Print Friendly, PDF & Email

effimera

Capitalismo cognitivo e reddito sociale garantito come reddito primario

di Carlo Vercellone

Dopo la pubblicazione – nella sezione Ecologia Politica di Effimera – dell’importante testo di André Gorz “Pensare l’esodo dalla società del lavoro e della merce“, riteniamo che questo ottimo saggio di Carlo Vercellone possa risultare utile per chiarire il dibattito tra neo-operaisti e lo stesso Gorz sul tema del reddito sociale garantito. Testo tratto da  A. Caillé, Ch. Fourel (a cura di), Penser la sortie du capitalisme, Le scénario Gorz, Le Bord de l’eau, coll. “La bibliothèque du Mauss”, Bordeaux 2013. La versione originale francese è scaricabile in pdf qui: Vercellone_Gorz. Traduzione a cura di Davide Gallo Lassere ed Emanuele Leonardi, che ringraziamo

overconsumption 400x400Nell’evoluzione del pensiero di André Gorz il dialogo con la problematica operaista del general intellect – e con la tesi del capitalismo cognitivo – rappresenta un momento importante sia rispetto alla riflessione sulla crisi del capitalismo che sul modo di pensare la fuoriuscita da esso.

Per capitalismo cognitivo s’intende il passaggio del capitalismo industriale, caratterizzato dall’egemonia del lavoro e del capitale materiale, a una nuova tappa contrassegnata – in estrema sintesi – da due elementi dominanti:

– la dimensione cognitiva e immateriale del lavoro diviene dominante sul piano della creazione di valore e ricchezza, mentre la forma principale di capitale diventa il capitale detto immateriale o intellettuale, concetto che per Gorz rappresenta un vero e proprio ossimoro. Da questo punto di vista, la posta in gioco centrale della valorizzazione del capitale e delle forme di proprietà poggia direttamente sulla trasformazione della conoscenza e del vivente stesso in capitale e in merce fittizia;

–  questa evoluzione s’inscrive in un contesto in cui la legge del valore-tempo di lavoro entra in crisi ed emerge una logica di accumulazione del capitale caratterizzata da ciò che possiamo definire divenire rendita del profitto. Ne deriva una crescente distanza tra la logica della merce e quella della ricchezza che mostra in maniera esemplare “la crisi del capitalismo nelle sue fondamenta epistemiche”.

Occorre precisare che secondo Gorz – e qui troviamo un contributo essenziale alla problematica del capitalismo cognitivo – quest’ultimo “non è un capitalismo in crisi, è la crisi del capitalismo che scuote profondamente la società”. Ciò significa che è la contraddizione fondamentale che oppone, da un lato, la logica parassitaria e rentière del capitalismo cognitivo e, dall’altra, le condizioni oggettive e soggettive alla base di un’economia fondata sul sapere, la quale comporta “in fin dei conti una negazione dell’economia capitalistica di mercato”.

Una delle conseguenze più significative di questa evoluzione del pensiero di Gorz è quindi il cambiamento della sua posizione nei confronti di un reddito sociale garantito incondizionato e indipendente dall’impiego, proposta a cui s’ era opposto fino alla metà degli anni Novanta – preferendole un progetto di riduzione progressiva e radicale, su scala sociale, della quantità di lavoro-impiego effettuata nella sfera della necessità.

È precisamente il riconoscimento del legame esistente tra lo sviluppo di un’intelligenza collettiva e la crisi della legge del valore che conduce Gorz, in Miserie del presente ricchezza del possibile, ad aderire all’idea di un reddito di esistenza. L’argomento è il seguente: “quando l’intelligenza e l’immaginazione (il general intellect) divengono la principale forza produttiva, il tempo di lavoro cessa di essere la misura del lavoro; di più, esso cessa di essere misurabile”. La conseguenza è che diventa sempre più difficile immaginare una riduzione omogenea del tempo di lavoro attraverso “una quantità incomprimibile di lavoro che ciascuno debba svolgere in un periodo determinato”[1].

