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Un riconoscimento ed una critica ad Anwar Shaikh

Antonio Pagliarone

Ma, forse, la rivoluzione sarà possibile solo una volta compiuta la contro-rivoluzione (Marx)

Questa raccolta di testi prodotti da Anwar Shaikh* avrebbe dovuto essere molto più corposa, purtroppo sono stati pochi ad essere disponibili nel collaborare ad un progetto del genere. La rivista Connessioni invece ha rivelato estremo coraggio nel voler pubblicare e diffondere questo volumetto in un ambiente poco incline ad affrontare uno studio approfondito sulle dinamiche economiche del capitalismo moderno. Si è scelto Anwar Shaikh poiché rimane, nonostante qualche deviazione dal corso originario, uno studioso attento che ha introdotto nell’ambito del marxismo quel metodo dell’Empirical Evidence totalmente estraneo agli intellettualoidi marxisti nostrani impegnati da sempre nell’analizzare rozzamente lo stato dell’economia sulla base di scelte politiche o della governance di dinamiche oggettive. I primi lavori di Shaikh, tra i quali abbiamo selezionato l’ottimo Introduzione alla storia delle teorie delle crisi del 19781, partono dal presupposto che tutto il marxismo del secolo scorso si è impantanato su analisi delle dinamiche economiche fondate su lavori proposti da economisti non marxisti introducendovi semplicemente il solito linguaggio di sinistra come farcitura di tesi, in realtà tutte interne al sistema capitalistico, impegnate nel risolvere i problemi derivati dalle crisi cicliche. L’eresia iniziale di Shaikh consisteva semplicemente nel rimettere al centro della analisi marxiana delle crisi e delle riprese fattori fondamentali come la profittabilità e l’accumulazione che lo stesso Marx aveva proposto nei suoi scritti più importanti ma in seguito completamente dimenticati dai mastodonti del 900 fatta eccezione per Henryk Grossmann, con il suo famoso Das Akkumulationsund Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems (Zugleich eine Krisentheorie)2 scritto nel 1929, ed in seguito Paul Mattick3. Non è importante rivendicare una sorta di fedeltà al marxismo, come molti si sforzano ancora di dimostrare, ma semplicemente di usare le categorie e l’approccio marxiano in quanto risultano ancora indispensabili per comprendere l’andamento del modo di produzione capitalistico.

Lo stesso Marx nella prefazione alla edizione tedesca del I libro del Capitale nel 1867 afferma:


“Perché il corpo già formato è più facile da studiare che la
cellula del corpo. D’altra parte né il microscopio né i reagenti chimici possono essere utili per l’analisi delle forme economiche. La forza d’astrazione deve sostituirli entrambi. Ma per la società borghese la forma di merce del prodotto di lavoro, cioè la forma di valore della merce, è la forma economica che corrisponde alla forma di cellula. Agli illetterati può sembrare che l’analisi di tali forme si aggiri tra semplici sottigliezze, ma solo come se ne trovano nell’anatomia microscopica”.


