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Renziana, la squadraccia digitale che fa parlare di sé
Redazione
La presa del potere di Matteo Renzi, eletto alla segreteria del Pd, nei sempre più rari sottoboschi della politica viene definita come il trionfo di un ex Dc in un partito sostanzialmente egemonizzato dagli ex Pci. Certo, l’appartenenza di Renzi ai giovani popolari, ultima stagione democristiana, è innegabile. Come il fatto che Renzi abbia conteso ad Angelino Alfano, quando si dice il destino, proprio la segreteria nazionale dei giovani popolari nei primi anni ’90. Eppure, proprio se si guarda a Firenze, Renzi non fa parte della tradizione Dc dei La Pira o del cattolicesimo popolare che ha prodotto, oltre a livelli oggi inimmaginabili di clientelismo, quadri intellettuali e politici attenti alle dinamiche di equilibrio sociale. Certo il milieu politico dal quale nasce Renzi - basta guardare al padre che è punto di incrocio tra politica, comunicazione e mattone - è abbastanza chiaro. Ma, dal punto di vista culturale, Renzi è un’anomalia. Nel nuovo segretario del Pd c’è piuttosto una rielaborazione, grazie alla cultura neotelevisiva e dietro modi che si vogliono simpatici, dell’arroganza dello squadrismo fiorentino. Quello della “Disperata”, che si scagliava contro i lavoratori del capoluogo della regione. Allora usando il manganello come procedura, mentre oggi, sempre contro i lavoratori, usando la procedura, di privatizzazione, come un manganello.
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Identità e cattiva coscienza
Il difficile congresso del Pd
di Giorgio Salerno
La perdita dell’identità
All’indomani della condanna definitiva di Berlusconi il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, nell’editoriale “Le conseguenze della verità”, del 2 agosto 2013, scriveva:”Per giungere a questo esito – rendere compiutamente giustizia - ci sono voluti 10 anni di indagini, 6 anni di cammino processuale continuamente accidentato dai ‘mostri’ giudiziari costruiti con le sue mani dal premier Berlusconi [..] Rivelatisi infine inutili anche i ‘mostri’, che hanno menomato il processo ma non sono riusciti ad ucciderlo, è scattato il ricatto psicologico su istituzioni deboli e partiti disancorati da ogni radice identitaria” (evidenziazioni mie). Qualche giorno dopo, il medesimo, nell’editoriale del 7 agosto “Perché bisogna dire no”, aggiungeva: “Ma la disperazione berlusconiana sta raccogliendo tutti gli elementi sparsi della cultura ventennale di una destra populista, carismatica, a-occidentale, per comporre una testa d’ariete e forzare istituzioni deboli, partiti prigionieri della loro indeterminatezza, soprattutto identitaria” (evidenziazioni mie).
Le due citazioni contengono delle valutazioni pienamente condivisibili e, per certi aspetti, inattese o almeno singolari. Singolari e bizzarre, visto il pulpito da cui proviene la predica, e cioè dal quotidiano e dal gruppo editoriale che più si è speso nel processo di cambiamento, anzi di annientamento, del Partito Comunista Italiano, un partito dotato più di altri di una forte caratterizzazione identitaria.
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Una politica per crescere
Catturare la domanda globale
Sergio Parrinello
Quando si pone il problema delle politiche dell’offerta lo si fa solitamente per riproporre ricette di politica economica che invocano il contenimento del costo del lavoro e la riduzione della spesa pubblica. Si è in altri termini posseduti da una versione moderna della Treasury view sposata incautamente da Winston Churchill nel 1929. Eppure progettare politiche dell’offerta è un compito troppo serio per essere lasciato ad una visione (e cultura) economica miope, sebbene dominante. Questa visione tollera la vulgata in cui “riduzione della spesa” è diventata sinonimo di riduzione degli sprechi e che il senso di “contenimento del costo del lavoro” sia quello rassicurante di riduzione del cuneo fiscale, invece che del salario. La stessa visione tollera che, quando quelle ricette per la crescita sono poste in discussione da fondate obiezioni teoriche, si risponda che si tratta di ricette necessarie anche se non sufficienti: quindi esse diventano inattaccabili, perché la loro (in)efficacia non potrà mai essere confutate dall’evidenza empirica. Intanto – si dice – sono ricette che vanno attuate, in attesa che si realizzino quelle sufficienti. Proveremo qui di seguito ad affrontare questo muro di gomma da un punto di vista Post-Keynesiano adattato a un’economia globalizzata. L’adattamento riguarda il lato dell’offerta, la teoria degli scambi internazionali e la traduzione della domanda effettiva da globale in nazionale.