Esiste dunque uno stretto legame tra le tematiche del general intellect del capitalismo cognitivo e il modo di giustificare e concepire la proposta di un reddito sociale garantito (RSG). Su queste basi, nello spirito di dialogo vivo e aperto con la riflessione di André Gorz[2] che anima questo convegno, questo contributo si articolerà in due parti. Nella prima si tratterà di richiamare schematicamente alcuni fondamenti teorici essenziali che, a nostro avviso[3], permettono di caratterizzare il senso e l’originalità della proposta di RSG a partire dalla tesi del capitalismo cognitivo. In questa prospettiva vedremo che, se da un lato esistono certamente punti di continuità e convergenza con l’eredità gorziana, dall’altro alcune questioni risultano ben più aperte e contraddittorie.

Nella seconda parte ci soffermeremo logicamente sulla natura di queste divergenze che riguardano in particolare la modalità di concepire il reddito garantito come reddito primario e di giustificarne il carattere incondizionato.

 

I- I fondamenti teorici della concezione del reddito sociale garantito in quanto reddito primario

La proposta di RSG elaborata da Jean-Marie Monnier e da me nel contesto dell’approccio del capitalismo cognitivo poggia su due principali fondamenti teorici che la differenziano profondamente sia dal reddito minimo condizionato (per esempio il Reddito di Solidarietà Attivo [RSA]) che da altre proposte di reddito di cittadinanza, d’esistenza o d’allocazione universale in cui il RSG, malgrado il proprio carattere incondizionato, continua ad esprimere una logica redistributiva.

 

I-1. Il RSG come strumento di allentamento del vincolo monetario sul rapporto salariale

Il primo fondamento consiste nell’iscrizione del RSG in un processo di rafforzamento del processo di ri-socializzazione e de-mercificazione dell’economia avviatosi nel dopoguerra con lo sviluppo del sistema moderno di protezione sociale e del diritto del lavoro. Il RSG non si sostituirebbe dunque in alcun modo alle istituzioni e alle prestazioni che costituiscono le radici dell’attuale architettura del sistema di protezione sociale. Si propone di completarle salvaguardando conquiste cruciali come il sistema pensionistico, quello sanitario o i sussidi di disoccupazione.

In questo contesto, il ruolo del RSG è quello di attenuare il vincolo monetario che presiede alla fonte della norma sociale del rapporto salariale che definisce, nel senso marxiano, la sussunzione formale del lavoro al capitale. Detto altrimenti, il RSG intende rompere il circolo vizioso che subordina la riproduzione della forza lavoro alla sua vendita sul mercato del lavoro rendendo l’accesso alla moneta – e dunque al reddito – una variabile dipendente dalle aspettative dei capitalisti rispetto al volume della produzione – e quindi dell’occupazione – considerata redditizia.

In questo senso l’instaurazione di un RSG indipendente dall’impiego deve corrispondere ad un reddito sufficiente per vivere o almeno per permettere ai lavoratori di rifiutare condizioni di lavoro ritenute inaccettabili. Il RSG si oppone dunque alla degradazione delle condizioni di lavoro e di remunerazione che rendono ormai uno SMIC [Salario Minimo Inter-professionale di Crescita] part time la norma in rapporto alla quale si regola l’ammontare dei servizi sociali minimi (minima sociaux). L’attenuazione del vincolo monetario sul rapporto salariale reso possibile dal RSG costituirebbe una condizione fondamentale per permettere ai lavoratori di riappropriarsi del potere decisionale sul loro tempo di vita e di utilizzare il tempo e le energie psichiche liberate per lo sviluppo di diverse forme di produzione del comune alternative alla logica della merce e del lavoro salariato subordinato. In questo modo il RSG favorirebbe il passaggio dall’attuale modello di precariato subito a un modello di mobilità scelta tra differenti tipi di attività e di impiego, permettendo inoltre di modificare i rapporti di forza all’interno delle imprese a partire dalla società.