L’evidenza empirica avrebbe dovuto dimostrare una volta per tutte che la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio del profitto era corroborata da dati e valori concreti ricavabili dalle statistiche moderne messe a disposizione dai centri di ricerca e di rilevazione più o meno ufficiali. Da allora, ovvero a partire dalla fine degli anni 70 nel pieno di una crisi capitalistica globale, molti studiosi di lingua anglosassone hanno seguito il metodo empirico della analisi producendo una massa enorme di studi che venivano regolarmente presentati e discussi nelle convention che li riunivano quasi annualmente. L’obiettivo non era quello di trovare una sorta di aggregazione monolitica tra marxisti di vari paesi ma di favorire lo scambio di dati e di interpretazioni dei fenomeni che potevano essere utili a chiunque avesse a cuore il futuro dei lavoratori superando le barriere precostituite da un marxismo ideologico che aveva fatto della separazione e del settarismo la quintessenza della sua sopravvivenza. Naturalmente col passare del tempo questo nuovo modo di fare ricerca e di utilizzo dei risultati si è frantumato in molti rivoli e non sono mancate le solite polemiche, a volte sterili, di intellettuali che si erano dimenticati dei lavoratori e dei loro problemi reali per concentrarsi nelle immancabili diatribe da prime donne tipiche dei cattedratici, ma resta il fatto che alcuni di questi intellettuali, e tra questi Shaikh, hanno alternato studi empirici raffinatissimi ad interventi diretti sulla pubblicistica di base e conferenze destinate a giovani lavoratori. Questo nuovo approccio empirico venne introdotto in Italia, a partire dai primi anni 80, dalla rivista Plusvalore che ha pubblicato tra gli altri diversi articoli di Shaikh sull’andamento del saggio del profitto negli Stati Uniti e sul problema della trasformazione da Marx a Sraffa4, un tentativo ambizioso in un paese dove vige una tradizione culturale di tipo sociologico poco incline all’utilizzo di modelli matematici al posto di affermazioni ideologiche, ripetute ancora oggi come un mantra, finalizzate alla propaganda o al proporsi come esperti in grado di risolvere tutti i problemi una volta entrati nel sistema burocratico. Infatti dopo dieci anni Plusvalore fu costretta a chiudere le sue pubblicazioni proprio per l’impossibilità di favorire l’approfondimento dei temi proposti in una rivista dalla tiratura modesta e dalla distribuzione sommersa da una montagna di pubblicistica di basso livello che si fregiava di non utilizzare le grandezze di una scienza triste come l’economia (considerata dai più come borghese) per mascherare in realtà la totale ignoranza delle categorie economiche utili per confermare l’inevitabilità della crisi capitalista. Shaikh, nato a Karachi nel 1945, si era avvicinato ad un approccio economico proprio in coincidenza delle lotte studentesche alla Columbia University dove aveva iniziato a frequentare i corsi di economia considerandoli piuttosto poveri per una mente vulcanica come la sua ed una volta letto un saggio di Geoff Harcourt venne completamente attratto dal lavoro metodico. Infatti egli stesso afferma:

“Sono entrato alla facoltà di Economia della Columbia University nell’inverno del 1967 ed ho partecipato alla occupazione dell’ateneo durante gli scioperi studenteschi del 1968 e in genere disprezzavo la teoria neoclassica quando mi veniva insegnata. Il saggio di Geoff ebbe un impatto immediato e forte sul mio modo di pensare e mi introdusse ai lavori di Joan Robinson, Sraffa, Pasinetti, Garegnani. Bhaduri e di molti altri. Mi mostrò inoltre che l’economia classica e marxiana possono essere alternative rigorose alla teoria neoclassica”.


Da questo momento Shaikh inizia a produrre lavori sempre più raffinati pubblicati in numerose riviste specializzate che gli garantiranno la cattedra di Economia alla New School for Social Research di New York e la collaborazione a numerosi Istituti di Ricerca tra i quali il Levy Economic Institute . Appena laureato nel 1978 scrisse l’articolo Marx’s Theory of Value and the Transformation Problem avviando una dibattito, che prosegue tuttora, sul problema della trasformazione dei valori in prezzi. In seguito ha prodotto numerosi libri ed articoli tra i quali Measuring the Wealth of Nations: The Political Economy of National Accounts scritto con E. Ahmet Tonak nel 1996, nel quale vi è un meticoloso lavoro empirico sullo stato dell’economia nei maggiori paesi industrializzati, fino a Globalization and the Myths of Free Trade del 2008. e il più recente Economic Policy in a Growth Context: A Classical Synthesis of Keynes and Harrod del 2009 (un testo molto interessante che non siamo riusciti ad inserire nella raccolta) Tutte le sue pubblicazioni sono disponibili nel suo sito newschool.edu/anwar-shaikh. Occorre notare che negli scritti iniziali di Shaikh risulta evidente la teoria delle crisi secondo la quale le dinamiche delle onde lunghe portano ad un declino della profittabilità generato dall’aumento della composizione organica. Il capitalismo ad ogni fase di ripresa pone immediatamente le basi per una successiva stagnazione e crisi come accaduto negli anni 70, dopo la fase del Golden Age, nelle maggiori economie del pianeta ma la crescita successiva diviene sempre più difficoltosa per effetto della dinamica concorrenziale provocata da nuovi investimenti. Comunque il capitalismo non è ancora morto per cui Shaikh col passare del tempo ha fatto della teoria delle onde lunghe una sorta di oscillazione permanente poiché non è riuscito nemmeno ad intravedere il processo di trasformazione subito dal capitalismo a partire dagli anni 80 sino ad oggi. Purtroppo i marxisti quando si impegnano ad analizzare le dinamiche del capitalismo si fanno affabulare a livelli tali da divenire essi stessi apologeti del capitale trasformandosi, quando va bene, in keynesiani “radical”. Infatti Shaikh non si è accorto della mutazione del capitale e della sua dinamica speculativa e lo si nota chiaramente nell’articolo Il Mercato Azionario ed il settore Corporate negli USA nel quale si preoccupa esclusivamente di dimostrare che la finanza non è assolutamente separata dall’economia reale anzi ne è condizionata dai fondamentali tanto da mettere a confronto l’andamento del saggio del profitto nel settore corporate con quello dei rendimenti azionari di Wall Street ricavandone una sorta di correlazione che lascia molto a desiderare. Infatti l’errore madornale di Shaikh è quello di considerare il settore corporate come se fosse unico cadendo nella trappola piuttosto ingenua di trascurare la parte finanziaria delle stesse corporate accorpando i profitti speculativi a quelli relativi alla produzione di merci. In sostanza vengono confrontate grandezze delle quali una comprende parte dell’altra invece di mettere in relazione l’andamento dei saggi di rendimento della Borsa con quello del saggio del profitto nel settore non finanziario delle corporate, come ha suggerito Paolo Giussani in una discussione su questo articolo, e si può notare tra l’altro che la correlazione tra le due grandezze5 di Shaikh si perde dopo gli anni 80 (vedi grafico qui sotto).