Uno dei problemi economici che affliggono oggi l’Italia consiste nella morsa che costringe le performance commerciali delle sue imprese[1] e che induce molte di esse a delocalizzare.
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Avviso ai naviganti: succederà qualcosa il 9 dicembre?
Redazione Infoaut_Torino
Qualche giorno fa abbiamo ripubblicato su questo sito un articolo di Osservatorio Democratico (L’ultimo travestimento di Forza nuova) in cui si svelavano le imbarazzanti identità di alcuni dei soggetti (singoli e gruppi) organizzanti la giornata di mobilitazione del 9 dicembre (e forse oltre) denominata “rivoluzione italiana”. Com’era da aspettarsi, l’articolo in questione è stato ripreso da molti altri siti e portali “di movimento”. Su Infoaut ha totalizzato più di 4000 “mi piace”. Siti di compagn* che rispettiamo (pur nelle differenze) come contropiano e senzasoste hanno fatto propria e approfondito questa lettura unilaterale del fenomeno. Tutto liscio? Tutto chiaro? Tutto perfettamente lineare? Permetteteci di dubitare… alla certezza dell’analisi delle identità preferiamo il metodo di lettura della composizione di classe (e delle sue ambivalenze) e l’andare a veder quel che si muove come compito minimo del militante.
Senza pretese, partiamo da impressioni molto personali e da feedback ripetutamente ricevuti in queste ultime settimane da singol* compagn*, senza omettere dubbi, perplessità e ambiguità che pure sono molte.
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Con Tsipras, per una lista di cittadinanza europea
di Alfonso Gianni
Dalla crisi nella quale siamo immersi non si può uscire né con brodini caldi (come punta a fare la finanziaria in discussione in Parlamento), né con il nuovo piano di dismissioni e privatizzazioni annunciato dal governo. Occorre rimettere in discussione i trattati europei: ecco perché le prossime elezioni per il rinnovo del parlamento Ue sono così importanti.
Con la legge di stabilità (ex legge finanziaria) attualmente in discussione alla Camera sono entrate in vigore le ultime norme che la governance europea si è recentemente data, derivanti dal Trattato detto Two pack. Nella fattispecie esse consistono nel fatto che il testo della legge di stabilità, prima ancora di essere messo in discussione dai singoli parlamenti, deve ricevere una supervisione dagli organismi europei, i quali hanno il potere di entrare nel merito per verificare se la legge proposta è congrua con gli obiettivi di riduzione del debito che la Ue si è data. In caso contrario il governo è invitato da apporre le correzioni “suggerite” dalla Commissione europea. Solo dopo interverrà il Parlamento.
E’ evidente che siamo di fronte ad un ulteriore passo verso il rafforzamento in senso a-democratico degli organi di governo della Ue.
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Genova per noi
Lotte operaie, organizzazione di massa, soggettività politica
Collettivo Noi saremo tutto Genova
Pubblichiamo di seguito una cronaca ed un’analisi del Collettivo Noi saremo Tutto di Genova sulle “cinque giornate” di lotta dei ferrotramvieri del capoluogo ligure.
Per cinque giorni a Genova, il trasporto pubblico cittadino è stato bloccato dall’iniziativa autonoma degli operai AMT. Ciò ha obbligato sia i sindacati di regime, il cui peso all’interno dell’azienda è ridotto all’osso, sia il “sindacato autonomo” a cavalcare la tigre della rabbia operaia. Sabato mattina, dopo una votazione farsa, lo sciopero è terminato sancendo, di fatto, una tregua armata. Al momento non ci sono né vinti, né vincitori. Una situazione di stallo che lascia aperte diverse prospettive. Questa lotta non si è limitata a questo, poiché da un lato ha assunto una valenza nazionale in relazione ai nodi del trasporto pubblico, dall’altro, ed è l’aspetto preponderante, ha indicato i non improbabili scenari che il conflitto capitale/lavoro salariato potrebbe riservare di qui a poco. Tutto ciò contribuisce non poco, sul piano del dibattito politico complessivo, a ricalibrare intorno alla centralità del lavoro operaio e subordinato i limiti e le genericità emersi dentro le giornate romane del 18 e 19 ottobre.
Nelle “giornate genovesi” si è ampiamente evidenziato come la reale posta in palio delle politiche governative sia la messa in mora della legittimità politica, sociale e sindacale dei lavoratori e la loro riduzione a puro e semplice capitale variabile. Semplici accessori dei processi di valorizzazione ai quali deve essere inibita ogni forma di esistenza e resistenza pubblica e collettiva.
