche la Commissione europea ha sottolineato aspetti simili (European Economic Forecast, 2023): essa ha assunto l’approccio del reddito nel calcolo del PIL in modo da scomporre in deflatore del PIL in costi del lavoro, profitti e tasse, evidenziando così il ruolo di ciascuno di essi nel determinare le pressioni sui prezzi. Anche in questo caso, come nel lavoro dell’ESM, i profitti unitari sono calcolati come rapporto tra il risultato lordo di gestione e il PIL reale. In questa pubblicazione si legge che:

I profitti unitari hanno mostrato una certa resistenza dallo scoppio della pandemia e sono diventati un fattore (driver) significativo del deflatore del PIL. I profitti unitari, che misurano il profitto medio per unità di prodotto, sono andati relativamente bene dallo scoppio della pandemia. Nella fase iniziale della recessione indotta dallo shock pandemico sia i costi unitari del lavoro che, in misura minore, i profitti unitari sono aumentati, poiché le retribuzioni e i profitti si sono contratti meno del PIL reale, grazie ad un supporto pubblico senza precedenti […]. Questo modello si è protratto fino all’inizio del 2021, quando le misure di protezione dei posti di lavoro sono state gradualmente eliminate e i prezzi dei beni energetici (importati) hanno iniziato a crescere. Nel 2022, i profitti unitari sono aumentati costantemente, con una crescita record del 9,3% (anno su anno) nell'ultimo trimestre. Questo aumento ha contribuito per 3,2 punti percentuali alla crescita totale del deflatore del PIL del 5,8%, contribuendo così all'inflazione interna più del costo del lavoro unitario. A corollario del forte aumento dei profitti unitari vi è lo spostamento della distribuzione del valore aggiunto tra le imprese e il lavoro, per cui la quota profitti è salita al di sopra della media pre-pandemica, mentre la quota di reddito da lavoro è del lavoro è scesa analogamente.

In un articolo pubblicato sul blog della Bce (Arce et al. 2023), gli autori si interrogano su cosa faccia quindi crescere l'inflazione, i profitti o i salari.

Gli economisti della Bce partono dalla constatazione che la crescita del deflatore del PIL è stata trainata sia dai costi unitari del lavoro che dai profitti unitari ma con una differenza sostanziale: «i profitti unitari sono cresciuti del 9,4% nel quarto trimestre del 2022, anno su anno, e hanno contribuito per oltre la metà sulle pressioni sui prezzi domestici nel trimestre, mentre i costi unitari del lavoro sono aumentati del 4,7% e hanno contribuito per meno della metà». A livello settoriale i profitti sono cresciuti più dei costi del lavoro in agricoltura, energia e utilities, costruzioni, manifattura e alcuni settori dei servizi (contact-intensive services sectors). Inoltre, comparando il contributo relativo di profitti e costo del lavoro all’inflazione, su un orizzonte temporale più lungo, si nota che «gli effetti dei profitti sulle pressioni dei prezzi domestici sono stati eccezionali da una prospettiva storica. Mentre in media, dal 1999 al 2022 i profitti unitari hanno contribuito a circa un terzo del deflatore del PIL, nel corso del 2022 essi hanno contribuito in media per due terzi».

Concludendo questa sintetica rassegna, emerge chiaramente come i nostri calcoli sono confermati dai lavori della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e del Meccanismo Europeo di Stabilità, avvalorando i fenomeni della crescita dei profitti, dell’incremento della quota profitti sul valore aggiunto e, soprattutto, il contributo decisivo che essi hanno dato all’inflazione.

 

L’inflazione nei bilanci delle imprese

Veniamo ora al tema dell’inflazione che emerge dai dati dei bilanci delle imprese italiane, a partire da un aspetto di metodo. Nella recensione di Bellofiore e Coveri possiamo leggere:

A nostro avviso, vi è il rischio che vi sia un ‘effetto ottico’ quando si guarda a dati come questi, che si riferiscono ad un campione relativamente piccolo di imprese, in particolare quelle di medie e grandi dimensioni (società di capitali), la cui composizione per di più cambia nel tempo, come è certamente avvenuto nel corso del quinquennio considerato.

Questa affermazione contiene almeno tre errori.

