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Sul concetto di miseria sociale e sui proudhoniani 2.0

Sebastiano Isaia

1. Sul concetto di miseria sociale

Il lavoro-merce è una tremenda verità (1).

Il lavoro salariato come suprema maledizione sociale toccata in sorte al moderno proletariato è il punto di partenza (la tetragona premessa teorica e politica) della mia riflessione intorno alle rivendicazioni “economiche” dei lavoratori.

Qui per moderno proletariato intendo la marxiana «razza dei salariati» che fu brutalmente separata dalle condizioni materiali della propria esistenza («mezzi di sussistenza e mezzi di produzione») dal Capitale nel suo momento genetico, e che, in ragione di ciò, vede i suoi sfortunati membri nella necessità di vendere capacità fisiche e intellettuali (qui una distinzione puramente formale) in cambio di un salario. A tutti gli effetti, una razza maledetta. Oggi come e più di prima. «La separazione si estende fino al punto che quelle condizioni oggettive del lavoro si oppongono al lavoratore come persone autonome, perché il capitalista, in quanto proprietario di questa condizione, si oppone solo come loro personificazione all’operaio che è il semplice possessore di capacità lavorativa. Questa separazione e autonomizzazione sono la premessa alla realizzazione della compra-vendita della capacità lavorativa» (2).

In effetti, come lo stesso Marx svelò a suo tempo attraverso la critica dell’economia politica smithiana, il salario non paga, per così dire, il lavoro, cioè a dire una specifica prestazione professionale, come suggerisce l’apparenza dello scambio Capitale-Lavoro fissato teoricamente dalla scienza economica borghese; ciò che in realtà il capitalista acquista sul mercato del lavoro è l’intera esistenza del lavoratore o, meglio, il diritto di poterne usare la forza-lavoro per un tempo stabilito contrattualmente. È il lavoratore che il capitalista porta a casa, ossia nel luogo predisposto al suo consumo in vista di un profitto. «Appunto in quanto capacità di creare valore essa [la forza-lavoro] viene acquistata» (3). Il salario non è dunque il prezzo del lavoro ma del lavoratore, il quale è a tutti gli effetti una bio-merce il cui valore d’uso è rappresentato appunto dalla capacità di conservare valore vecchio e di creare nuovo valore che al proprietario delle condizioni lavorative (macchine, materie prime, ecc.) non costa nulla: alludo al famigerato plusvalore.

Ne segue che la corretta domanda che la prassi capitalistica invita a formulare a chi intende carpirne i segreti non è quanto costa un peculiare tipo di lavoro, ma piuttosto quanto costa al capitalista l’esistenza del lavoratore che egli intende “mettere a profitto”. Il lavoratore, insomma, non vende (capacità professionali): egli si vende, anima e corpo.

Questa cinica realtà naturalmente non si accorda con le illusioni che il lavoratore coltiva su se stesso in quanto depositario di capacità tecniche e di preziose esperienze professionali; è alle sue spalle che si compie la maledizione capitalistica che trasforma un uomo (non solo il suo lavoro) in una merce. È infatti questa sua disumana condizione sociale che ne fa un lavoratore salariato.

A differenza di quanto accade per le transazioni che riguardano le altre merci,nella fattispecie qui presa in considerazione il venditore-lavoratore si dà in un’unica soluzione con la merce offerta all’acquirente-capitalista. (Abbiamo visto come questo punto di vista mercantile rimanga alla superficie della reale dialettica Capitale-Lavoro). Chi vende automobili non è obbligato a seguirne il destino, e anzi non gli importa nulla del loro uso da parte di chi le acquista. Nel caso della bio-merce le cose vanno in modo affatto diverso, perché il venditore-lavoratore non può alienare la propria merce (ciò che nello scambio con l’acquirente-capitalista appare come propria merce, ossia come una peculiare capacità professionale) senza alienare interamente se stesso: è una vera e propria maledizione. «La forza-lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua personalità vivente» (4). È appunto questa personalità vivente il vero ed esoterico oggetto della compravendita che fonda il dominio sociale capitalistico.