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Crisi finanziaria e capitalismo cognitivo
D. G. Lassere intervista Yann Moulier-Boutang
La crisi che scuote il mondo intero da cinque anni pare non voglia calmarsi. Il discorso convenzionale pone sul banco degli accusati la separazione progressiva tra una cosiddetta economia reale, buona e produttiva, e una finanza semplicemente parassitaria, tagliata fuori da ogni connessione col mondo concreto. Da parte tua, sebbene non sottostimi per nulla il dominio e il ricatto esercitati dai mercati e dagli operatori finanziari, rifiuti ogni distinzione così netta. Pertanto, ritieni che non ci si possa più limitare a invocare un fantasmagorico ritorno al reale. Potresti spiegare perché le cose non son così semplici come sembrano?
In effetti bisogna distinguere la parte finanziaria dell’economia reale, dalla parte non finanziaria dell’economia reale. Entrambe sono pienamente reali. Del credito, che è la sostanza della moneta la cui forma consiste nella più o meno grande liquidità o esigibilità (le famose forme della massa monetaria M1, M2, M3), genera immediatamente delle possibilità d’investimento, dei salari, degli acquisti di beni e servizi, degli impieghi. Ciò che succede è che la parte finanziaria dell’economia reale diventa via via più gigantesca a mano a mano che l’economia diventa più complessa, e che si accrescono l’interdipendenza e la mutualizzazione degli impegni contrattuali o legali e regolamentari. Per 150 miliardi di dollari quotidiani di PIL mondiale e altrettanto di commercio di beni, si hanno 1500 miliardi di transazioni che coprono il rischio di cambio e 3700 miliardi di transazioni su delle promesse concernenti il futuro, i famosi prodotti derivati.
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Rivalutazione delle quote di Banca d'Italia
La più grande truffa del secolo
Piero Valerio
Ad un certo punto bisogna chiamare le cose con il loro nome: sarò pure un “populista” (e confermo di esserlo con grande orgoglio ed immenso disprezzo per chi cerca di denigrare coloro che fanno attività politica a favore dei “popoli” e non ad esclusivo beneficio di ristrette “èlite oligarchiche”), “arruffapopoli”, “masaniello dei poveri”, ma quello che sta avvenendo oggi in Italia non può essere definito diversamente da “crimine contro la nazione”, “alto tradimento”, “saccheggio”, “vandalismo istituzionale ed istituzionalizzato”. Ho sempre guardato con sospetto quei movimenti detti “signoraggisti” che vedono esclusivamente nella proprietà del denaro l’unico strumento per ridare dignità ai popoli, perché credo fortemente che non sia tanto la proprietà del denaro la vera discriminante fra una democrazia compiuta e una dittatura di fatto, quanto l’utilizzo che viene fatto del denaro e della politica monetaria in genere. Una banca centrale può essere pure privata, ma se poi le sue scelte di politica monetaria vengono subordinate alle direttive che arrivano dal governo democraticamente eletto e indirizzate al benessere dell’intero paese, a me può stare pure bene che qualche “grasso banchiere privato” si ingozzi con le “briciole del signoraggio”. Ma qui in Italia abbiamo abbondantemente sorpassato ogni limite di decenza, dando persino adito alle inutili rivendicazioni dei “signoraggisti”.
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Il debito porta scompiglio nei fan di Monti e Letta
di Guido Viale
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Queste parole di Eugenio Scalfari (Repubblica, 1-12) segnano, se prese sul serio, una svolta radicale nella linea politica di questo giornale che dal giorno della "salita" al governo prima di Monti e poi di Letta è stato, al livello delle opinioni che contano, il principale puntello di quei due governi e dei relativi presidenti del consiglio, che hanno fatto dell'accettazione incondizionata dei diktat economico-finanziari di Germania, Bce e Unione europea la ragione della loro esistenza e legittimazione. Massacrando la popolazione che avrebbero dovuto guidare fuori dalla crisi, rivelandosi tanto ridicoli quanto inetti (con il dramma degli esodati il primo, la farsa dell'Imu il secondo...).
Ora Scalfari ci spiega una cosa che già sa uno studente del primo anno di economia o un bancario a inizio carriera: quando il debito è consistente, il coltello dalla parte del manico (la «spada di Brenno») ce l'ha il debitore e non il creditore.