Il primo: non è vero che le società di capitali (SpA e Srl) corrispondano soltanto a imprese di dimensioni medie e grandi. La gran parte, infatti, ha poche decine di dipendenti e vi sono addirittura centinaia di migliaia di Srl unipersonali.

Il secondo è quello di considerare il nostro campione “relativamente piccolo”. Concordiamo che quanto maggiore è il campione delle imprese considerate, quanto più realistici sono i risultati. Proprio per questo abbiamo utilizzato un campione particolarmente ampio. Si consideri, per fare un esempio, che nel triennio 2020-2022 le imprese considerate hanno avuto un fatturato medio complessivo di oltre 2.500 miliardi di euro, un dato superiore al PIL italiano (il che è spiegabile per l’ovvio double counting implicito nel considerare i fatturati di aziende che sono clienti tra loro). Stiamo dunque parlando di un campione che rappresenta più che ampiamente l’universo produttivo italiano. Per fare un confronto, il rapporto annuale di Mediobanca sui dati delle aziende italiane, forse il più noto e utilizzato, e che considera le circa 2.000 aziende principali del paese, arriva a un fatturato complessivo intorno ai 1.000 miliardi, rappresentative, secondo Mediobanca, di circa la metà del fatturato dei settori considerati (Mediobanca, 2023, p. VII). Ci pare che uno studio che consideri due volte e mezzo il fatturato impiegato da Mediobanca sia più che sufficiente a delineare le dinamiche dell’economia italiana.

Il terzo concerne il cambiamento della composizione del campione. È vero che questa cambia nel tempo, ma ciò riguarda qualunque aspetto del capitalismo. Del resto, già nel Manifesto Marx ed Engels osservano che «la borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione» e qualunque misura statistica non può che registrare questa verità storica. Al contrario la recensione trae questa conclusione: «Si tratta in altri termini di un effetto composizione, che può essere almeno in parte dovuto al fallimento delle imprese più deboli con margini di profitto più bassi, come pure alla contestuale espansione della quota di produzione delle imprese più grandi con margini di profitto più elevati».

Questo meccanismo non è affatto strano, è ciò che succede sempre in questo sistema. Le aziende deboli vengono emarginate e finiscono o assorbite da quelle forti o espulse dal mercato. In che modo questo distorcerebbe l’analisi del capitalismo? Anche il PIL o il dato della produzione industriale registra solo i dati delle aziende tuttora in vita. Se l’effetto composizione impedisse di dire qualcosa sui prezzi, impedirebbe di dire anche qualunque altra cosa sull’economia. Vi è da aggiungere che tipicamente le aziende più forti si servono semmai di un calo dei prezzi per annientare la concorrenza, potendo contare su una maggiore efficienza produttiva permessa, ad esempio dalle economie di scala.

La recensione osserva poi un meccanismo di trasmissione dell’inflazione: «Si avrà così un’inflazione settoriale da profitti che, con ritardi variabili, si trasmette attraverso la matrice input-output agli altri settori dell’economia (e da questi indietro a quelli dove si è originata), facendo aumentare l’inflazione complessiva». Questa osservazione, è appena il caso di ricordare, va contro la critica all’inflazione da profitti fatta in precedenza dagli autori perché descrive proprio come un aumento settoriale dei prezzi divenga inflazione in senso proprio.

Ad ogni modo, da queste osservazioni i due autori traggono la seguente conclusione:

La questione, al fondo, è empirica, e a questo proposito non si può non sottolineare la natura provvisoria e incerta delle misure impiegate a sostegno o contro la tesi della profit inflation. È troppo presto per azzardare una risposta conclusiva. Gli stessi autori di questo libro lo riconoscono quando discutono dell’anno cruciale in questa storia, il 2022…Dal punto di vista dell’indagine applicata, l’evidenza di un’inflazione amplificata dai profitti è ancora troppo aneddotica e contrastante.