«Che cos’è, dunque, il valore della forza-lavoro? Come per ogni altra merce, il suo valore è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua produzione [Esso] è determinato dal valore degli oggetti d’uso corrente che sono necessari per produrla, svilupparla, conservarla e perpetuarla» (5). È chiaro che, ad esempio, il lavoratore che possiede sofisticate capacità tecniche costa di più, almeno in linea di principio, del lavoratore che queste capacità non ha avuto modo di acquisirle, e questo semplicemente perché l’istruzione tecnico-scientifica che il primo ha avuto, e che magari necessita di un continuo aggiornamento, ha un costo che si scarica sul suo prezzo d’acquisto.

Gli «oggetti d’uso corrente» che entrano nella “dieta” del lavoratore, ossia che gli consentono di vivere come tale (famiglia compresa), vengono chiamati beni-salario, appunto perché il loro prezzo determinano, sempre in linea generale, il prezzo del lavoratore, ossia il suo salario. Va da sé che tale prezzo non ha un carattere assoluto, ed anzi la sua natura può venir spiegata solo in termini relativi, ossia in rapporto alla produttività sociale del lavoro, al grado di sviluppo dei Paesi capitalistici, alla tradizione storica e culturale di essi, alla congiuntura del ciclo economico e via discorrendo. D’altra parte nel Capitalismo ogni cosa ha una natura relativa, mentre il solo assoluto che esso conosce è rintracciabile nella bronzea legge del massimo profitto.

A Marx è stato rimproverato il suo – per altro del tutto frainteso – pauperismo. Naturalmente l’ubriacone di Treviri era fin troppo dentro i misteri del Capitalismo per incorrere nel grossolano errore di interpretare in chiave pauperistica il rapporto tra Capitale e Lavoro. Lavoro salariato e capitale (1849) e Salario, prezzo e profitto (1865) rappresentano una smentita ai critici “pauperistici” di Marx scritta in un linguaggio che anche i non iniziati alla critica dell’economia politica possono capire.

L’aumento della miseria sociale nella «razza» maledetta dei lavoratori salariati di cui parla Marx non ha niente a che fare con l’indigenza materiale denunciata, a partire da diverse motivazioni e in vista di differenti obiettivi critici e pratici, da Malthus e Sismondi. Ciò che il comunista tedesco intese mettere in luce è in primo luogo il progressivo accrescimento della potenza sociale del Capitale e il conseguente inarrestabile arretramento della condizione sociale dei salariati, sempre più dominati dalla bronzea legge del massimo profitto. «Il potere della classe capitalista sulla classe operaia è aumentato; la posizione sociale del lavoratore è peggiorata, è stata sospinta un gradino più in basso al di sotto di quella del capitalista» (6).

Per Marx la miseria sociale del proletariato cresce in termini relativi nella misura in cui cresce in termini assoluti la ricchezza nella sua odierna forma capitalistica:

«Il salario reale può rimanere immutato, anzi può anche aumentare, e ciò nonostante il salario relativo può diminuire […] Quantunque l’operaio disponga di una maggiore quantità di merci che non prima, il suo salario però è diminuito in rapporto al guadagno del capitalista […] Se dunque con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale […] La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (7).

Riconoscere la centralità del lavoro salariato nella riproduzione dei rapporti sociali capitalistici non solo non implica l’esaltazione della figura sociale (anche etica) degli operai, ma significa al contrario riconoscere nella loro condizione, in ciò che essa presuppone e pone sempre di nuovo, la maledizione sociale che tiene in piedi l’edificio capitalistico. Ma è questa stessa condizione che fa dei salariati la sola classe – potenzialmente – rivoluzionaria e generale, perché essi non possono liberarsi dalla maledizione che li condanna a una miserabile esistenza di bio-merce senza emancipare al contempo l’intera umanità, attraverso l’eliminazione di ogni rapporto sociale classista, con tutto quello che necessariamente ciò implica in termini “strutturali”  e “sovrastrutturali”.

«La condizione dell’affrancamento della classe lavoratrice è l’abolizione di tutte le classi […] La classe lavoratrice sostituirà, nel corso dello sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell’antagonismo nella società civile. Nell’attesa, l’antagonismo tra il proletariato e la borghesia è una lotta di classe contro classe, lotta che, portata alla sua più alta espressione, è una rivoluzione totale» (8).