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Freedom not Frontex
I migranti, i rifugiati e la loro lotta per la libertà globale di movimento
di Hagen Kopp – Kein mensch ist illegal, Hanau*
Il contributo che pubblichiamo è la versione fortemente rivista e aggiornata di un articolo pubblicato nel maggio 2013 in Forum Wissenschaft. La ricostruzione di alcune vicende degli ultimi mesi, così come delle campagne che cercano di opporsi alle condizioni che le hanno prodotte, mettono in evidenza il carattere immediatamente politico delle migrazioni. Il numero agghiacciante dei morti, l’indifferenza istituzionale, la miseria amministrativa, il razzismo esplicito e latente, la sopraffazione quotidiana esercitata sui confini e dentro a ogni Stato, non stabiliscono i contorni di una questione umanitaria. Esse sono l’esito di un inesauribile e insopprimibile desiderio di libertà che ottiene come risposta una deprivazione dei diritti. Quest’ultima, tuttavia, non è una lacuna giuridica, ma lo strumento politico per costruire soggetti che dovrebbero accettare come inevitabile e naturale la loro totale assenza di potere. I movimenti dei migranti rivelano invece lo scontro tra un potere mobile e disordinato e una repressione violenta e ottusa. Questo scontro si estende ben oltre la situazione dei rifugiati, ma investe l’intera condizione dei migranti, quotidianamente presi tra il potere della loro libertà e lo sfruttamento e il razzismo istituzionale.
«Niente impronte digitali».
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Sul concetto di miseria sociale e sui proudhoniani 2.0
Sebastiano Isaia
1. Sul concetto di miseria sociale
Il lavoro-merce è una tremenda verità (1).
Il lavoro salariato come suprema maledizione sociale toccata in sorte al moderno proletariato è il punto di partenza (la tetragona premessa teorica e politica) della mia riflessione intorno alle rivendicazioni “economiche” dei lavoratori.
Qui per moderno proletariato intendo la marxiana «razza dei salariati» che fu brutalmente separata dalle condizioni materiali della propria esistenza («mezzi di sussistenza e mezzi di produzione») dal Capitale nel suo momento genetico, e che, in ragione di ciò, vede i suoi sfortunati membri nella necessità di vendere capacità fisiche e intellettuali (qui una distinzione puramente formale) in cambio di un salario. A tutti gli effetti, una razza maledetta. Oggi come e più di prima. «La separazione si estende fino al punto che quelle condizioni oggettive del lavoro si oppongono al lavoratore come persone autonome, perché il capitalista, in quanto proprietario di questa condizione, si oppone solo come loro personificazione all’operaio che è il semplice possessore di capacità lavorativa. Questa separazione e autonomizzazione sono la premessa alla realizzazione della compra-vendita della capacità lavorativa» (2).
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Il ritorno della dialettica
Recenti letture del Primo libro del Capitale a firma di Harvey e Jameson
Marco Gatto
1. Pur tenendo conto dell’imprescindibile differenza tra i due approcci al testo, le interpretazioni che David Harvey e Fredric Jameson hanno recentemente offerto del primo volume di Das Kapital condividono molto più di quanto si creda[1]. Non solo perché i due studiosi americani incarnano differenti figure intellettuali: Harvey si definisce da sempre geografo e urbanista e il suo interesse filosofico, seppure solo in apparenza periferico, è spesso spostato in un secondo piano; Jameson è un teorico della cultura (e della letteratura, in particolare) sensibile alla lezione di Lukács e della Scuola di Francoforte (con una predilezione spiccata per Adorno), e ha provato, nel corso della sua esperienza filosofica, a importare nel contesto americano, a lungo egemonizzato dall’empirismo, la tradizione dialettica europea. Tuttavia, l’uno e l’altro si inseriscono a pieno titolo in un campo marxista: probabilmente Jameson con maggiore ed esibita insistenza. Se il marxismo di Harvey nasce dall’esigenza di «rivendicare che sia sul terreno dell’analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica»[2] della critica di Marx al modo di produzione capitalistico, collocandosi dunque in un ambito di demistificazione dell’economia politica e di teorizzazione della nuova spazialità finanziaria, il marxismo di Jameson è invece legato a doppio filo al cosiddetto “marxismo occidentale” (secondo l’etichetta messa in campo da Perry Anderson)[3], ossia a quella costellazione di pensatori e teorici della cultura che, nel corso del Novecento, avrebbero condotto l’eredità di Marx verso una dissoluzione del nesso “teoria-prassi” e lungo i binari di una coesistenza, forzata ma sentita come inevitabile, con altri saperi e altri codici interpretativi, decretando l’inizio di una perdurante passività politica e di un’inevitabile impotenza rivoluzionaria[4].
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MES: il metodo e la follia
Mauro Poggi
In un recente storify Claudio Borghi rammenta, con giustificata irritazione, l’esistenza di un’entità europea chiamata MES.
