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ciao mondo

Otto tesi sulla condizione degli intellettuali*

di Romano Luperini

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Per almeno un ventennio, fra la fine degli anni Settanta e quella degli anni Novanta, ma anche oltre, la linea dominante della cultura “alta” europea e nordamericana ha proposto un’idea del rapporto col mondo e una figura d’intellettuale che hanno rappresentato il lusso e il privilegio dell’Occidente. La messa sotto accusa del logocentrismo e del realismo, il rifiuto della datità materiale del mondo, la sostituzione di quest’ultima col primato del linguaggio, della intertestualità e della interpretazione avevano avuto buon gioco in una società sempre più segnata dalla produzione di beni immateriali, dalla rivoluzione informatica, dalla centralità anche economica della comunicazione e dell’informazione che sembrava bandire l’esperienza concreta e sostituirla con il trionfo dell’immagine e della virtualità. A metà del ventennio considerato la caduta del muro di Berlino e del sistema sovietico diffuse l’illusione di una fine della storia e delle contraddizioni facendo sognare la possibilità di un nuovo Rinascimento e addirittura della nascita di un “uomo nuovo”, allora profetizzato da alcuni teorici del cosiddetto “pensiero debole”. La linea dominante della cultura ha espresso in questo periodo il punto di vista di una civiltà padrona che intendeva la globalizzazione esclusivamente come esportazione di se stessa e che poteva perciò ignorare o rimuovere le guerre locali, la crescita della fame e del sottosviluppo, la ripresa dei fondamentalismi. È stata l’epoca del narcinismo (narcisismo + cinismo) e dell’individualismo rampante (d’altronde rappresentato e direttamente espresso nel nostro paese da ben due capi di governo, prima Craxi, poi Berlusconi).

A questa idea del mondo e dell’etica corrispondeva una doppia immagine dell’intellettuale: quella oracolare, che presupponeva una cultura sapienziale, dedita alla riflessione sul linguaggio, ai miti fondativi dell’umanità e alle mediazioni non degli uomini fra loro ma fra gli uomini e il Verbo (da qui, per esempio, un intero decennio filosofico, e più, dedicato all’angelologia), e quella cinica-ironica, coltivata da scettici pasticheur di linguaggi e di ri-scritture, da brillanti intrattenitori professanti un ilare nichilismo teorico, e volti non ad argomentare ma a narrare, non a dimostrare una propria tesi ma a decostruire quelle altrui.
 
2.
Intanto, ai suoi livelli bassi e intermedi, la cultura veniva incorporata nel sistema economico e politico delle comunicazioni di massa. Il sapere-potere degli intellettuali come ceto o categoria sociale, filtrato e selezionato da apparati tecnologici e da enormi complessi produttivi e istituzionali, si è liquefatto e frantumato all’interno di queste strutture che tutt’oggi ne decidono o comunque largamente ne condizionano le scelte fondamentali. Inseriti in questi grandi apparati di sapere-potere, che rispondono a pochi centri di comando integrati, nazionali e multinazionali, gli intellettuali non hanno alcuna possibilità di controllo su di essi. Si riducono a semplici lavoratori della conoscenza, costretti a fare i conti con una perenne instabilità, mobilità, flessibilità e dunque a sviluppare una elevata capacità di conversione. La cultura umanistica, sminuzzata e ridotta a insieme di informazioni e di saperi, può ora acquisire persino un nuovo (seppur modesto) valore in quanto componente di una formazione di base variamente interdisciplinare e fungibile, capace di adattarsi a condizioni diverse e di fornire alcuni strumenti interpretativi. La Ict (Information and comunication tecnology) ha bisogno di questo tipo di ingranaggio per funzionare. Infatti sia il lavoro di formazione delle informazioni sia il lavoro di consumo delle informazioni richiedono che il materiale informativo venga comunque elaborato. Ma non si tratta più di una attività di mediazione; a mediare – o meglio a imporre i propri prodotti – ci pensano direttamente, e in proprio, gli apparati tecnologici. Da parte loro, questi nuovi lavoratori della conoscenza hanno perduto autorità e autonomia; e non hanno neppure più nulla in comune con la tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Gramsci.
 