È unicamente in vista di questa «rivoluzione totale» che Marx elabora la sua posizione sulle lotte “economiche” degli operai, le quali sorgono spontaneamente sulla base della vigente società borghese, senza peraltro metterne in discussione il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che la rende possibile. Ciò che invece è tutt’altro che spontaneo è il salto politicamente qualitativo di quelle lotte, ossia il loro tracimare in una dimensione autenticamente rivoluzionaria. La marxiana critica del tradeunionismo, il quale rappresenta a tutti gli effetti un punto di vista borghese sul rapporto Capitale-Lavoro, si iscrive nello sforzo dei comunisti teso a fare delle lotte “economiche” dei lavoratori una «palestra di comunismo». Più facile a dirsi che a farsi. Soprattutto dopo decenni di collaborazionismo politico e sindacale da parte dei sedicenti comunisti picisti e postpicisti, i quali hanno fatto di tutto per legare i lavoratori al carro degli interessi nazionali. Ma, come si dice, Hic Rhodus, hic salta!

Il superamento rivoluzionario del Capitalismo non pone in essere una nuova divisione classista della società, ma inaugura la storia della Comunità umana affrancata da ogni genere di Dominio, compreso quello esercitato dalla natura, per reagire al quale probabilmente l’umanità precipitò a suo tempo nella maligna dimensione dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Almeno è questa l’idea che mi sono fatto della genesi del “peccato originale” dentro il quale continuiamo a vivere (9). Un’idea, è bene precisarlo per “onestà intellettuale”, che ha più la natura di un problema aperto che di una compiuta e definitiva risposta.


2. L’autonomia (dalla realtà) dei proudhoniani 2.0

La moneta non è una cosa, è un rapporto sociale (10).

Criticando le posizioni che intendono ristabilire il primato del lavoro produttivo «modello fordista» a detrimento delle attività finanziarie non funzionali al primo (Capitalismo old style versus Finanzcapitalismo, economia reale versus speculazione finanziaria), i teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo e del Comune possono facilmente accreditarsi presso il variegato «popolo di sinistra» come autentici anticapitalisti.  Non appena si confrontano con l’autentico pensiero critico-rivoluzionario, il quale aspira al superamento della condizione di lavoratore in quanto tale in vista dell’uomo in quanto uomo, essi mostrano tutta la loro inconsistenza dottrinaria e politica, essendo la loro concezione dei processi sociali invischiata in un radicalismo piccolo-borghese (per molti aspetti post-proudhoniano) che dà voce alle frustrate ambizioni dei ceti intellettuali, di «coloro che detengono i saperi produttivi», per dirla con un teorico del Comune, delle nuove figure professionali, declassate sia economicamente che in termini di prestigio sociale dall’espandersi e radicalizzarsi del rapporto sociale capitalistico, che stanno al cuore del mitico general intellect. Giusto il Wall Street Journal, ai tempi di Occupy Wall Street, poteva definire la concezione negriana del Comune come il «Manifesto del Partito Comunista versione 2.0». Per gente abituata ad associare il socialismo allo statalismo, al Capitalismo di Stato (la cui forma «sovietica» diventò celebre sotto il giustamente famigerato nome di «socialismo reale»), persino il Comune di Negri può apparire quanto di più “sovversivo” e “radicale” si possa trovare nel mercato delle ideologie.

Il radicalismo post-proudhoniano evocato sopra vuole alludere proprio al cosiddetto Comune, con tanto di moneta “alternativa” («la moneta del comune», appunto), come modo di produzione «endogeno» al Capitalismo che cresce nel seno del Capitalismo stesso, nutrendosi delle sue intrinseche contraddizioni: è lo schema della rivoluzione borghese, la quale irruppe sulla scena storica come ratifica politica del lungo processo sociale che ebbe come protagonisti i ceti borghesi in ascesa, e come premessa per il pieno dispiegamento del nuovo rapporto sociale Capitale-Lavoro. Dal potere materiale (economico) conquistato dalla crema della società civile attraverso la prassi delle transazioni mercantili e dello sfruttamento dei nullatenenti, al potere politico, attraverso guerre nazionali, rivoluzioni politiche e compromessi con l’ancien regime.