A dire il vero non sono sicuro che il verbo “rammentare” sia l’espressione più adeguata: si può rammentare solo qualcosa che già si conosce, e il MES – per la maggior parte di noi – è solo uno dei tanti acronimi di cui l’Europa è prodiga e di cui si ignora il significato. Insieme a LTRO, LFSF, Fiscal-compact, Two-packs, Eurogendfor e altri ancora, è solo uno dei tanti lemmi della neo-lingua europea, bizzarrie tecno-burocratiche, complicate ma in apparenza sostanzialmente innocue, davanti a cui il cittadino medio si ritrae pigramente, convinto che le cose importanti sono altrove. Una convinzione che i media assecondano con zelo, e contro la quale si levano solo le voci del web, che per loro natura non possono mai arrivare al “grande pubblico”.
Probabilmente “Fondo salva-stati” suonerebbe più familiare, ma il lodevole scopo che l’espressione sottintende è tale da indurre chiunque a darlo per assodato e a non indagare oltre. A chi non sta bene che gli stati vengano salvati?
Riepilogo allora per i più distratti.
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Andare oltre
di Sandro Moiso
A distanza di un mese dalla manifestazione nazionale del 19 ottobre a Roma, sabato 16 novembre si sono tenute due manifestazioni che per contenuti, modalità, composizione sociale e partecipazione ne hanno ripetuto i fasti ampliandone la portata e il significato politico.
Nonostante, infatti, il tentativo da parte dei media di tenere separate la manifestazione di Napoli, contro l’inquinamento camorristico e l’avvelenamento istituzionale del territorio, da quella di Susa, contro il TAV, non vi può essere alcun dubbio che le due manifestazioni fossero tra loro strettamente correlate.
Decine di migliaia di persone, molte di più di quelle già presenti a Roma, hanno finito col ritrovarsi unite in due manifestazioni che di fatto hanno delegittimato l’attuale sistema economico-politico e il regime consociativo (Destra, Sinistra, Mafie, Banche) che ne “giustifica” l’esistenza.
Le ragioni della lotta NoTAV sono state ripetutamente e frequentemente esposte qui su Carmilla e per una volta non vale la pena di tornarci sopra, ma sono stati i contenuti della manifestazione napoletana a far, letteralmente e chiaramente, saltare il banco politico.
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Reddito di povertà
di Andrea Fumagalli
26 novembre 2013: una news fa scalpore tra i media italiani. In Italia è stato introdotto il reddito minimo garantito! Colpo di scena! “Prove di reddito minimo”, titola Repubblica festante. “Spunta il reddito minimo” risponde il Corriere della Sera. Ma è vero? Pas du tout. Quello che è stato introdotto (solo in via sperimentale per tre anni), nel maxi emendamento che dovrebbe essere votato con la fiducia per approvare la legge di stabilità 2014, è in realtà un miserevole reddito parziale, selettivo, di povertà. E non può essere altrimenbti, visto che sono sati stanziati 40 milioni (meno che per la Social Card) e la sua attuazone vale solo per 12 aree metropolitane. Ancora una volta in Itala parlare di reddito di base come misura non selettiva per consentire la fuoriuscta dalla povertà e favorire il diritto di scelta di via e di lavoro è un vero e proprio tabù.
* * * * *
In Italia qualunque intervento di sostegno diretto al reddito incontra, come ben sappiamo, notevoli difficoltà, in primo luogo culturali. Nonostante il tasso di attività nel nostro Paese sia tra i più bassi a livello europeo, resta radicata un’etica del lavoro di calvinistica memoria, che considera immorale qualunque sostegno al reddito slegato dall’obbligo di una prestazione lavorativa.
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Anzola è il mondo?
Alcuni/e compagni/e
A mo’ di introduzione

Le note che seguono non hanno alcun intento normativo, né si propongono di illustrare esaustivamente il percorso, peraltro ancora in divenire, delle lotte operaie nel settore della logistica; piuttosto si vorrebbe proporre una chiave di lettura altra per inquadrare la situazione attuale delle lotte rivendicative in Italia, ed anche al di là dei confini italiani. Le lotte dei facchini della logistica hanno dato modo di sognare o, per meglio dire, di fantasticare a molti. Esse hanno permesso agli sparuti nostalgici del Gran Partito e dei ranghi compatti della classe operaia, di menare innanzi i loro sogni di ricomposizione, e hanno egualmente dato modo ad un ceto politico neo-sindacale e “movimentista” di rifarsi momentaneamente un'innocenza da tempo perduta. I primi hanno dovuto cedere alla delusione un po' ovunque. La particolarità di Anzola è che anche i secondi se la sono vista brutta. Quanto ai facchini – i famosi diretti interessati, quelli che hanno lottato per davvero e ci hanno messo la faccia e la pellaccia –, loro sono usciti dalla lotta abbastanza malridotti. Dal paragone con altre esperienze nel settore della logistica, possiamo comunque affermare che ci siano assonanze nei percorsi, nonché epiloghi simili al caso di cui trattiamo qui.