Concordiamo con quanto scrivono i due autori che la profit inflation vada valutata come aspetto eminentemente empirico, e proprio per questo abbiamo osservato la futilità dei commenti in merito di Lavoie e di altri osservatori svolti senza nessun riscontro fattuale. Tuttavia, non concordiamo sulla loro idea che i dati mostrino un’evidenza aneddotica e contrastante: sono, al contrario, solidi e univoci. Del resto se così non fosse, la Bce e le altre istituzioni che hanno descritto il fenomeno sarebbero state più caute. Rispetto a quando il libro è stato pubblicato, sono ora disponibili anche i dati dei bilanci del 2022 i quali confermano, anzi accentuano, le conclusioni cui eravamo approdati con i dati relativi al quinquennio 2017-2021. Al riguardo, si consideri innanzitutto la seguente tabella:

Tabella 2

Variabile

2017-2022

Valore della produzione

33,4%

Valore aggiunto

15,6%

Ebitda

31,7%

Risultato operativo

48,0%

Risultato netto

87,2%

(Fonte: nostri calcoli sui bilanci delle imprese, database Aida)

Come si vede, a fronte di un aumento del valore della produzione del 33,4% nel periodo preso in esame, il risultato operativo è aumentato del 48% e l’utile netto di oltre l’87%. Questi dati confermano appunto quelli che abbiamo citato nel libro e semmai li accentuano (la variazione per il periodo 2017-2021 era stata, rispettivamente, del 13,7%, 34,9% e 77,5%).

Se prendiamo in esame il solo biennio 2021-2022 osserviamo le seguenti variazioni:

Tabella 3

Variabile

2022 su 2021

Ricavi da vendite e prestazioni

27,9%

Valore della produzione

27,7%

Valore aggiunto

13,9%

Costi del personale

9,5%

Oneri finanziari

49,2%

Ebitda

19,5%

Risultato operativo

35,1%

Risultato netto

30,5%

(Fonte: nostri calcoli sui bilanci delle imprese, database Aida)

In un anno il risultato netto è aumentato di oltre il 30%: la definizione stessa di inflazione da profitti. Risulta di grande interesse confrontare i nostri dati con quelli del già citato studio di Mediobanca per l’autorevolezza della fonte. La ricerca trova, innanzitutto, un aumento del fatturato del 30,9%, molto vicino a quello osservato anche da noi. Venendo al tema dei margini, la ricerca evidenzia che le aziende considerate «hanno segnato performance decisamente positive quanto alla variazione dei principali margini di conto economico […] quello operativo netto avanza del 21,9%, l’utile lordo prima delle componenti straordinarie del 9,6%, il risultato netto del 26,2%» (Mediobanca, 2023, p. XVIII). Anche in questo caso Mediobanca trova un dato molto simile al nostro. Vale la pena richiamare anche l’analisi che Mediobanca svolge sulla dinamica salariale, facendo un raffronto tra quando c’era la scala mobile e oggi: se il costo del lavoro nel 1980 valeva il 18,2% del fatturato, successivamente si si è più che dimezzato arrivando all’8,4% nel 2022. Lo studio di Mediobanca prosegue affermando che «[…] a motivo degli automatismi di recupero dell’inflazione allora in essere, il costo del lavoro è cresciuto nel 1980 del 16,9% (a fronte di una flessione dello 0,8% della pianta organica), mentre nel 2022 il progresso è stato del 3,5%, dato che sconta, peraltro, il già citato aumento dell’1,7% del numero dei dipendenti» (Ivi, p. XIX).

La conferma della profit inflation è schiacciante, ma Mediobanca è ancora più esplicita:

La forza lavoro rappresenta lo stakeholder maggiormente penalizzato in termini di potere d’acquisto […]. All’aumento dei prezzi alla produzione del 30,1% essi avrebbero opposto il +2% del proprio costo del lavoro medio unitario, assumendo tale incremento come corrispondente alla variazione del salario disponibile. Ne sarebbe derivata una perdita di potere d’acquisto del 22% circa per l’anno 2022 (Ivi, p. XXVIII).

Ci pare che Mediobanca rifletta la dinamica economica reale con più accuratezza di Lavoie, anche perché in questi casi l’analisi dei dati concreti è imprescindibile.