Purtroppo la rivoluzione sociale anticapitalistica, la sola rivoluzione all’ordine del giorno sul piano storico, non è surrogabile con “rivoluzioni” di nuovo conio e di incerta definizione.  Ebbene, questa rivoluzione postula l’annientamento del dominio politico delle classi dominanti come ineludibile premessa della società impegnata a mettere gli uomini nelle condizioni di fuoriuscire dalla millenaria dimensione dell’oppressione e dello sfruttamento. Il massimo di indigenza materiale dovrà farsi carico di distruggere il mostruoso potere vigente per costruirne uno nuovo di zecca, del tutto inedito: la terza via non è ancora apparsa all’orizzonte. Almeno non a quello di chi scrive. È precisamente questa originalità storica, per cui per la prima volta è data ai nullatenenti la possibilità di indirizzare il processo sociale, che rende particolarmente difficile e tutt’altro che inevitabile il salto rivoluzionario dal regno del Dominio al regno dell’Uomo.

«Intendiamo, con [Comune], un modo di cooperazione che reintroduce la democrazia in seno alla produzione, in opposizione con il principio gerarchico che caratterizza tanto l’azienda capitalista, quanto la logica burocratica del pubblico. Più precisamente, estendendo all’insieme dei beni la bella definizione che Benkler utilizza per i beni comuni informazionali, “la produzione si basa su dei beni comuni quando nessuno esercita dei diritti esclusivi per organizzare il lavoro e appropriarsi del valore creato, e quando la cooperazione si realizza attraverso dei meccanismi sociali altri rispetto ai prezzi e alle direttive del management» (11).

Di qua il settore capitalistico (pubblico e privato), dove vige la legge dei prezzi (del valore) e del management, ossia la «logica del Capitale»; di là il settore comunardo, ossia la cooperazione sociale che ubbidisce a «meccanismi sociali altri».Certo, «altri». Altri?

Di qua la moneta del Capitale, che esprime «i rapporti di produzione attuali»; di là la moneta del Comune, che «si distinguerebbe dai buoni di lavoro dei proudhoniani circolando all’interno non di una comunità di produttori indipendenti, ma di una comunità di produttori che lavorano per cooperazione. In queste condizioni la sua emissione non potrebbe sconvolgere tanto i rapporti di produzione attuali, quanto velocizzare le mutazioni che intervengono nel quadro stesso di questi rapporti di produzione» (12). Come a suo tempo il modo di produzione capitalistico distrusse le forme economiche precapitalistiche, conquistando l’intero spazio economico-sociale, analogamente il Comune sottrarrà spazio al Capitalismo, fino a causarne l’estinzione per asfissia: è questo lo schema della “transizione” immaginata dai postfordisti? «Dobbiamo pensare il comune come una costruzione sociale e una forma d’organizzazione della produzione in grado di divenire dominante». Più chiaro di così!

In effetti, l’emissione della moneta comunarda evoca un altro possibile scenario, quello caratterizzato dalle – supposte – «mutazioni che intervengono nel quadro stesso di questi rapporti di produzione», che la moneta comunarda s’incaricherebbe semplicemente di «velocizzare». Bontà sua. In ogni caso ci troviamo, a mio modesto avviso, alle prese con un pensiero completamente rovesciato rispetto al reale processo sociale, il quale vede il Capitale, a cominciare dalla sua espressione come general intellect, sempre più espandersi e radicalizzarsi, nel corpo sociale mondiale come nel corpo degli individui. Siamo sempre più impigliati nel «tempo in cui, per parlare in termini di economia politica, ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore» (13). L’idea che la «società nuova» stia crescendo effettivamente già nel seno di quella vecchia, e non sia solo una splendida possibilità radicata nella realtà del Dominio, è una rancida chimera riformista che rimane tale anche quando viene condita con insulse parole “comunarde” e “cognitiviste”. Senza la rottura rivoluzionaria del continuum politico borghese la possibilità rimarrà per sempre tale e non si trasformerà mai in prassi dispiegata.

Tra l’altro, i comunardi qui presi di mira travisano completamente la critica marxiana di Proudhon, o quantomeno non ne colgono l’essenza teorico-politica che le dà profondità analitica, originalità e radicalità.  Quella critica, infatti, intendeva colpire non tanto la «comunità di produttori indipendenti» immaginata dal “miserabile” filosofo-economista francese, quanto la sua concezione ideologica del processo storico, quel «metodo storico descrittivo» che non gli consentiva di comprendere la società capitalistica come una vivente e contraddittoria totalità, all’interno della quale i diversi momenti della prassi economica (produzione e consumo, circolazione della merce e circolazione del denaro, ecc.) sono intimamente connessi gli uni agli altri, necessariamente. Di qui, la particolare “dialettica” piccolo borghese che induceva Proudhon a osservare in «ogni categoria economica due lati, l’uno buono, l’altro cattivo […], il vantaggio e lo svantaggio»: «Tutto il problema da risolvere consiste nel conservare il lato buono, eliminando quello cattivo» (p. 174).

