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Crisi finanziaria e capitalismo cognitivo

D. G. Lassere intervista Yann Moulier-Boutang

La crisi che scuote il mondo intero da cinque anni pare non voglia calmarsi. Il discorso convenzionale pone sul banco degli accusati la separazione progressiva tra una cosiddetta economia reale, buona e produttiva, e una finanza semplicemente parassitaria, tagliata fuori da ogni connessione col mondo concreto. Da parte tua, sebbene non sottostimi per nulla il dominio e il ricatto esercitati dai mercati e dagli operatori finanziari, rifiuti ogni distinzione così netta. Pertanto, ritieni che non ci si possa più limitare a invocare un fantasmagorico ritorno al reale. Potresti spiegare perché le cose non son così semplici come sembrano?

In effetti bisogna distinguere la parte finanziaria dell’economia reale, dalla parte non finanziaria dell’economia reale. Entrambe sono pienamente reali. Del credito, che è la sostanza della moneta la cui forma consiste nella più o meno grande liquidità o esigibilità (le famose forme della massa monetaria M1, M2, M3), genera immediatamente delle possibilità d’investimento, dei salari, degli acquisti di beni e servizi, degli impieghi. Ciò che succede è che la parte finanziaria dell’economia reale diventa via via più gigantesca a mano a mano che l’economia diventa più complessa, e che si accrescono l’interdipendenza e la mutualizzazione degli impegni contrattuali o legali e regolamentari. Per 150 miliardi di dollari quotidiani di PIL mondiale e altrettanto di commercio di beni, si hanno 1500 miliardi di transazioni che coprono il rischio di cambio e 3700 miliardi di transazioni su delle promesse concernenti il futuro, i famosi prodotti derivati.

Questo era l’ordine di grandezza nel 2009 e malgrado la scomparsa della metà dei 2000 Hedge Funds (fondi di piazzamento dei capitali a rischio) la scala è rimasta la medesima. La verità è che affinché ciò che taluni chiamano “l’economia reale” diventi realtà bisogna che la finanza attivi questo armamentario impressionante. L’economia starebbe meglio senza una finanza che tanti a sinistra descrivono come un parassita inutile che si potrebbe tranquillamente appendere a testa in giù? Diffidiamo del sofisma già denunciato da Kant secondo il quale la colomba volerebbe meglio nel vuoto. Non si tratta di negare l’evidenza, ossia che i finanzieri sanno trarre dall’ipertrofia della sfera finanziaria una posizione di forza nella fetta di reddito che si accaparrano. Questa è una costante nella storia del capitalismo mercantilista, industriale, finanziario e oggi cognitivo. Ciò che merita di essere pensato e pesato sono le trasformazione dell’economia in blocco (sfera finanziaria e non finanziaria). Innumerevoli analisi sulla finanziarizzazione dell’economia nella globalizzazione (quest’ultima globalizzazione, preceduta da altre tre nella storia dell’Occidente) considerano soltanto un lato del problema: le ripercussioni (essenzialmente negative) del gonfiamento della sfera finanziaria su ciò che chiamano la sfera dell’economia reale, spesso ridotta a quell’industria che promuovono al rango di sola realtà, unica creatrice di ricchezza (come l’agricoltura in Quesnay). È senz’altro vero che è molto attraente, in un sistema che erige la massimizzazione del profitto all’alfa e all’omega, guadagnare il 30% l’anno tramite i soli piazzamenti finanziari (per esempio la speculazione immobiliare), quando guadagnare il 15% in imprese diventa una prodezza (una prodezza tuttavia pretesa dai fondi pensione), mentre il 5% nelle PMI risulta essere la banale realtà corrente. Questi effetti secondari non risolvono la questione dell’ipertrofia senza precedenti della finanza. Ho cercato di mostrare altrove che la crescita della liquidità e del potere di esercitare un effetto leva da parte della finanza (il passaggio da 5 o 9 del corso del credito per 1 di attivi sotto forma di fondi propri, a più di 30) traduceva nella sfera finanziaria qualcosa che non ha nulla a che vedere con la speculazione, né con un meccanismo autoalimentato in stile bolla, né con gli animal spirits dell’homo oeconomicus, ma che riguarda una trasformazione reale dell’economia.