Per concludere sui dati dei bilanci delle imprese nel 2022, riportiamo l’andamento di alcuni indicatori di profittabilità delle imprese rispetto ai dati del 2021. Vediamo, ad esempio, come il rapporto tra risultato operativo (cioè la differenza tra il valore della produzione e i costi di produzione) e valore della produzione si incrementi dal 4,3% del 2021 al 4,6% del 2022; così come il rapporto tra utile e valore della produzione cresca anch’esso (dal 3,3% del 2021 al 3,4% del 2022). Infine, se guardiamo alla quota profitti sul valore aggiunto (il valore di quest’ultimo, lo ricordiamo, è aumentato in un anno di quasi il 14%), vediamo chiaramente come ci sia una crescita di tutti gli indicatori di redditività tra il 2022 e il 2021:

Tabella 4

Indicatori

2021

2022

Ebitda / Valore Aggiunto (%)

41,34

43,35

Risultato operativo / Valore Aggiunto (%)

21,93

26,00

Utile/ Valore Aggiunto (%)

16,75

19,19

(Fonte: nostri calcoli sui bilanci delle imprese, database Aida)

Crediamo che questi dati siano più che sufficienti per chiarire come il 2022 confermi totalmente i dati contenuti nel libro sino al 2021.

Un’ultima precisazione si rende necessaria. La recensione esprime un’altra critica di metodo a proposito dell’analisi dei bilanci delle imprese svolta nel libro: «crediamo sia difficile desumere le cause dell’inflazione da dati come quelli che misurano variazioni di grandezze nominali e assolute nel tempo […]». Anche questa critica ci pare infondata. Le analisi di bilancio sono necessariamente basate su grandezze nominali e assolute e non vediamo come potrebbe essere altrimenti. Se si ritiene che le grandezze nominali e assolute non si possano impiegare per l’analisi economica bisognerebbe escludere lo studio dei bilanci delle imprese, e di molte altre fonti, dalla teoria economica, a maggior ragione quando si parla di inflazione, un fenomeno che per definizione misura variazione dei prezzi, grandezze nominali.

Vi sarebbero molte altre osservazioni da svolgere sulla recensione, ad esempio sul tema dei prezzi alla produzione, sull’inflazione come dinamica concernente la produzione o il conflitto distributivo, ma la natura di queste critiche ricalca quanto esposto sin qui che riteniamo sia sufficiente per capire la costruzione degli argomenti da parte degli autori.

 

La notizia sulla morte del monetarismo è fortemente esagerata

Una proprietà di ciò che è appreso è che può essere dimenticato (K. Bühler, 1922)

Bellofiore e Coveri, nel passaggio intitolato Un monetarismo introvabile, rimproverano al primo capitolo del volume di sostenere che il monetarismo (ovvero la teoria quantitativa della moneta) sia il cardine della politica monetaria odierna. Si tratta, a dire il vero, del principale motivo di critica dei recensori, al punto che si spingono perfino a contrapporre la scadente qualità di questo capitolo rispetto al resto del volume.

La nostra argomentazione viene frettolosamente liquidata con un «le cose non stanno così». Gli autori procedono nelle pagine seguenti ripercorrendo, a modo loro (cioè senza il benché minimo riferimento bibliografico di supporto), tutte le tappe storiche che hanno coinvolto sia l’accademia che le banche centrali, a livello teorico e pratico, dai tempi di Milton Friedman ai giorni nostri, per affermare che non è l’approccio monetarista a essere oggi rilevante nelle banche centrali (secondo uno dei recensori, quest’ultimo sarebbe addirittura morto per mano di Lucas, che avrebbe commesso un parricidio nei confronti di Friedman!)3, bensì un approccio keynesiano “ribaltato di segno” rispetto agli anni trascorsi prima dell’inflazione e materializzato coerentemente attraverso il meccanismo previsto dalla Taylor Rule del banchiere centrale.

A noi pare che estremizzare (caricaturizzandoli) alcuni passaggi dei lavori altrui e, allo stesso tempo, evitare un confronto con la letteratura di riferimento renda difficile dialogare con i nostri critici. Vale la pena riassumere e chiarire ulteriormente questo passaggio. Come sottolineato nel capitolo, una serie di economisti di primissimo livello, quelli che formano le opinioni della comunità scientifica, ha recentemente ribadito che le politiche monetarie “non-convenzionali” (espansive) introdotte dopo le crisi del periodo 2007-2011 – come il quantitative easing (QE) e i tassi di interesse negativi, che non hanno avuto un effetto immediato sui prezzi per via delle rigidità fiscali dei governi prima statunitensi e poi dell’Eurozona – hanno rappresentato una bomba pronta ad esplodere quando la domanda aggregata avrebbe ripreso a crescere. Fenomeno che poi si è verificato a partire dalla crisi pandemica del 2020 (Bohannon e Horowitz, 2022; Summers, 2021, 2022; Krugman, 2022; Roubini, 2022).