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Slavoj Žižek pensatore pericoloso?
Diego Fusaro
Domenica 1 dicembre, il filosofo Slavoj Žižek è stato ospite della trasmissione “Che tempo che fa” diretta da Fabio Fazio. Non è interessante, in questa sede, discutere della trasmissione in quanto tale, su cui peraltro già vi sarebbe molto da dire. La trasmissione di Fazio è, in estrema sintesi, l’equivalente televisivo del quotidiano “La Repubblica”, il luogo della riproduzione del politicamente corretto e dell’ideologia di legittimazione dell’esistente.
Certo, si tratta di un fatto hegelianamente noto, ma non conosciuto: ma non è di questo che intendo occuparmi, né di come la trasmissione di Fazio svolga la funzione di rassicurazione ideologica per la gente semicolta del ceto della sinistra politicamente corretta, antiborghese e ultracapitalista, nemica di ogni possibile formazione ideologica in grado di opporsi al capitale dominante.
E, tuttavia, occorre partire dal fatto che, nel rassicurante e comodo salotto della trasmissione di Fazio, vengono sempre e solo invitati ospiti organici a quella cultura. Perché, dunque, invitare il filosofo irregolare Slavoj Žižek, colui che mai ha rinnegato il nome di Marx e che, in tempi recenti, ha addirittura preteso di riabilitare Hegel, l’autore più dissonante in assoluto rispetto all’ordine della globalizzazione trionfante (si veda, a questo proposito, l’ultimo lavoro di Žižek, Meno di niente, Ponte Alle Grazie 2013)?
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L’unificazione della Germania ed il futuro dell’Europa
di Francesco Maringiò
In questo libro Vladimiro Giacché ripercorre tutta la storia della così detta unificazione tedesca, illuminando di luce diversa una vicenda storica, per anni raccontata attraverso letture apologetiche e funzionali ed un processo politico di cancellazione della RDT ed integrazione della stessa nel capitalismo tedesco occidentale. Ma nel raccontare nel dettaglio questa storia, il libro impone una riflessione critica ed una lettura diversa dei processi di integrazione europea. Un interessante contributo storiografico e di analisi dei processi politici dei giorni nostri.
(Morpheus in: Matrix, 1999, regia di Lana e Andy Wachowski).
Dovrebbe iniziare pressappoco in questo modo la premessa dell’ultima fatica di Vladimiro Giacché [Anschluss - L’Annessione, L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa; 2013, Imprimatur Editore, 304 pagg., 18 €] che ha, tra gli altri, il pregio di fare luce su una delle vicende più importanti della recente storia europea e sulla quale si è costruito ad hoc un mito ed una accurata narrazione, centrata sulla storia dell’unificazione della Germania, motore dell’unificazione del popolo tedesco e della fine della guerra fredda.
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Il comune senso del pudore
di Franco Senia
Nel suo ultimo saggio, pubblicato nel mese di marzo di quest'anno, "Les mystères de la gauche" (I misteri della sinistra), con il sottotitolo "dall'illuminismo al trionfo del capitalismo assoluto”, Jean-Claude Michéa riprende la formula di Castoriadis secondo cui "è da molto tempo che il divario fra la destra e la sinistra, in Francia come altrove, non corrisponde più né ai grandi problemi del nostro tempo né a delle scelte politiche radicalmente opposte." Una valutazione assolutamente banale che però non sembra poi così condivisa a sinistra. Precisa l'autore, che il suo saggio trae origine da uno scambio epistolare con un militante del PCF/Front de gauche per il quale solo "la sempre più crescente indignazione della gente comune" (Orwell) nei confronti di una società sempre più amorale, ineguale ed alienante, può essere la cifra esclusiva della sinistra.
Ragion per cui, non sembra inutile a Michéa ricordare, fin dalle prime pagine - e sotto forma di invito a valutare la cosa -, che "né Marx né Engels si sono mai sognati, nemmeno una sola volta, di definirsi come uomini di sinistra"; aggiungendo inoltre che quando sono arrivati a fare uso di un tal genere di terminologia, per loro "la destra designa l'insieme dei partiti che rappresentano l'interesse (a volte contraddittorio) della vecchia aristocrazia terriera e della gerarchia cattolica.