Condivido questo principio con Christian Marazzi, anche se non sono affatto d’accordo con le conclusioni che ne tira o con la sola imputazione alla precarizzazione del lavoro salariato. A differenza della grande maggioranza degli “economisti atterriti”[1] stimo che la ratio prudenziale (oggetto degli accordi di Basilea III con il passaggio dalla ratio Cook a quella MacDonough) traduca il grado crescente di interdipendenza delle transazioni e delle economie e che la mutualizzazione del rischio stia dietro tutte le forme di prodotti derivati. Il problema non consiste dunque nel sopprimere le forme sofisticate di divisione del rischio né il ruolo della finanza, ma nel controllare quest’ultima tramite delle istanze giuridiche e istituzionali che vanno dagli Stati agli organismi internazionali o meglio sopranazionali, ma anche alle comunità custodi dei beni comuni. È la mediocrità della comprensione del ruolo della finanza di mercato e dei meccanismi di creazione monetaria da parte dei cittadini e dunque dei politici che eleggono (ignoranza largamente alimentata dalla finanza stessa che può così approfittare di una posizione privilegiata di potere, agendo al di sopra delle leggi) che nutre l’indecisione pietosa degli Stati, la loro paura del ricatto in salsa “too big to fail”, la loro ossessione da piccoli bottegai nel gestire i conti pubblici.

Questa ipertrofia della finanza corrisponde infatti al passaggio dalla produzione di ricchezza centrata sullo sfruttamento della forza-lavoro manifatturiera e subordinata a livello salariale allo sfruttamento immediatamente sociale, globale e complesso della forza inventiva e dell’intelligenza collettiva in rete, ciò che chiamo la pollinizzazione umana dell’interazione. Questa nuova sfera dell’economia dei complessi immateriali (non codificabili in diritti di proprietà intellettuale) è mille volte più produttiva (in senso realmente economico) della vecchia sfera dell’economia politica. Questo nuovo continente di esternalità positive della cooperazione umana è oggetto di un’abile captazione da parte di ciò che denomino il capitalismo cognitivo, il quale deve creare delle piattaforme di pollinizzazione (le reti sociali, i motori di ricerca, il cloud) per rivelare gli immateriali più profittevoli ed estrarre (data mining, data mapping) l’intelligenza, l’innovazione. Se la ratio di 30/1 della finanza di mercato pone un problema evidente (che finisce con lo sbattere contro il muro, se non si prolunga attraverso una gigantesca piramide di Ponzi come nella speculazione immobiliare), la ratio di 30/100 non pone alcun problema. In linea con ciò che la comprensione della creazione monetaria ci insegna già da molto tempo. Il problema della denuncia della nocività della finanza non è il suo moralismo (le buone intenzioni contano più del cinismo spesso delittuoso o persino criminale) ma il suo lato arretrato e del tutto reazionario: non avendo compreso la mutazione del capitalismo e dell’economia tout court, si aggrappa alla vecchia ratio prudenziale e all’industria, ritenuta rispecchiare senza menzogne la realtà. In quanto, per questa vulgata, la ricchezza non si crea che nella trasformazione della materia, che nella produzione; la circolazione, l’immateriale, invece, non sono che delle pericolose illusioni, delle droghe.