3.
In questa situazione il grande corporativismo degli intellettuali, garante dell’universalismo dei valori, non è più proponibile. Nella stessa cultura “alta” la figura dell’intellettuale cara a Bourdieu, quella che interviene nella società grazie all’autorità e al prestigio conferitigli dall’autonomia del proprio campo e dall’indipendenza culturale e morale che essa garantisce, appare sempre più un residuo del passato. Anche la parte “alta” della cultura non controlla più i processi di sapere-potere in cui è inserita e che determinano la formazione dell’opinione pubblica. Gli intellettuali non costituiscono più il cemento ideologico di una comunità. Non hanno autorità e legittimazione, e non possono dunque più né mediare né gestire culturalmente quei processi.
 
4.
La tendenza fondamentale che agisce al livello dell’intero campo intellettuale e dei suoi processi sociali molecolari crea, nel suo stesso movimento di affermazione, una serie di contraccolpi e di controspinte. Ecco alcune delle principali contraddizioni che determina.

I. La  marginalità  sociale  e  la  flessibilità  produttiva  sviluppano  una  sorta  di sottoproletariato intellettuale. Il sistema sembra aver bisogno di competenze non strettamente specialistiche e di giovani intellettuali disoccupati disposti a occuparsi saltuariamente e parzialmente e capaci di utilizzare saperi diversi e non uniformi. Si va così diffondendo su vasta scala l’esperienza della precarietà lavorativa e della marginalità sociale di una parte vastissima del ceto intellettuale, soprattutto di quello più giovane.
II. I  grandi  complessi  produttivi  e  i  loro  apparati  tecnologici  e  burocratici si impongono come modelli totalizzanti anche in settori che non dovrebbero avere come punto esclusivo di riferimento le regole della produzione e le leggi di mercato, come l’educazione o la sanità. I processi di riforma che li hanno investiti in senso economico-produttivistico si sono qui scontrati con logiche e valori talora irriducibili non per volontà dei singoli ma per eteronomia dei fini difficilmente aggirabile (la scuola, per esempio, dovrebbe formare anzitutto dei cittadini, non dei produttori economici o dei consumatori). Particolarmente nel settore educativo il ruolo di mediazione intellettuale non è perciò ancora scomparso, ma si è ridotto e spostato, burocratizzandosi e delocalizzandosi in apparati di fatto sempre più marginali e tuttavia indispensabili anche in una società ipermoderna. In questi settori, e anche nella magistratura, si è diffusa così una nuova figura di intellettuale-interprete, flessibile e slogata e nondimeno ancora capace di collegare fra loro fenomeni diversi (storici, filosofici, artistici, scientifici) e di leggerli in una prospettiva culturale non immediatamente riducibile all’ambito economico.
III. Nella  società  ipermoderna  la  produzione  e  la  diffusione  di  conoscenza è condizione ineliminabile per produrne di nuova. Si può elevare l’estensione della comunicazione e della informazione, e moltiplicare la produzione di linguaggi, solo a patto che s’innalzi progressivamente il livello a cui si svolge il lavoro di consumo delle informazioni stesse. Insomma la produzione di conoscenza ha una natura prettamente sociale che può entrare in conflitto con la sua riduzione a merce a scopi di profitto per singoli individui o per singole corporazioni.
IV. I  lavoratori  della  conoscenza,  pur  svolgendo  un  compito  essenziale  al funzionamento dei grandi apparati tecnologici e burocratici e delle istituzioni pubbliche, sono sempre più privati di qualsiasi riconoscimento sociale e di valore pubblico. Contribuiscono alla produzione sociale di senso e alla elaborazione dei valori, ma all’interno di meccanismi che ne disgregano e maciullano le funzioni intellettuali togliendo loro ogni potere effettivo e ogni riconoscibilità collettiva.
V. Il  valore  sociale  della  produzione  della  conoscenza  è  accresciuto  dalla caduta della tradizionale distinzione fra fatti oggettivi di cui si occuperebbe la scienza e valori di cui si occuperebbero invece la religione e la politica. Il nesso fra conoscenza e valori si fa sempre più stretto. Lo sviluppo stesso della ricerca scientifica fa acquisire ai lavoratori della conoscenza una dimensione etica. Il legame fra acquisizioni della conoscenza e perseguimento di retti comportamenti individuali e collettivi tende a porre in primo piano il valore etico della ricerca intellettuale, tanto più in presenza di un ridimensionamento della sfera religiosa e della crisi e del discredito attuale di quella politica.
 