La ricetta che segue tale diagnosi promuove una politica restrittiva, che si traduce in un nuovo rigore fiscale e in una indicizzazione del tasso di interesse al livello generale dei prezzi. Perché tutto ciò? Il “modello delle tre equazioni” (di cui, i recensori ricorderanno, la regola di Taylor è parte integrante) prevede che l’aumento del tasso di interesse dovrebbe raffreddare la domanda aggregata, in particolare disincentivando gli investimenti privati e il consumo a debito, per creare disoccupazione fino al punto in cui la domanda si riallinea al livello dell’offerta e in questo modo interrompere l’accelerazione dei prezzi.

La lettura dei contributi citati non lascia dubbi sul fatto che essa sia fortemente influenzata dalla visione monetarista della moneta e dell’inflazione. In prima analisi, perché come abbiamo osservato anche qui, il presupposto rimane l’espansione quantitativa della liquidità posta in essere dai programmi di QE. Inoltre, perché le ipotesi a supporto dell’analisi includono il pieno impiego della capacità produttiva, la mancata disponibilità di forza lavoro occupabile assieme a una dinamica crescente di salari e conflittualità nella produzione, tutti fenomeni che il capitolo in questione ha provato a smentire. Poiché, dati alla mano, non possiamo certamente dire che dopo il 2020 abbiamo raggiunto un livello vicino alla piena occupazione e non possiamo neppure affermare che i salari siano cresciuti più dei prezzi delle materie prime, allora la giustificazione teorica delle restrizioni fiscali e monetarie è di preservare la stabilità dei prezzi attraverso un aumento deciso della disoccupazione, a prescindere dalle cause reali dell’inflazione (diventa perfino qui superflua la definizione di un ipotetico tasso di disoccupazione associato a un’inflazione stabile, il c.d. NAIRU).

Tale approccio è ben lontano dalla finanza funzionale e dalle teorie dell’inflazione concordate dalla scuola keynesiana e se i recensori vogliono affidare a quest’ultima la maternità delle attuali politiche monetarie, dovrebbero quantomeno chiarire dove e quando l’occupazione è stata posta come prioritaria rispetto alla stabilità monetaria. Piuttosto, è l’influenza di Chicago su Washington, ovvero le ombre monetariste presenti tra i cardini teorici della attuale ortodossia rappresentata dal Nuovo Consenso, che si può rintracciare nell’obiettivo primario della politica monetaria (stabilizzare i prezzi a discapito dell’occupazione) e nel metodo operativo (fino a rischiare di provocare insolvenze e crisi deflattive), un fatto talmente ovvio che pare quasi superfluo ribadirlo. D’altro canto, il modello prospettato dallo stesso Taylor (1998) non si pone in netta rottura con la prospettiva monetarista, ma vuole sostanzialmente depurare quest’ultima dai problemi logici della sua impostazione. Pertanto, il modello del Nuovo Consenso non sarebbe che il risultato della digestione, da parte dei monetaristi, delle implicazioni teoriche scaturite dalle critiche keynesiane.

L’idea che va per la maggiore oggi sembra proprio essere questa e, in questo specifico senso, poco importa se nel frattempo, per la teoria dominante, la moneta sia passata da esogena a endogena, come ci rimproverano i recensori, quasi avessimo vissuto in una caverna per non accorgercene. Riteniamo anche noi che gli aggregati monetari non vengono più controllati dalle banche centrali ma sono il risultato (endogeno) dei prestiti concessi a imprese e governi, i quali si aggiustano di conseguenza al tasso di interesse (esogeno) con quest’ultimo controllato politicamente dai “banchieri centrali”4.