La crisi attuale, dunque, non decreta la fine di un capitalismo cognitivo nato-morto. Al contrario…

La crisi attuale e il suo svolgimento costituiscono una delle mute (nel senso della pelle del serpente) del drago capitalistico attraverso la quale il capitalismo cognitivo regola senza pietà i suoi conti con il suo vecchio avatar industriale. È nella e grazie alla crisi dei subprimes che le imprese giganti dell’immateriale (quasi tutte americane di nuovo, perché la vecchia Europa e il vecchio Giappone non hanno capito la rivoluzione californiana del capitalismo) hanno conquistato la vetta del capitalismo borsistico mondiale tenendo l’automobile sempre più a distanza e ratificando ciò che molti di noi avevano teorizzato, il modo del postfordismo. Il declassamento radicale del capitalismo industriale è stato innanzitutto nutrito dalla sua ingovernabilità sociale nelle fabbriche, poi dall’emergenza dell’economia dell’immateriale e infine dall’urgenza della transizione ecologica. Ora, il capitalismo si gioca tutto su quest’ultimo punto (come la nuova dinastia cinese): o si dimostra capace di fornire delle risposte intelligenti alla sfida ecologica, alla maniera dei tipi dell’IBM nella pubblicità, oppure sbatterà veramente contro il muro. E qui la Cina è paradigmatica: questo paese ha risposto alla sfida dell’uscita dalla povertà diventando la fabbrica del mondo ed effettuando in 35 anni in concentrato ciò che il capitalismo industriale ha impiegato due secoli e mezzo per realizzare nei paesi sviluppati. Ora però si trova di fronte a una sfida temibile: i problemi ecologici raggiungono ormai delle dimensioni tali per cui l’avvelenamento alimentare, la rarefazione dell’acqua (vecchio problema), l’erosione dei suoli (27.000 km quadrati distrutti ogni anno), l’inquinamento chimico, la secca impossibilità di perseguire i tassi di motorizzazione occidentali, la speculazione immobiliare, la bulimia energetica, lo sfruttamento forsennato del carbone, rappresentano le minacce più serie al “mandato dal cielo” attribuito al partito comunista. E qui, a dispetto dell’“armonia” confuciana, la quale non è nient’altro che l’accettabilità o la legittimità del potere, un movimento di “rettificazione dei nomi”, come diceva Confucio, potrebbe nascere in tempi brevi. Si stima che la performance cinese in materia di crescita (10% all’inizio, poi 7% e ora 6%) dovrebbe essere amputata tra il 5 e il 6% di distruzione del capitale ecologico. In fin dei conti la Cina offre una sintesi straordinaria dei problemi universali del pianeta.

Non è la finanza in quanto tale che cozza contro il muro, il solo muro esistente consiste nell’avvenire dell’umanità nella biosfera terrestre. Il capitalismo cognitivo costituisce la sola forma di sopravvivenza del capitalismo tout court. Per l’interesse generale del capitalismo, rispondere alla sfida ecologica rappresenta il suo biglietto di sopravvivenza. Un tempo parlava di sviluppo economico in stile società del Nord. Oggi deve continuare a parlare di sviluppo alla Cinese, ma, al tempo stesso, non è più possibile, come all’epoca del Rinascimento, della Rivoluzione industriale e del Fordismo, far finta che le risorse naturali siano illimitate. Lo si dice fin dal tempo dei Romani che la martingala del potere è fatta di panem et circenses. In effetti si sarebbe dovuto aggiungere: e di natura ad libitum. Oggi, a giudicare dalla quasi insurrezione nelle grandi metropoli brasiliane (classi creative, precari delle nuove fabbriche quali sono le università e i servizi della circolazione e della rete), i giochi e il pane non bastano più.