5.
Alla crescita e al rapido sviluppo di queste contraddizioni bisogna aggiungere un significativo cambiamento della situazione mondiale e del significato stesso della globalizzazione in atto. A partire dalla fine del secolo precedente e poi, con forza crescente, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, le contraddizioni materiali a livello planetario sono diventate sempre più acute e sempre più ineludibili: sono sotto gli occhi di tutti le guerre, gli attentati, gli scontri di civiltà, gli sviluppi del fondamentalismo islamico, le migrazioni in Europa dei popoli affamati dal Sud e dall’Est del mondo, il rinascente razzismo che ne è derivato, la crescita della Cina e dell’India divenute vere e proprie potenze in competizione con l’Occidente, la crisi economica dell’ultimo triennio, l’instabilità del quadro produttivo e finanziario e dello stesso sistema di potere che appare sinora incapace di farvi fronte. L’Occidente non può più rimuovere il resto del pianeta, perché questo sta penetrando nei suoi confini attraverso le migrazioni di massa, la concorrenza cinese, le conseguenze economiche delle guerre locali. Ridurre il rapporto col mondo a una questione linguistica o ermeneutica non è più possibile; e neppure vivere senza conflitti e contrasti. Una società che sembrava ormai ignorare il trauma o almeno capace di respingerlo ai margini dell’esperienza quotidiana si trova ormai al centro di colpi e contraccolpi traumatici, di ansie che non riguardano più rischi immaginari (per esempio: di eventuali epidemie) ma fenomeni concreti dell’esistenza, a partire dalla possibilità da parte dei giovani di trovare o di conservare il lavoro.
 
6.
Il nuovo intellettuale inserito in posizione subordinata all’interno dei grandi complessi produttivi o istituzionali, o costretto ai loro confini, insieme interno ed esterno a essi, da un lato corre il rischio di diventare un mero ingranaggio del sistema comunicativo, un elemento facilmente sostituibile e intercambiabile, dall’altro è costretto a vivere ai margini degli apparati di cui pure fa parte, a configurarsi come un outsider, un dilettante plurifungibile, un emarginato potenziale e spesso effettivo. Ma proprio per questo può «trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate» (Said). Se ha perduto ogni mandato sociale e la propria tradizionale centralità, se non può più svolgere la funzione ideologica di mediazione, può trovare proprio nelle contraddizioni che sperimenta, nella propria marginalità e precarietà, una condizione rappresentativa delle altre marginalità presenti sulla scena mondiale. Il passaggio da legislatore a interprete può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza. Traduttori, insegnanti, magistrati, la massa degli addetti al mondo della comunicazione, centinaia di migliaia di neodiplomati e neolaureati stanno diventando figure di soglia. Cominciano a sciogliersi da una situazione di sapere-potere legata esclusivamente alla storia dell’Occidente, al suo “centro” ideale e materiale, ad avvicinarsi alla periferia, a essere periferia.
 