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La nuova ragione del mondo
Il neoliberismo come forma di vita
di Pierre Dardot e Christian Laval
[Esce in questi giorni per DeriveApprodi l'edizione italiana di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval, un libro importante nel dibattito sul neoliberismo contemporaneo. Il libro di Dardot e Laval è una vera «genealogia del presente», scrive Paolo Napoli nella prefazione all'edizione italiana, un tentativo di spiegare come le società contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il neoliberismo non è solo un'ideologia o una politica economica: è innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che struttura l'identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza mercantile, di governamentalità diffusa. Presentiamo alcune pagine del capitolo finale].
La fine della democrazia liberale
Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro.
Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista»[1].
Secondo, l’essenza dell’ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2].
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Ma che cos'è questa crisi
di Marcello De Cecco
Da dove origina e dove rischia di condurci la crisi che da sei anni affligge i principali paesi sviluppati? Che cosa accadrà dell'Europa e dell'euro? Pubblichiamo l'introduzione dell'ultimo libro di Marcello De Cecco, Ma che cos'è questa crisi, edito da Donzelli
La crisi affligge da sei anni i principali paesi sviluppati. Essa ha colpito il cuore dell’economia mondiale dopo avere investito, nel 1997-98, i paesi emergenti, specie quelli asiatici. Ora, secondo tradizione, pare voler abbracciare nella sua stretta mortale anche loro, che nell’attuale convulsione sembravano essere stati risparmiati e mostrare anzi un’invidiabile capacità di crescere e prosperare, malgrado le traversie del centro.
Da questa enorme convulsione l’economia ma anche gli assetti politici mondiali usciranno completamente cambiati. Non sappiamo cosa accadrà dell’Europa e dell’euro e nemmeno sappiamo quanto del cosiddetto modello europeo di organizzazione economica e politica sopravvivrà. Sappiamo che gli equilibri mondiali ne usciranno profondamente mutati, con l’ascesa che sembra inarrestabile della Cina e con il certo declino relativo dei paesi del centro: Europa, Stati Uniti e Giappone.
Che una grande crisi si stesse scatenando si poteva prevedere certamente nel 2007. Affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale, nel maggio di quell’anno, a conclusione di una lezione che tenni all’Università di Waterloo, in Canada. C’era già stata qualche avvisaglia nelle difficoltà annunciate in febbraio da un paio di istituzioni finanziarie americane, che dichiaravano di avere problemi nel settore dei mutui subprime, una categoria della quale tutti sarebbero venuti a conoscenza di lì a qualche mese, ma che suonava ancora assolutamente sconosciuta ai non addetti ai lavori e anche a parecchi degli addetti.
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Per il buon uso dell'intelletto
Alcuni presenti e futuri lavoratori e lavoratrici dell'intelletto
Se c'è qualcosa che caratterizza drammaticamente questi tempi di "crisi" è il paradosso per cui ad un dilagare di povertà, all'emergere di nuovi (o al riemergere di vecchi) problemi sanitari ed ambientali, si accompagna una immane capacità tecnologica e scientifica inutilizzata – tra macchinari e laboratori inutilizzabili perché non profittevoli o in diicoltà finanziarie, ed intelligenze lasciate a riempire le fila dell'esercito di disoccupati.
Governi "tecnici" e tecnocrati di mezzo mondo ci assicurano che tanto l'origine quanto la soluzione del problema sia a sua volta tecnico-scientifica. La loro scienza economica, che promette di rimediare agli "errori" che ha finora giustificato, ci vorrebbe assicurare il modo in cui far ripartire la crescita. Con questa si riassorbirebbe la manodopera in eccesso, i mezzi di produzione tornerebbero in funzione, e soprattutto ripartirebbe il ciclo di innovazioni che può salvarci dalle catastrofi naturali, anche questa volta promettendo di non ripetere gli errori del passato.
Perché degli effetti controproducenti del sapere e delle applicazioni tecnico-scientifiche ne è piena la storia, anche quella recente: dai pesticidi che, colpendo tanto i propri bersagli dichiarati quanto i loro predatori, son finiti per far proliferare gli agenti infestanti, ai fertilizzanti che hanno finito per erodere la fertilità del suolo;
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Clic! Grillo, Casaleggio & co.