Sulla scala planetaria, la rapida realizzazione della transizione energetica, della lotta contro la distruzione dei suoli, dell’uso intelligente delle risorse rinnovabili finite, della gestione dell’ecosistema globale fragile al fine di evitare un impoverimento della biodiversità e della noodiversità delle culture, suppone l’affettazione di almeno l’1% del PIL per trent’anni, come mostrato dal Rapporto Stern. Ora, lo vediamo attraverso Kyoto passando per il flop di Copenhagen fino al vertice recente di Varsavia che la crisi finanziaria e la decelerazione della crescita trasformano questi obiettivi in principi svuotati metodicamente della loro sostanza tramite un sussulto della ricerca forsennata di energia a basso costo (perforazioni a grande profondità, gas di scisto e petrolio bituminoso, sfruttamento delle terre finora inviolate come la Groenlandia, l’Oceano Artico, l’Alaska), tramite un rifiuto astioso dell’ecologia da parte dei governi canadese, australiano, russo. Mi pare evidente che senza i servizi della finanza di mercato disciplinata e canalizzata da delle finanze pubbliche rinnovate, non si potranno creare le liquidità necessarie all’indispensabile programma ecologico. Se si guarda attentamente a ciò che sta accadendo nell’ala funzionante e intelligente del capitalismo, quella sensibile alla sua propria accettabilità sociale e consapevole che il “mandato dal cielo” è revocabile, dalla Clinton Initiative alle innumerevoli altre fondazioni, fondi etici e di responsabilità sociale dell’impresa, la direzione è chiara.


Un discorso del genere non corre dunque il rischio di risultare occidentalo-centrico…

No! Non ho infatti parlato che de “l’Europa dai malandati parapetti”. La trilogia finanza, ecologia e moltitudine che rifiuta di essere governata in un sistema che obbedisce ancora quasi totalmente alla stretta norma mercatistica, dall’agro-industria in senso largo alla subordinazione salariale, è globale. La contestazione di un potere riposante sul pane, i giochi (calcistici in particolare) e sulle risorse naturali sfruttabili a proprio piacimento, cresce secondo configurazioni specifiche nel Quarto Mondo, nei BRIC, nel cosiddetto mondo sviluppato, antico o nuovo che sia, ma l’equazione che si pone all’Impero (se con Impero intendiamo una forma di governance trans-sovrana e largamente transnazionale) è la stessa. Quanto all’argomento del carattere ancora minoritario degli impieghi nel digitale o nelle nuove tecnologie nel Sud e nei BRIC, rispondo con due cose. La minorità o la maggioranza non hanno giocato alcun ruolo quando Marx ha studiato la classe operaia delle grandi fabbriche di Manchester, in quanto quest’ultima non rappresentava che 250.000 persone in Inghilterra contro 4 milioni di domestici! Mi si diceva nel 2002 che il capitalismo cognitivo e Internet costituivano un fenomeno ultra-minoritario, siccome non esistevano che pochi abbonati al Web e siccome i cellulari non concernevano che il 10% della popolazione nei paesi molto sviluppati. Si sa che cosa è avvenuto non solamente in Francia, negli Stati Uniti ma anche in Cina, dove ci sono più di 450 milioni di persone che sottoscrivono abbonamenti per la connessione.


Quanto all’Europa, se si potesse magicamente piazzare Keynes a Bruxelles, quale
New Deal potremmo escogitare per il presente? Una politica di stimolo della domanda effettiva non può certo più permettersi di rimanere generica, senza strizzare l’occhio ai grandi apparati militari e industriali. A differenza di quanto reputava il Sir di Cambridge, il “cosa”, il “come” e il “perché” contano anche di più del “quanto”. Quali forme potrebbe allora assumere un keynesismo dell’immateriale, un keynesismo verde? Un keynesismo nel quale i limiti naturali e le dimensioni di razza, genere e classe giochino un ruolo più importante rispetto al semplice volume della produzione?