Nell’articolo Una spiegazione dell'inflazione e della disoccupazione: una sfida alla teoria economica neoliberale Shaikh mette in seria discussione il luogo comune che lega l’inflazione al tasso di disoccupazione formulato sia dai neoliberisti sia dai keynesiani naturalmente secondo prospettive decisamente diverse. Vorrei aggiungere che questo luogo comune è stato definitivamente messo in discussione dai fenomeni che stiamo vivendo proprio nei nostri tempi dove assistiamo ad un continuo incremento della disoccupazione, legato a fenomeni endogeni, mentre l’inflazione reale cresce in maniera considerevole. Nell’articolo La Crescita e la Caduta del Welfare State negli USA del 2002 di A. Shaikh e Tonak vengono sistemate ulteriormente le considerazioni presenti nel vecchio lavoro, scritto sempre con Tonak, The Welfare State and the myth of the Social Wage del 1987 periodo in cui molti studiosi vicini al marxismo empirico hanno pubblicato studi sull’argomento relativi a vari paesi come A. Freeman, Lo Stato sociale in Germania in Plusvalore», n. 12; A. Freeman, Il Welfare State in Gran Bretagna in Plusvalore n. 10; Diego Guerrero, Lavoro, capitale e redistribuzione del reddito da parte dello stato: l’evoluzione dell’«imposta netta» in Spagna (1970-1987), in Plusvalore n. 8. Tutti questi interventi avevano come obiettivo quello di contrastare l’ ideologia keynesiana dominante nel passato che aveva generato l’illusione di un capitalismo in crescita permanente all’interno del quale i lavoratori avrebbero beneficiato del sostegno statale in eterno. In realtà i lavoratori lo stato sociale se lo sono pagato, eccome. Anzi attraverso la tassazione dei salari è stato possibile addirittura finanziare le avventure belliche del secondo dopoguerra. Shaikh arriva così alla conclusione per gli Stati Uniti secondo la quale:

Nel complesso è la tassazione sulla popolazione lavorativa che essenzialmente finanzia le spese statali relative alla salute, all’istruzione, alla previdenza, alla disoccupazione, ai sussidi statali, alle abitazioni e a tutta una serie di programmi sociali. In tutto il periodo postbellico, in media il bilancio netto tra tasse pagate direttamente dai redditi degli occupati e le spese sociali ricevute direttamente dalla stessa popolazione è di un mero 0,6% delle retribuzioni totali percepite dagli occupati. In altre parole essa è praticamente zero.