Alla tesi proudhoniana secondo la quale «La moneta nasce dalla consacrazione sovrana: i sovrani si impadroniscono dell’oro e dell’argento e vi appongono il loro sigillo», Marx contrappose la materialistica rampogna che segue:

«È dunque l’arbitrio dei sovrani, per Proudhon, la ragione suprema in economia politica! Davvero bisogna essere sprovvisti di ogni conoscenza storica per ignorare che i sovrani di tutti i tempi hanno dovuto adattarsi alle condizioni economiche, e non sono mai stati essi a far legge in questo campo… È stato il sovrano ad impadronirsi dell’oro e dell’argento per farne mezzi universali di scambio imprimendovi il suo sigillo, o non sono stati piuttosto questi mezzi universali di scambio ad impadronirsi del sovrano costringendolo a imprimervi su di loro il suo sigillo e a dar loro una consacrazione politica?» (p. 151).

Naturalmente il comunista di Treviri non criticò la concezione piccolo borghese di Proudhon, la cui «teoria dei valori è l’interpretazione utopistica della teoria di Ricardo», per pignoleria dottrinaria, o solo per il gusto di denigrarlo, ma perché temeva che attraverso la falsa radicalità delle frasi proudhoniane il punto di vista borghese penetrasse nel movimento operaio allora in formazione, depotenziandone la carica rivoluzionaria: «Animato dal desiderio di conciliare le contraddizioni, il signor Proudhon non si pone neppure la domanda se non sia proprio necessario rovesciare la base di queste contraddizioni» (14).

«In questa prospettiva, il reddito sociale garantito corrisponderebbe simultaneamente alla validazione sociale e ad un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato. Si tratta, insomma, di rompere con l’identificazione storica abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro-salariato e, con essa, tra lavoro salariato e diritto al reddito. Detto altrimenti, si tratta di affermare che il lavoro può essere improduttivo di capitale, ma ciononostante produttivo di ricchezze non mercantili e perciò, trovare la sua contropartita in un reddito. Questo è peraltro il caso, da un punto di vista strettamente teorico, per le attività realizzate in seno ai servizi pubblici che producono ricchezza e non valore. Il carattere incondizionato del RSG si distingue, tuttavia, in modo radicale, dal salario versato agli impiegati di questi servizi, perché non si fonda né su di un lavoro dipendente, né tantomeno implica da parte dei beneficiari una qualunque dimostrazione di utilità sociale della loro attività. Anche in questo senso, il RSG non attiene alla sfera pubblica, quella della “burocrazia professionale” e del coordinamento amministrativo, ma al comune. Esso presuppone un’attività creatrice di ricchezze ed una cooperazione produttiva che si sviluppano a monte ed in modo autonomo rispetto alle logiche amministrative e del privato, anche quando le attraversano e contribuiscono alla loro riproduzione» (15).

Le «attraversano» e «contribuiscono» semplicemente? E ancora: è possibile, oltre che concepibile sul piano della mera astrazione, «un’attività creatrice di ricchezze ed una cooperazione produttiva che si sviluppano a monte ed in modo autonomo rispetto alle logiche» del Capitale? La stessa crisi del Welfare non mostra forse, tra l’altro, come sia illusorio pensare una «ricchezza sociale» che non sia dominata, immediatamente e/o mediatamente, dalle esigenze del Capitale?

È difficile mettere insieme in poche righe un simile guazzabuglio concettuale, ma evidentemente c’è gente che ci riesce, e di questo occorre prendere atto. Senza invidia, peraltro. Comunque sia, a mio avviso nel Capitalismo può esistere una sola forma di ricchezza sociale: quella capitalistica. Tutto il resto è «pia illusione» (16), e a volte persino autoinganno.

«É possibile che una forma monetaria attenui alcuni dei vincoli posti dalla produzione capitalista, ma le contraddizioni che la moneta del comune vuole superare sono destinate a rinascere in un modo o nell’altro, e ciò fintanto che le trasformazioni del modo di produzione attuale saranno limitate alla sfera della circolazione. Tali trasformazioni, tuttavia, potrebbero accelerare ed orientare le mutazioni in corso del lavoro sociale, favorendo l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale ed un’articolazione altra tra comune, pubblico e privato. In questo senso, in due modi almeno, la proposta del reddito sociale garantito si smarca dall’ipotesi proudhoniana del credito gratuito» (17).