Avevo proposto negli anni ’80, quando ero un giovane assistente di economia di Jean-Paul Fitoussi, la formula “Keynes a Bruxelles”. L’intuizione era corretta, anche se la BCE non esisteva ancora come bastione borbonico da assalire. Più che mai (e si può ringraziare la crisi brutale del 2008 per aver portato alla luce la dimostrazione di questa evidenza teorica) una politica di crescita intelligente (che realizzi il programma di Lisbona 2000) presuppone, prima ancora che ci si metta a discutere del suo contenuto e di un programma keynesiano, la caratterizzazione della dinamica dominante della forma istituzionale capace di sorreggerla. Credo che un programma keynesiano a Bruxelles abbia bisogno di appoggiarsi su un salto istituzionale. Tuttavia, abbiamo già una resistibile ascesa dello spettro (benvenuto) di Keynes con ciò che chiamo il trionfo del federalismo rampante, il quale sta battendo la coppia confederalista e sovranista. Quando le istanze della crescita non sembravano ancora essere coinvolte malgrado la prima crisi energetica del 1974 e del 1980, l’allargamento continuo dell’Unione Europea permetteva al vecchio miracolo del recupero della CEE a sei di riprodursi. Un mercato comune suscitava dei recuperi del livello di vita impressionanti (la miglior carta da visita della UE). Ma questa Zollverein (unione doganale) europea ha dovuto passare dal SME alla moneta unica e a una federalizzazione monetaria con dietro la prospettiva dell’integrazione politica e la costituzione di una potenza federale europea, malgrado tutti i messaggi di scoraggiamento e di Schadenfreude (malignità) dei profeti di un crollo dell’euro e dell’Europa. Fino a quel momento non esisteva che una sola istituzione pienamente federale in Europa, la Corte di Giustizia del Lussemburgo, una vera Corte Suprema, la quale espone un diritto e un ordine costituzionale che s’impongono alle costituzioni interne di ogni Stato membro (Sentenza Costa, 1965) e una istituzione federale puntinata, il Parlamento Europeo, federale perché eletto con il suffragio universale, ma ridotto a un ruolo consultativo, senza cioè alcun reale potere legislativo (non dovendo rendergli conto né la Commissione né il Consiglio). Di fianco a queste due istituzioni, c’erano due politiche veramente federali, le quali consumavano tutto sommato l’essenziale delle risorse del magro budget comunitario: le politiche strutturali di aiuto alle regioni (e agli Stati) il cui livello di vita si situava sotto il 90% del reddito medio dell’insieme dell’Unione e la Politica Agricola comune. Le altre istituzioni comunitarie manifestavano piuttosto un regime ibrido (la Commissione) o del tutto confederale, come il Consiglio messo in piedi da Giscard d’Estaing, nel quale regnava la regola dell’unanimità, ossia del diritto di veto accordato a ogni Stato membro. Ciononostante a partire dal 1974, se ogni allargamento rinviava l’approfondimento del grado di integrazione e di abbandono della sovranità “nazionale”, la pressione esterna (l’abbandono della convertibilità del dollaro nel 1971, il regime di cambi flessibili, la lotta contro l’inflazione tramite i costi, la crisi petrolifera, la pressione migratoria) davano lentamente quanto sicuramente alla luce un “federalismo rampante”, come l’ha nominato con orrore The Economist: il serpente monetario per evitare le disparità di cambio caotiche con il dollaro delle differenti monete nazionali; l’estensione delle questioni d’interesse comunitario, preambolo della loro inclusione nelle questioni di competenza comunitaria che spettano alla Commissione; o, ancora, la costruzione di un pilastro di cooperazione rinforzata attorno agli accordi di Schengen. Tutti questi processi allungavano il ruolo diretto della CEE senza passare ulteriormente per l’intermediazione degli Stati. La seconda tappa decisiva è stata la caduta dell’Urss e l’unificazione tedesca seguita all’allargamento verso Est. Come terza tappa, l’esplosione della Jugoslavia e la guerra del Kosovo hanno posto sul piatto le questioni di politica estera, con il ruolo dominante, in un’Europa ancora largamente confederale, del tandem franco-tedesco e con la necessità assoluta delle cooperazioni più o meno allargate. Queste tappe hanno condotto alla creazione dell’Unione Europea tramite i trattati di Amsterdam e di Maastricht. Il risultato più importante di questo stravolgimento è stata la creazione di una terza istituzione federale, la BCE, incaricata di condurre all’euro. Dal Zollverein si passava così alla moneta unica, come se qualche Bismarck invisibile stava organizzando l’unificazione europea erigendo come nemico prioritario da sconfiggere la versione ultra molle e britannica di una semplice associazione di libero scambio e, in seguito, la versione di una confederazione allentata di nazioni sovrane, come la confederazione del Sacro Impero attorno all’Austria. Lo scacco dell’adozione del Trattato Costituzionale nel 2005 a causa del rifiuto di due Stati su venticinque ha condotto alla toelettatura degli aspetti più simbolicamente federalisti (la bandiera, l’Inno) del trattato, mentre l’essenziale è rimasto, facendo innervosire non poco i Britannici: l’allargamento considerevole dei campi di competenza comunitaria, il passaggio, per numerosi ambiti, all’adozione di una maggioranza del 60%, il ruolo ormai sempre più inaggirabile del Parlamento, oltre a qualche concessione ai confederalisti, come l’istituzionalizzazione di un Consiglio con la personificazione politica dell’Unione sotto la forma di un Presidente del Consiglio e di un ministro degli affari esteri – sebbene questa “concessione” apra le porte a una responsabilizzazione de facto dell’esecutivo dell’Unione di fronte al Parlamento Europeo.