7.
In questa situazione dell’Occidente, esiste poi un caso italiano. L’Italia, infatti, ha costituito e costituisce un caso particolare, per certi versi più clamoroso e più “avanzato” rispetto a quello dei maggiori paesi europei, per altri più “arretrato” e provinciale. Che un padrone della editoria, un signore delle comunicazioni e delle informazioni abbia potuto conquistare il comando e mantenerlo poco meno di un ventennio quasi incontrastato ha reso evidente a tutti quale sia ormai il settore economico decisivo e come la produzione di linguaggio sia diventata un atto di controllo culturale e sociale e di potere politico, esercitato grazie a una egemonia capace di modificare e di determinare il senso comune di buona parte di un popolo. Ciò è potuto accadere grazie anche a un processo di americanizzazione in grado di adeguarsi perfettamente a una antropologia e a un carattere nazionale “arretrati”, segnati da uno spessore civile troppo esiguo e troppo poco diffuso (vent’anni di fascismo non sono passati invano). Gli intellettuali e buona parte della cultura nazionale si sono agevolmente adeguatia questo nuovo clima e ai nuovi costumi. Nel ventennio 1980-2000 (e oltre), con il loro disimpegno, con la loro chiusura individualistica e corporativa, con la loro resa incondizionata ai parametri dell’industria culturale e alle “riforme” istituzionali (Università, soprattutto) proposte dal potere politico, essi hanno più o meno direttamente contribuito al clima dominante e comunque non lo hanno contrastato. E tuttavia, anche nel nostro paese, l’insieme dei fattori esposti nelle tesi precedenti sta cominciando a cambiare l’idea del mondo, a trasformare la cultura, e a modificare il comportamento degli intellettuali più qualificati e della massa stessa dei lavoratori della conoscenza. Senza che il suo autore probabilmente lo volesse, Gomorra ha segnato, qualunque sia il suo valore letterario, una svolta simbolica che non è possibile sottovalutare. Per gli intellettuali del nostro paese occuparsi del loro posto nel mondo, denunciare i mali che limitano e umiliano il nostro paese e la collettività in cui viviamo, non è più trascurabile “chiacchiera”, come avevano sostenuto per anni i neoheideggeriani e i sostenitori della crisi dei fondamenti e delle ideologie. Il cosiddetto “ritorno alla realtà” nella letteratura e nel cinema e le recenti prese di posizione pubbliche da parte delle generazioni di intellettuali che hanno fra i trenta e i quaranta anni (è il fenomeno di TQ) hanno stupito chi non aveva compreso i movimenti profondi della società in cui viviamo, dal movimento degli studenti e dei ricercatori nell’inverno 2010-11 all’esplosione di quello delle donne di “Se non ora, quando?”. Che i filosofi riscoprano il principio della realtà e la datità materiale dell’esperienza conoscitiva e facciano convegni internazionali per diffondere tale scoperta può far sorridere (la materialità del mondo è sempre stata lì, erano loro che non volevano vederla), ma è un fenomeno comunque significativo, così come la rivalutazione in atto della razionalità e dell’argomentazione logica.
 
8.
Sta aprendosi in questi ultimi mesi una fase che dieci anni fa non era prevedibile, ma di cui indubbiamente l’ultimo decennio ha posto le premesse. I nuovi intellettuali, privi di autorità e di centralità, stanno cercando forme di organizzazione e di intervento che sembrano possedere due fondamentali caratteristiche: agiscono dal basso, puntando sulla relazione orizzontale a rete, su connessioni fra loro liquide e veloci, e agiscono collettivamente, cercando intese capaci di formare movimenti o gruppi mobili, che si aggregano e si disgregano facilmente, ma che implicano comunque un’idea di comunità. Non hanno più nulla della figura tradizionale dell’intellettuale-uomo di cultura, orgoglioso della propria missione individuale e della singolarità del proprio sapere-potere. Della loro passata funzione probabilmente conservano solo questo: la volontà di capire e di intervenire con la loro voce. Tutto sommato, non è poco.
 
 

 
* Riunisco qui, nella forma sintetica e paradigmatica di otto tesi, il contenuto di saggi e articoli scritti fra il 2004 e il 2009, facendovi seguire alcune conclusioni attuali. Mi sembra infatti che quanto sta accadendo (e a cui alludo nelle tesi finali) ne confermi analisi e previsioni.

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