 

I-2. Il RSG come nuova forma di reddito primario

Il secondo fondamento consiste nell’affermazione che il RSG non deve essere pensato come reddito secondario (di trasferimento) legato alla redistribuzione del reddito. Inoltre, la sua giustificazione teorica non deve essere di natura esclusivamente etica, fondata per esempio sul semplice riconoscimento del diritto all’esistenza. A differenza delle varie proposte di allocazione universale, la nostra tesi è che il RSG debba essere concepito, rivendicato e instaurato come reddito primario, il che implica una messa in questione dell’approccio riduttivo – e tuttavia ancora dominante – basato sulla nozione di lavoro produttivo, e più specificamente della sua assimilazione alla nozione di lavoro-impiego.

Cosa bisogna dunque intendere quando si afferma che il RSG costituisce un reddito primario, un’idea che Gorz condivideva seppur in termini un poco diversi da quelli che propongo, per esempio, assieme a Jean-Marie Monnier?

La nostra posizione è che il RSG debba essere inteso come reddito risultante direttamente dalla produzione (e quindi della ripartizione detta primaria), cioè da un lavoro sociale e un’attività creatrice di valore e di ricchezza oggi non riconosciuta, non remunerata e al contempo non misurabile secondo una scala prestabilita, come direbbe Gorz.

Questa definizione di RSG in quanto nuova forma di reddito primario si basa in gran parte sull’analisi delle trasformazioni del lavoro legate all’incremento della sua dimensione cognitiva, e questo tanto nella sfera del lavoro materiale che in quella del lavoro immateriale.

Occorre a questo proposito notare che i lavori di Gorz a partire da Miserie del presente ricchezza del possibile hanno apportato un contributo fondamentale, precisamente mostrando come – quasi per essenza – il lavoro cognitivo si presenti in qualità di combinazione complessa di un’attività intellettuale di riflessione, comunicazione, condivisione ed elaborazione dei saperi che si dà tanto a monte e al di fuori quanto all’interno del lavoro immediato, diretto di produzione effettuata nell’orario di lavoro ufficiale. Il tempo di lavoro diretto di produzione effettuato nell’orario di lavoro ufficiale non costituisce più che una frazione, talvolta la meno importante, del tempo effettivo di lavoro.

Da questa analisi del lavoro cognitivo discendono due conseguenze essenziali e a tratti contraddittorie.

La prima è che le frontiere abituali tracciate dal modello fordista-industriale tra tempo di lavoro e “tempo libero” si sgretolano e rimettono in discussione – come Gorz stesso riconosce – la possibilità di stabilire una separazione netta tra la sfera del lavoro eteronomo e dell’economico, da un lato, e la sfera dell’autonomia e del non-economico, dall’altra[4].

La seconda conseguenza è che questa nuova dimensione del lavoro vivo – per citare Gorz “il lavoratore è ad un tempo la forza-lavoro e colui che la comanda” – sfugge simultaneamente alla sua misura ufficiale e ad una concezione riduttiva che l’assimilerebbe alla nozione di impiego salariato.

Più fondamentalmente ancora, in un’economia fondata sulla conoscenza, non è più nelle imprese ma ormai in tutta la società che si operano essenzialmente i processi di creazione di saperi e ricchezze, secondo una logica che trova la propria figura esemplare nel modello cooperativo e non mercificato del software libero e della Wikinomics.

Ne risulta che la ragione principale per giustificare la messa in atto del RSG non può riposare sulla sola constatazione della crisi strutturale delle politiche di pieno impiego, a rischio di presentarle come un semplice dispositivo di attenuazione degli effetti perversi della disoccupazione di massa e della precarietà, e non come un mezzo d’emancipazione e di trasformazione sociale radicale. È anche la ragione per la quale il fondamento primo della proposta del RSG come nuova forma di reddito primario implica un riesame e un’estensione del concetto di lavoro produttivo da un doppio punto di vista.