Infine, la crisi del debito sovrano degli Stati, conseguenza del salvataggio del sistema finanziario dal tracollo dei prodotti finanziari di tipo subprimes, ha segnato una tappa decisiva nella via del federalismo rampante e una sorta di colpo di Stato, un vero e proprio 18 Brumaio: la BCE, di fronte all’incapacità degli Stati del Consiglio di prendere rapidamente delle contromisure forti di sostegno agli Stati membri in difficoltà, la BCE, istituzione federale, ha preso il potere (ciò che nega ufficialmente, ma anche se corrisponde alla realtà). Ha preso il potere in un triplice modo: si è affrancata dalla tutela “nazionale” (francese poi tedesca), delineando velocemente una posizione comune; ha aggirato i poteri formali che le erano stati attribuiti dai trattati, giustificando il ricorso a dei metodi “non convenzionali” a causa di una situazione di eccezione; e, infine, ha operato una svolta a 180° per quanto concerne la sostanza della sua politica. Quando l’eccezione, però, dura da più di sei anni (a partire cioè dal settembre 2007), ci si trova di fronte a un cambiamento di regime provocato da un colpo di Stato. L’istituzione federale concepita come custode del tempio monetarista, come incarnazione, in teoria, di un virulento polo anti-keynesiano (crescita della massa monetaria rigidamente controllata, stabilità dei prezzi, inflazione al 2% e nulla più) si è mangiata il suo cappello friedmaniano iniettando un volume di liquidità semplicemente impensabile fino a quel momento. È intervenuta prima sulla solvibilità delle banche, poi su quella degli Stati per salvare l’euro, accompagnando ogni provvedimento con un messaggio inequivocabile da parte del banchiere centrale. Così a partire dal 2008 Jean-Claude Trichet non ha cessato di esortare il Consiglio ad assumersi le sue responsabilità politiche (cioè di modificare i trattati per permettere alla Banca Centrale, esattamente come la Fed o le altre banche centrali mondiali garanti di una moneta, di aver la responsabilità ufficiale della solvibilità del sistema finanziario ma anche dei tesori degli Stati membri, costituendo un Tesoro federale e, dunque, potendo gestire un deficit budgetario europeo). Di fronte ai piccoli passi in avanti, seguiti da altrettanti passi indietro, da parte del Consiglio e della Commissione, la BCE ha varcato il Rubicone riacquistando i buoni del tesoro emessi dagli Stati in difficoltà, benché sul mercato secondario, onde evitare la palese violazione dei trattati. Le dimissioni dei falchi della Bundesbank, l’adozione a maggioranza schiacciante di misure accomodanti, l’appoggio non dissimulato della BCE all’Unione bancaria, all’instaurazione di fondi di stabilità in cambio di un inizio di unione budgetaria, la minaccia di Mario Draghi, di fronte alla speculazione sugli spread e al rischio annesso di esplosione dell’euro, di brandire l’arma nucleare della creazione monetaria illimitata, tutti questi fatti mostrano che il federalismo non striscia più discretamente, ma sta prendendo i comandi dell’Europa. Davanti alle continue posticipazioni del Consiglio – il quale ha dimostrato il carattere fondamentalmente ingovernabile di un’Unione di 500 milioni di abitanti tramite un meccanismo federale in cui il Regno Unito e la minuscola Repubblica Ceca pretendevano di impedire l’azione agli altri 23 stati membri – la BCE ha dato una prova della sua forza. Si è dimostrata il garante più sicuro dell’espressione e dell’esecuzione dell’interesse generale europeo. Questo 18 Brumaio avrà delle conseguenze prodigiose di cui gli osservatori non hanno ancora colto a pieno la portata. In quanto, alla stregua di Ben Bernanke rimpiazzato dalla Signora Yellen, nell’ottobre 2013 ha proseguito la politica di facilità e ha segnalato che, fino a quando il tasso di disoccupazione rimarrà troppo elevato, la politica monetaria accomodante, oh quanto (ci troviamo con dei tassi d’interesse reale negativi), proseguirà. Ora, la BCE di Mario Draghi ha abbassato il tasso di base allo 0,25% e ha invocato esattamente la stessa giustificazione: il regime di eccezione (paragonato al dogma monetarista) durerà fino a quando vigerà il rischio di deflazione e di un livello di disoccupazione troppo elevato. Siamo così passati in dieci anni da una BCE “tedesca” a una BCE quasi keynesiana. La marcia forzata verso l’Unione bancaria e l’Unione budgetaria riprende: un discorso ufficiale fatto di austerità fino a quando non si ha una gestione europea dei deficit, un tesoro ufficiale, degli eurobonds, fino a quando, cioè, ci si trova in circostanze eccezionali.