Dialogo con Alessandro Dal Lago
di Jacopo Guerriero
A partire da un’ evidenza: la democrazia è reversibile – e impone fatica e non è mai risolta. Apprezzabile è dunque il pensiero politico volenteroso di non mettersi in gabbia –neppure la rivoluzione è scienza, del resto. Pensando ai nostri giorni, Hanna Arendt lo diceva in modo differente e certo più profondo: «il problema delle moderne teorie del comportamento non è che esse siano sbagliate, ma che potrebbero diventare vere». Forse, allora, va in questa direzione anche Alessandro Dal Lago, sociologo (anomalo nella sinistra italiana, lo definiscono i giornali), che ha scritto un nuovo libro: Clic! (Cronopio, Napoli 2013). Critica radicale di un soggetto politico –del M5S, del grillismo, dell’ascesa dei nuovi imprenditori della politica Grillo & Casaleggio. Giova chiedersi da che parte sta, dove si schiera? Per niente, si perderebbe un occasione. Serve invece leggere questo testo – interrogarlo- ovvero farci un pezzo di strada: per capire slittamenti del pensiero comune, banalità e sottomissioni che dettano il nostro presente. Grillo – la sua attitudine a incrociare e risolvere contraddizioni; il suo amore per le retoriche della rete, il suo corpo gettato nella lotta politica; la lunare visione del mondo del suo socio Gian Roberto Casaleggio – è forse solo un sintomo: del presente e del suo piccolo borghese desiderio di palingenesi.
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Ma è possibile uscire dall'euro e adottare in Italia
le politiche della Modern Monetary Theory?
by Elido Fazi
Ringrazio Ricky che mi ha segnalato il manifesto “Non Eravamo i PIIGS. Torneremo Italia”. Il documento, preparato dagli economisti Warren Mosler (uno dei più conosciuti fautori della Moderna Teoria Monetaria), Mathew Forstater, Alain Parguez e il giornalista eretico italiano Paolo Barnard, propone un ritorno unilaterale dell’Italia alla lira e una messa in pratica nel nostro paese delle tesi della scuola economica che si rifà alla Modern Monetary Theory (MMT). Dirigo, insieme al teologo Vito Mancuso, una collana di teologia che si chiama “Campo dei Fiori” in onore di Giordano Bruno. Ho simpatia per gli eretici come Barnard, anche se su molti punti, alcuni cruciali, non sono d’accordo con lui. Ma devo riconoscergli che, al contrario di molti altri, lui cerca di andare oltre i soliti conformistici articoli sulla crisi che leggiamo troppo spesso sui giornali italiani (e anche su quelli stranieri).
Poiché la tesi dell’uscita della lira dall’Euro è legata alle teorie della Moderna Teoria Monetaria, bisogna cercare di capire che cos’è quest’ultima, portata avanti soprattutto dalla sinistra del Partito Democratico americano (tra i suoi più accesi sostenitori c’è l’economista James K. Galbraith, docente di Scienza delle Finanze all’università del Texas, figlio del celebre economista John Kenneth Galbraith, il più grande studioso della crisi del ’29, consigliere, non si sa se ascoltato o meno, di Barack Obama).
Essendo una teoria propugnata da quella parte della sinistra americana che si è battuta affinché fosse eletta Janet Yellen alla guida della Federal Reserve (a proposito, c’è qualcuno che ha capito il sacro mistero del perché Obama preferisse Lawrence Summers, noto trafficante di Wall Street, consulente di hedge fund, ispiratore della nefasta politica di deregulation sotto la presidenza Clinton, alla Yellen, che ha sempre lavorato nel pubblico e a Wall Street non ha mai messo piede?),
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La Teologia del denaro di Walter Benjamin: il debito
di Mario Pezzella
1. In un frammento del 1921, Il capitalismo come religione[1], Walter Benjamin ha messo in rilievo in che misura il debito sia diventato l’oggetto di culto di una vera e propria teologia del danaro, che ha sostituito in larga misura la “teologia politica”. Benjamin radicalizza le idee di Weber sul rapporto tra modo di produzione capitalista e cristianesimo. Se per Weber il capitale nella sua forma moderna è stimolato dalla concezione calvinista della grazia e del peccato e poi procede alla sua secolarizzazione profana, per Benjamin è esso stesso religione: priva di dogmi, ma con un suo culto ineluttabile e continuo e un “dio minore” che ne perpetua il destino. “Il capitalismo -scrive Benjamin- è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore”[2]. Oggetto di questo rito è la merce, emanazione visibile della astrazione sovrasensibile e spirituale del danaro.
“Questo culto è colpevolizzante-indebitante”. Se il debito è il rapporto sociale che domina e sostituisce ogni altra forma di riconoscimento intersoggettivo tra gli uomini, esso stabilisce immediatamente anche un nesso di colpevolezza.
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