Gira e rigira, si torna sempre all’illusione proudhoniana, peraltro già anticipata da John Gray (1831) (18) e da Rodbertus (1842), di poter riformare il Capitalismo a partire dalla sfera della circolazione, e l’insistenza con cui gli autori del testo assicurano di volersi smarcare «dall’ipotesi proudhoniana» non impedisce loro di esservi dentro fino al collo. Come dimostrano anche i passi che seguono:

«Certo, attenuando il vincolo al rapporto salariale, il reddito sociale garantito può anche giocare il ruolo di una sorta di forma di credito gratuito che permetterebbe di democratizzare l’economia di mercato, offrendo più autonomia alla produzione mercantile semplice rispetto al capitale. Ma è soltanto in un modo accessorio che la garanzia di un reddito sufficiente può ugualmente favorire l’accesso allo statuto di produttore privato indipendente. Il suo primo ruolo è quello di sostenere, non il produttore individuale e la sua merce, ma l’intellettualità diffusa nella sua attività collettiva di produzione non mercantile» (19).

Lasciamo perdere la pia illusione circa la democratizzazione del Capitalismo, che è vecchia quanto il vigente regime sociale; ma che senso ha parlare oggi di autonomia della «produzione mercantile semplice rispetto al capitale»? Si può essere ideologici (capovolti!) fino al punto di credere che «nel nuovo capitalismo, sul piano del processo lavorativo sociale, la sussunzione del lavoro al capitale ridiventa principalmente formale»? Ma se stiamo sperimentando su tutto il pianeta l’epoca della sussunzione totalitaria del lavoro sotto il dominio del Capitale! Mutuando ignobilmente il comunista di Treviri, fisso la seguente “filiera della sussunzione”: formalerealetotale.

Solo intellettuali straordinariamente dotati di fantasia possono vedere all’opera «la resistenza e l’autonomia di un proletariato [“cognitivo”, è il caso di precisarlo?] che si è riappropriato di una “parte” del capitale fisso» (20), là dove si realizza l’esatto opposto, ossia l’integrazione di gran parte delle attività umane, lavorative e “ricreative”, nel circuito mercantile. Cosa che, al contrario di quanto credono i fantasiosi di cui sopra, non significa affatto che quelle attività generarono plusvalore primario, fonte delle diverse tipologie di profitto, per il semplice fatto di alimentare, direttamente o mediatamente, il gigantesco processo allargato della produzione e riproduzione della ricchezza sociale nella sua attuale configurazione sociale.

Solo un post-proudhoniano può parlare della «riappropriazione della moneta» come prassi sovversiva: «Veniamo alla questione della moneta. A tutti è chiaro che, se la moneta è mezzo di conto e di scambio difficilmente eliminabile, gli va tuttavia tolta la possibilità di essere strumento di strutturazione della divisione sociale del lavoro e di accumulazione del potere padronale contro i produttori. Alla Banca centrale va contestata l’indipendenza – la Banca va assoggettata alle necessità della “produzione dell’uomo per l’uomo” e sottoposta ad un disegno strategico di riconfigurazione comune degli assetti sociali biopolitici». Tanto vale “fare” una rivoluzione come Marx comanda! Lo so, la proposta non è all’altezza dell’«economia cognitiva». Mi rendo conto. Ma ognuno vende la merce che ha nel proprio sacco.

«La crescita in potenza della dimensione cognitiva del lavoro permette alla cooperazione produttiva di organizzarsi in modo autonomo rispetto alla direzione del capitalista. Certo, niente garantisce il passaggio dell’autonomia potenziale all’autonomia reale della forza lavoro» (21). Sarà un mio limite, ma qui di “autonomo” vedo soltanto il pensiero dei comunardi. Autonomo, beninteso, rispetto al reale processo sociale.

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(1) K. Marx, Miseria della filosofia, M-E Opere, VI, p. 130, Editori Riuniti, 1973. «Il valore misurato in base al tempo di lavoro è fatalmente la formula della schiavitù moderna dell’operaio, invece di essere, come vorrebbe Proudhon, la “teoria rivoluzionaria” dell’emancipazione del proletariato» (ivi, p. 126).