Ciò che costerna o mi atterrisce, per fare il verso ai miei colleghi “atterriti”, è il ritardo degli uomini politici europei “nazionali” nel comprendere ciò che la finanza ha capito da tempo ormai sotto la pressione della crisi: senza una revisione completa dell’edificio istituzionale europeo e di una sua trasformazione da una federazione dissimulata e piena di vergogna a una federazione rivendicata e più chiara, nessuna ripresa. La malattia in cui languisce l’Unione non è economica, ma politica. Ecco le condizioni per un programma keynesiano a Bruxelles. Per una sua traduzione concreta in nuove proposte in stile New Deal, poi, si potrebbe cominciare con un reddito di esistenza o di cittadinanza o di pollinizzazione, come si preferisce, alimentato da una tassa su tutte le transazioni monetarie nell’Unione, una tassazione sui flussi di dati (i big data), modulata in funzione del PIL e corretta da un coefficiente di recupero. Un aumento del budget europeo fino al 12% del PIL globale, la possibilità di creare un deficit budgetario globale istituendo degli eurobonds per finanziare i programmi di grandi infrastrutture fisiche, ma soprattutto immateriali.


Hai fatto cenno al reddito di base. Secondo te, questa rivendicazione potrebbe stabilizzare il capitalismo cognitivo e riconciliarlo con un’economia fondata sulla conoscenza?