L’interpretazione del Nuovo Consenso che assumiamo implicitamente nel volume tiene conto di una lunga letteratura (dalle Birmingham lectures di Frank Hahn, al dibattito innescato dall’ipotesi di curva di Phillips verticale di Lucas, fino al recente volume di Francesco Saraceno, 2023) che può essere condensata nella sintesi di Andrea Terzi:

Il modello interpretativo che più ha influenzato la politica monetaria negli anni che hanno preceduto la Grande Recessione nasce da tre esigenze: disegnare una strategia di politica monetaria che sia in grado di sostituirsi efficacemente alla politica fiscale come strumento anti-ciclico, conservare il principio monetarista per cui la banca centrale deve esclusivamente occuparsi di stabilizzare i prezzi, e riconoscere realisticamente che la banca centrale ha il potere di fissare i tassi ufficiali e non lo stock di moneta (Terzi, 2021, p. 138-139).

Parafrasando Terzi, i cambiamenti nei modelli teorici di riferimento non hanno certo impedito alle banche centrali di osservare l’aggregato monetario e, di conseguenza, prendere decisioni conseguenti sul tasso di interesse. Coscienti del fatto che la quantità non è tecnicamente controllabile, i banchieri si affidano adesso al controllo del tasso di interesse per provare a influenzare, e di conseguenza regolare (il termine è fine-tuning), nel breve periodo, la crescita degli aggregati monetari poiché questi ultimi sono ancora oggi considerati la causa e l’origine primaria dell’inflazione. In questo modo, l’approccio quantitativo, seppure formalmente uscito ridimensionato sul piano teorico, rientra a pieno titolo nella movenza politica dei banchieri moderni. Forse è sulla base di queste ragioni, che all’indomani della fondazione della Bce (1998) un economista del calibro di Augusto Graziani poteva riassumere lo schema posto alla base della politica dell’istituto come segue:

La BCE si avvale di un controllo misto, che viene basato come essa stessa dichiara su due pilastri. Il primo è il pilastro monetario, costituito essenzialmente dalla quantità di moneta. […]. La BCE considera segnale di pericolo per la stabilità monetaria il fatto che l’aggregato M3 cresca ad un tasso superiore ad un accrescimento di riferimento che attualmente è del 4,5%. Il secondo pilastro è rappresentato da un insieme di indicatori di varia natura: il livello di attività, l’andamento dei salari, il corso dell’euro rispetto alle grandi valute mondiali (dollaro, yen). […] L’adozione di questo insieme di indicatori è stato denominato da alcuni un sistema di monetary targeting illuminato (Graziani, 2004, p. 8).

Non è dunque la teoria economica dominante ad essere necessariamente monetarista in senso stretto, né lo abbiamo affermato; sicuramente lo sono ancora le implicazioni politico-economiche che da essa vengono tratte. Questo sostiene il capitolo in questione, ricollegando a buon diritto la teoria quantitativa a quelli che sono ancora oggi i falsi miti che il nostro libro si è dato il compito di sfatare.

 

Risvolti politici

Da una diversa analisi del fenomeno dell’inflazione e, più in generale, delle dinamiche del capitalismo contemporaneo discendono diverse conclusioni politiche. Ora, non è facile estrarre dalla recensione univoche conclusioni politiche perché il discorso è spesso allusivo e vago, spaziando dallo Zen a citazioni di Blanchard. Ad ogni modo, quando dalle affermazioni generali si passa a degli esempi concreti, la recensione pone come terreno della battaglia della sinistra europea l’agenda Draghi, l’immortale mantra dell’Europa sociale:

Se si vuole cercare un discorso di un qualche respiro, si deve andare a leggere l’articolo di Mario Draghi su The Economist. L’eurozona, come il capitalismo tutto, deve far fronte a shock comuni, come la pandemia, la crisi energetica, e la guerra in Ucraina. Questi shock sono troppo grandi perché una nazione possa gestirli da sola […]. Una diversa architettura istituzionale dell’eurozona e una più stretta Unione Europea, si rivelano condizione per la sua stessa esistenza [una] diversa ma unitaria Europa dal basso invece che dall’alto.

Riteniamo questa posizione completamente perdente: l’idea di poter riformare Berlaymont o l’EuroTower era sbagliata ieri, e oggi, che le istituzioni europee sono una appendice secondaria della Nato, è ancora più velleitaria. Lo stesso discorso si potrebbe fare per l’endorsement che gli autori fanno per l’agenda Biden, una riproposizione della politica di “guns and butter” di Lyndon Johnson che all’epoca, giustamente, nessuno a sinistra si sarebbe sognato di appoggiare.