(2) K.  Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 45, Newton, 1976.

(3) K. Marx, Il Capitale, III, p. 451, Editori Riuniti, 1980.

(4) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 77, Newton, 1976.

(5) Ivi, pp. 77-78.

(6) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 65, Newton, 1978.

(7) Ivi, pp. 64-68.

(8) (K. Marx, Miseria della filosofia, M-E Opere, VI, p. 225, Editori Riuniti, 1973).

(9) «L’uomo è (storicamente, socialmente e antropologicamente) tale nella misura in cui oppone resistenza, materiale e spirituale, alle cose, e non le subisce semplicemente e passivamente. L’uomo pone il mondo come una mediazione tra sé e l’ambiente circostante, e lo fa naturalmente, per così dire, prima che la cosa diventi oggetto della sua riflessione. Mediare significa comprendere, trasformare, padroneggiare, senza soluzione di continuità reale e concettuale. Medio, dunque esisto! L’uomo è la specie che pone la mediazione. Probabilmente è in questo porre la distanza tra sé e la natura, che ha reso possibile l’anomalia chiamata uomo, che va cercata la genesi del Male e la possibilità del suo definitivo annientamento» (da Bisogno ontologico e punto di vista umano).

(10) K. Marx, Miseria della Filosofia, p. 149.

(11) L. Baronian, C. Vercellone, Moneta del comune e reddito sociale garantito, UniNomade, 17 aprile 2013.

(12) Ivi.

(13) K. Marx, Miseria della filosofia, p. 111.

(14) K. Marx, Lettera ad Annenkov del 28 dicembre 1846, in Miseria della filosofia, p. 146, Newton, 1976.

(15) L. Baronian, C. Vercellone, Moneta del comune e reddito sociale garantito.

(16) Eccone un esempio, tratto da un versante “altro” rispetto a quello comunardo: «Il pericolo evidente è che l’uso di strumenti imprenditoriali porti di fatto a una sussunzione della sfera sociale entro quella economica. Si tratterebbe quindi di un’opera di imprenditorializzazione del sociale, in cui si nega una visione articolata e d’insieme, si sottrae significato alla politica, e si lascia al libero arbitrio del singolo la responsabilità di agire, e ai meccanismi del mercato il compito di decidere se tale azione funziona o meno. Per evitare questa deriva, occorre pensare che i mezzi imprenditoriali siano separati (e separabili) dall’etica del profitto [sic!] e che vengano ri-territorializzati dalla società civile. Si deve quindi poter pensare al meccanismo che regola il mercato come a un sistema neutro, che può essere adoperato per scopi diversi da quello dell’arricchimento personale» (C. Bandinelli, L’ambiguità dell’impresa sociale. Tra cooperazione e individualismo, Doppio Zero, 27 novembre 2013). Il «lavoratore della conoscenza» è ovviamente posto al centro di questa orribile chimera.

(17) L. Baronian, C. Vercellone, Moneta del comune e reddito sociale garantito.

(18) «La teoria del tempo di lavoro come unità di misura immediata del denaro è svolta per la prima volta sistematicamente da John Gray. Egli fa accertare dalla centrale di una banca nazionale, per mezzo delle sue filiali, il tempo di lavoro impiegato nella produzione delle diverse merci. In cambio della merce il produttore ottiene un certificato ufficiale del valore, cioè una quietanza per la quantità di tempo di lavoro contenuto nella sua merce […] I prodotti deveono essere prodotti come merci, ma non scambiati come merci. Gray affida ad una Banca Nazionale la realizzazione di questo pio desiderio […]  Il suo denaro-lavoro come riforma tipicamente borghese […] Ma era riservato a Proudhon e alla sua scuola il compito di predicare con tutta serietà che la degradazione del denaro e l’assunzione al cielo della merce sono il germe del socialismo, riducendo così il socialismo stesso ad un banale disconoscimento della necessaria connessione tra merce e denaro» (K. Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 104, Fratelli Melita, 1981).

(19) L. Baronian, C. Vercellone, Moneta del comune e reddito sociale garantito.

(20) T. Negri, Dalla fine delle sinistre nazionali ai movimenti sovversivi per l’Europa, UniNomade, 25 gennaio 2013.

(21) L. Baronian, C. Vercellone, Moneta del comune….

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