Contrariamente a ciò che pensano i miei amici e colleghi Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli, non vedo una grossa contraddizione tra un elevato reddito di base incondizionato (900 euro a testa in Francia), il quale permetterebbe la rifusione di tutto il sistema dello Stato Provvidenza (la disoccupazione, le pensioni, la protezione sociale) – non dunque un miserabile e complementare Reddito di Solidarietà Attiva (450 euro) concepito come un sostegno ai salari bassi – e lo sviluppo del capitalismo cognitivo. Affinché quest’ultimo capti facilmente una parte importante delle esternalità positive della rete e dell’interazione umana intercettate da dei dispositivi digitali e affinché faccia lavorare durevolmente la forza inventiva di geeks, hackers e altri precari delle classi creative e dell’intelligenza della moltitudine, sono necessarie delle piattaforme di pollinizzazione, degli alveari, ci vuole dell’api-economia, dell’economia dell’ambiente, altrimenti finisce col trasformarsi in un parassita o in un vampiro dei nuovi beni comuni digitali. Dopo l’era dei conquistadores del continente delle esternalità, come per lo sfruttamento della forza-lavoro proletaria sotto il capitalismo industriale, giungerà il momento della battaglia per il plusvalore relativo e non più assoluto. Le major del capitalismo cognitivo dovranno imparare a pagare delle imposte finanziando la pollinizzazione sociale (ciò che fanno poco, se tiene in considerazione il cambiamento di scala dei profitti immagazzinati), dovranno imparare a retribuire in natura o in denaro i clickworkers. Del resto, il loro paternalismo moderno che consiste nell’impadronirsi, senza colpo ferire né remunerazione alcuna, dei dati personali contenuti nei megaserver dei big data sta incontrando dei limiti nell’organizzazione delle fughe (i wikileaks di Julien Assange e di Snowden), nella resistenza dei cybernauti e dei cybercittadini. Per difendere la costituzione di beni comuni digitali, di dati pubblici, la loro protezione, etc. l’open source costituisce una falsa soluzione, la quale si base su un principio di terra nullius dove le imprese possono venire a saccheggiare l’inventività sociale e umana alla stregua di quelle case farmaceutiche o di quelle multinazionali dei sementi che praticano una biopirateria sfrenata degli ecosistemi complessi. Ora, una delle acquisizioni della teoria postcoloniale e delle recenti sollevazioni dei popoli indigeni consiste nell’aver ottenuto dalle corti costituzionali della maggior parte dei paesi di colonizzazione la ricusazione del principio di terra nullius e l’apertura della via a un indennizzo delle grandi spoliazioni delle loro terre comunitarie.


Concluderei ponendoti un’ultima domanda. Dopo la crisi, com’è evoluta la tua tesi sul ruolo della finanza nella gestione delle esternalità?

Il mio amico Antoine Rébiscoul, scomparso nel 2010, aveva una formula geniale. Mi diceva: “in fin dei conti, la finanza è il governo par défaut delle esternalità”. Ho meditato a lungo questa frase. E l’affiancherei a un’altra formula altrettanto formidabile enunciata dalla mia amica economista Antonella Corsani, nelle discussioni appassionate che avevamo avuto a proposito delle esternalità a partire dal 1997. Alla fine, azzardava con audacia, il deficit della spesa pubblica è la misura delle esternalità non estinte dal mercato e necessarie. Nulla di strano, dunque, se, nel momento in cui uniamo le due frasi, la finanza di mercato e il deficit budgetario “sovrano” si incontrano, per così dire! L’impotenza crescente degli Stati-nazione nel finanziare le loro spese di produzione, di mantenimento delle esternalità positive della società-polline consiste nello fatto che lo scarto gigantesco che esiste tra il continente effettivo, reale della pollinizzazione e l’orizzonte ridicolmente ristretto del mercato e della merce implica delle spese gigantesche (salute, educazione, ricerca, beni comuni tradizionali e digitali), mentre le ricette fiscali continuano a essere calcolate a partire dalla vecchia economia industriale. La crisi è strutturale. La contabilità della ricchezza deve essere cambiata, in quanto, fino a quando ciò non avverrà, fino a quando cioè gli economisti mainstream e i cosiddetti eterodossi continueranno a sostenere che nessuna ricchezza si crea nella circolazione, il solo modo di misurarla come una promessa e un futuro già attivo consiste nel considerare i meccanismi di valutazione della finanza di mercato, la quale incorpora le immobilizzazioni immateriali nel good will finanziario costituendo un proxy. Con tutto il corteo di mali, di instabilità, di speculazione, di profezie auto-avverantesi per nulla differenti dalla chiromanzia che schernisce.

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