Ci piace concludere questo scritto con alcuni estratti dall’ultimo discorso di Giuseppe Di Vittorio, tenuto poche ore prima di morire nel novembre del 1957 e che tocca aspetti affrontati nei nostri lavori:

Invito a discutere su questo: è giusto che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie, delle loro creature?... Di questo dobbiamo parlare …Avete visto che cosa è avvenuto: mano a mano che il capitalismo riusciva ad infliggere dei colpi al sindacato di classe e alla CGIL, e quindi a indebolire la classe operaia, non solo si è verificata una differenza di trattamento dei lavoratori, ma come conseguenza di questa differenza di trattamento, si è aperto un processo in Italia che tuttora continua…Si sono aperte le forbici, si è prodotto uno squilibrio sociale profondo nella società italiana […]. Le conseguenze, allora, di questi colpi ricevuti dalla CGIL ad opera del grande capitalismo, delle scissioni, delle divisioni dei lavoratori quali sono state? Ecco: le due curve, la curva dei profitti che aumenta sempre di più, e la curva dei salari che rimane sempre in basso…La nostra causa è veramente giusta, serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società, l’interesse dei nostri figliuoli. Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici […].

Non avremmo potuto sintetizzare meglio il senso del nostro libro e della battaglia che da esso scaturisce.


Riferimenti bibliografici
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Terzi, A. 2021. Ilgovernodellamoneta, Giappichelli, Torino.

Note
1 Facciamo peraltro osservare due aspetti concernenti il mark-up. Il primo è che a chi si occupa di analisi della redditività delle imprese del mark-up interessa poco o nulla (se si prendono le strutture di indicatori di analisi di bilancio usate da banche, agenzie di rating o altri operatori, di mark-up non si parla mai e quando lo si fa se ne parla lo si assimila al rapporto MOL/ricavi, come facciamo noi nel libro; anche i testi di analisi di bilancio non parlano di mark-up, argomento ritenuto irrilevante (ex multis: Fridson e Alvarez, 2011; Subramanyam, 2014 e Fazzini, 2015). Il secondo è che la letteratura scientifica aveva ampiamente evidenziato la tendenza al rialzo dei mark-up molto prima della pandemia. Come ad esempio sostengono dei ricercatori del Fmi: «Nelle economie avanzate, i markup sono aumentati in media del 39% dal 1980. L’aumento è diffuso in tutti i settori e paesi ed è guidato dalle aziende con i markup più elevati in ciascun settore economico», (Diez et al., 2018). Lo stesso risultato lo trova uno studio dell’OCSE (Calligaris et al., 2018) e un paper per il NBER (De Loecker e Eeckhout, 2018), tutti lavori alquanto, seppur neoclassici sul piano del metodo, molto rigorosi sul piano dell’analisi dei dati.
2 Vale la pena citare alcuni dei più recenti e significativi lavori sul tema. Partiamo da un paper della Fed di Kansas City (Glover et al., 2023), che nel discutere proprio del mark-up osserva: «I dati mostrano che la crescita dei markup ha contribuito in modo determinante all’inflazione nel 2021. Nello specifico, i markup sono cresciuti del 3,4% nel corso dell’anno, mentre l’inflazione […] è stata del 5,8%, suggerendo che i markup potrebbero rappresentare più della metà dell’inflazione del 2021». Gli autori osservano la differenza dal passato, considerato che: «La crescita del markup probabilmente ha contribuito per oltre il 50% all’inflazione nel 2021, un contributo sostanzialmente più elevato rispetto al decennio precedente». Un altro lavoro di economisti della Fed (Andler e Kovner, 2022) spiega che: «In media, per ogni aumento dell’1% dei prezzi, i margini lordi aziendali sono aumentati di 24 punti base». Anche Konczal e Lusiani (2022) confermano il tema: «I markup e i profitti sono saliti alle stelle nel 2021, raggiungendo il livello più alto mai registrato dagli anni ’50. Inoltre, le aziende negli Stati Uniti hanno aumentato i loro margini e i profitti nel 2021 al ritmo annuale più rapido dal 1955». Lo stesso vale per Bivens e Banerjee (2023):
«La crescita dei margini di profitto ha contribuito in misura storicamente elevata alle pressioni inflazionistiche negli ultimi 18 mesi», con ovvie conseguenze sulla distribuzione del reddito: «I salari reali (al netto dell’inflazione) sono in calo dall’inizio del 2021. Ciò ha portato anche a un marcato calo della quota di reddito da lavoro nel settore aziendale, che in gran parte non si è ripreso dal minimo post-pandemia». Infine, l’ultimo lavoro che citiamo, anch’esso di un economista della Fed (Palazzo, 2023), pur alquanto cauto sul tema, conferma che i margini sono più alti di prima della pandemia e che i mark-up sono saliti».
3 Tra le molte osservazioni contenute nella recensione a cui ci piacerebbe rispondere, vorremmo, per contenere il contributo, almeno discutere l’idea, per noi davvero incomprensibile, secondo cui Lucas e la Nuova Macroeconomia Classica si porrebbero in qualche modo contro le conclusioni monetariste. Ci pare che gli scritti di Lucas rivendichino il pensiero monetarista semmai estremizzandolo. Basti pensare alla Nobel Lecture del 1996, interamente dedicata alla difesa della teoria quantitativa, così come a quella che è probabilmente l’ultima pubblicazione scientifica di Lucas, un paper del 2017 (Benati et al., 2017) in cui gli autori affermano che, contrariamente a quanto molti economisti oggi ritengono, la relazione tra moneta e prezzi rimane stabile e cardine per la teoria economica. Lucas non solo ha difeso la teoria quantitativa, ma ne ha proposto una versione particolarmente virulenta. Lungi dal commettere un parricidio, Lucas ha superato il maestro, modificando il meccanismo di formazione delle aspettative, con ciò rendendo le conclusioni del monetarismo ancora più estreme (super-neutralità della moneta, curva di Phillips verticale anche nel breve periodo, ecc.).
4 I recensori dovrebbero segnalare i passaggi dove viene affermato nel volume che in realtà valga oggi l’inverso, ovvero che le banche centrali controllino gli aggregati monetari e che dunque esista un regime di moneta esogena o astenersi dall’attribuirci idee non nostre.