Nel testo più recente La Prima Grande Depressione del XXI° Secolo, pubblicato dalla rivista annuale indipendente Socialist Register, Shaikh tende a sottolineare la correlazione inversa tra tasso di interesse e tasso di rendimento così da favorire l’indebitamento che a sua volta ha alimentato le bolle finanziarie ed immobiliari a livello mondiale. La massa di capitale, secondo lui, riversato nelle imprese e nelle banche non è stato rivitalizzato in termini di investimento in conseguenza dell’incremento del grado di rischio. Ma la cosa che sorprende è che Shaikh in seguito afferma che per gli Stati Uniti il boom successivo agli anni 80 è da imputare al progressivo indebitamento delle famiglie che avrebbe determinato un aumento dei consumi che a loro volta avrebbero dato alimento all’incremento dei profitti di impresa. Purtroppo Shaikh non ci mostra nel suo lavoro alcun dato sulle direzioni che hanno preso i capitali presi a prestito dalle famiglie americane. Egli genericamente ci indica la via dei consumi ma dati più particolareggiati ci rivelano che l’indebitamento delle famiglie è causato principalmente dall’aumento dei costi dei servizi come l’istruzione, la sanità ecc. mentre i consumi di beni comuni sono andati declinando in maniera più pronunciata nell’ultimo decennio. Purtroppo Shaikh non riconosce che l’incremento del saggio del profitto tra il 1982 ed il 2007 è stato determinato dai profitti speculativi che vengono annoverati nella contabilità nazionale ed è testardo nel non voler ammettere l’importanza di prodotti finanziari totalmente anomali come i derivati, nemmeno in uno scambio di lettere con Nasser Saber6 che avevamo pubblicato nel vecchio sito countdown. Quindi torniamo a ripetere che Shaikh essendosi impantanato nella sua visione troppo classica sull’andamento del saggio del profitto mostra una certa miopia nell’analizzare la dinamica speculativa degli ultimi decenni7. Secondo me ha ragione Shaikh nel definire l’attuale crash come una Grande Depressione, non mancando di fare i soliti parallelismi con quella più famosa del 1929, ma ahimè non ne scorge la causa principale che risiede in una radicale trasformazione dell’economia globale in una sorta di casinò sostenuto da un indebitamento senza precedenti. Ma Shaikh cosa ci propone? La solita ricetta per la quale lo stato dovrebbe direttamente intervenire nel garantire reddito ai lavoratori e soprattutto ai disoccupati, attraverso politiche di New Deal, anche se non lo ammette direttamente, in modo da favorire i consumi e quindi la profittabilità delle imprese incentivate ad assumerli. Se non è keynesismo questo...

* Anwar Shaikh, La crisi, ed. Connessioni, 2012. Liberamente scaricabile in formato prf qui.

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1 La traduzione è stata curata da Marco Riformetti.

2 Il crollo del capitalismo. La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Milano, Mimesis, 2010

3 Il sito Connessioni ha fatto un lavoro eccezionale per l’Italia raccogliendo molti scritti di Mattick
[http://paulmattickarchivio.blogspot.it/] e proseguendo nella traduzione di altri, inoltre il sottoscritto ha scritto una biografia meticolosa di Paul Mattick che uscirà per le Edizioni Colibri di Milano.

4 Rispettivamente in Plusvalore n 8 1990, n 11 1993 e n 3 1984.

5 Giussani suggerisce inoltre che quello che Shaikh (e molti altri) definisce rendimento di Wall Street è in realtà una grandezza spuria composta da due quantità non sommabili: aumento del valore nominale delle azioni e dividendi incassati, cosa che rende tale nozione non del tutto sensata.

6 Nasser Saber è stato il primo e forse l’unico ad introdurre lo studio dei derivati e della finanza speculativa sin dal 1999 anno della pubblicazione del volume Speculative Capital volume 1. The invisible hand of global finance. (Financial Times-Prentice Hall, Londra, 1999). Saber ha poi pubblicato un secondo volume intitolato Speculative Capital & Derivatives (Financial Times-Prentice Hall, Londra, 1999) e dedicato peculiarmente alla teoria dell’impiego delle opzioni, e nella serie ne ha annunciati in gestazione altri tre. Il terzo intitolato The enigma of options, il quarto Dialectics of finance e il quinto e finale Systemic risk (vedi www.sabersystem.com). Nessuno di questi testi è stato mai tradotto e tanto meno pubblicato o diffuso in Italia.

7 A tale proposito vorrei rimandare ad un paio di vecchi articoli di Paolo Giussani poco diffusi, e purtroppo non tradotti in inglese, dal titolo significativo “L’Arcano Globale” del 2002 e “Il capitale Speculativo” del 2004. Inoltre vorrei segnalare anche il mio Mad Max Economy Sedizioni Milano 2008.

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