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n.catalano
Tuesday, 30 January 2024 17:57
senza entrare nella dialettica tra critici e criticati, non avendone nè le competenze e nè la voglia, dico solo che un lavoro di analisi e proposta per la CGIL di tal fatta è completamente inutile, se non per fini di propaganda verso i delegati che ci credono ancora, visto che lo scopo (della segreteria CGIL) è sempre lo stesso: trovare un ruolo, un riconoscimento verso chi è nella stanza dei bottoni per, alla fine, non cambiare nulla, anzi, assecondare lo smantellamento dei residui di concquiste sociali e garantisi l'autoperpetuazione. gli Elkan ed i Draghi continueranno a brindare finchè ci sono sindacati così. va detto che non si vedono alternative praticabili
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AlsOb
Monday, 29 January 2024 16:19
È infatti un poco imbarazzante replicare al simpatico duo di alienisti a caccia di alienati o farfalle, data la pretestuosità e schizofrenia del trattatello semiesogenamente rivoluzionario-reazionario fabbricato.
Nondimeno gli estesi chiarimenti metodologici risultano utili integrazioni e potrebbero convertirsi in una appendice inserita nel libro.
Pretestuosa e schizofrenica appare una critica che da un lato privilegia un rivoluzionario cambiamento del modo di accumulazione capitalistico, giacché sarebbe insoddisfacente limitarsi all’inflazione e aggiustamenti di prezzi da guerra distributiva sul surplus, e dall’altro propaganda la nazi ultraneoliberale Europa e i connessi rapporti di forza garantiti dai poodles dell’impero.
Vi è però da dire, per accontentare il duo alienista, parafrasando il grande Kaldor, che i tedeschi, per fare giustizia alla loro tara mentale e follia mercantilista, oltre a contribuire al terzo genocidio in cento anni, da buoni e insani poodles hanno minato pure il loro modo di accumulazione basato sull’estremistico mercantilismo e sui bassi costi energetici, per constatarne e sperimentarne gli effetti sull’inflazione, produzione e esportazioni.
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