Il primo concerne la nozione di lavoro produttivo pensata, secondo la tradizione dominante nell’economia politica, come il lavoro che produce un profitto e partecipa delle creazione di valori di scambio. Si tratta di una constatazione per cui assistiamo oggigiorno a un’estensione considerevole dei tempi di lavoro aldilà della sua durata ufficiale, i quali sono direttamente o indirettamente implicati nella formazione di valore captato dalle imprese. A tal proposito, il RSG, in quanto reddito primario, corrisponderebbe, almeno in parte, alla remunerazione collettiva di questa dimensione sempre più collettiva, di un’attività produttrice di valore che si estende sull’insieme dei tempi sociali e si traduce, sotto forme spesso inedite, in un prolungamento del tempo effettivo di lavoro e l’accrescimento di plus-valore assoluto. Questa rivendicazione potrebbe in questo senso costituire anche il vettore di una ricomposizione sociale delle figure del lavoro in una lotta per la riappropriazione di una parte del valore aggiunto perduto da parte dei salari a vantaggio delle rendite e dei profitti.

Il secondo punto riguarda il concetto di lavoro produttivo, pensato contro la tradizione dominante nella teoria economica, come lavoro produttore di valore d’uso, di una ricchezza che sfugge alla logica di mercato e del rapporto salariale sottomesso al capitale. Si tratta insomma di rimettere in discussione l’assimilazione abusiva del concetto di lavoro al concetto di lavoro-impiego e di affermare, con forza, che il lavoro può essere improduttivo di capitale[5], ma produttore di ricchezza non mercificata, attribuendo così il diritto a un reddito versato al difuori della logica contabile consistente nella misura dello sforzo individuale.

Bisogna sottolineare come si presentino in questo modo un insieme di argomenti che ci permettono inoltre di rovesciare la critica moralista di un reddito garantito dissociato dal lavoro: in effetti, la “cosiddetta” contropartita in lavoro esiste di già. È al contrario la contropartita in termini di reddito che manca[6].

Per concludere, nella seconda parte di questo intervento, ci è sembrato utile attardarci su alcuni punti chiave della divergenza tra l’approccio del RSG che difendiamo e quella di Gorz, concernente il modo di giustificare il suo carattere di reddito primario e incondizionato.

 

II. Reddito primario e/o strumento di sviluppo di attività autonome? Due concezioni del RSG?

Dobbiamo dunque sottolineare che Gorz stesso indica a più riprese l’importanza di una definizione del RSG in quanto reddito primario. È così, per esempio, quando afferma nel suo libro L’immateriale che “la rivendicazione della garanzia incondizionata di un reddito sufficiente deve soprattutto significare che il lavoro dipendente non è più il solo modo di creazione di ricchezza, né il solo tipo d’attività il cui valore sociale deve essere riconosciuto”. Detto altrimenti, prosegue Gorz, “la garanzia di un reddito sufficiente deve marcare l’importanza crescente, virtualmente preponderante, di questa altra economia creatrice di ricchezze intrinseche, non misurabili né scambiabili. Deve marcare la rottura tra creazione di ricchezza e creazione di valore”. E, precisa Gorz, “deve porre giustamente in evidenza che ‘disoccupazione’ non significa inattività sociale né inutilità sociale, ma solamente inutilità rispetto alla valorizzazione diretta del capitale”.

Con una formidabile capacità anticipatrice rispetto alla riflessione che si svilupperà verso la fine degli anni 2000, Gorz sembra associare questa caratterizzazione del reddito garantito come reddito primario a quella di un’istituzione del comune, come quando scrive che il RSG corrisponde “in fin dei conti alla messa in comune di una parte di ciò che è prodotto in comune, consapevolmente o meno”.

Tuttavia, Gorz finisce per “rifiutare” questa fondazione del reddito sociale garantito come “remunerazione di un’attività produttiva”, affermando che questa formulazione resterebbe radicata alla teoria del valore-lavoro e, prendendo atto della messa al lavoro totale della persona, finirebbe per legittimarla. Essa comporterebbe inoltre il rischio che “l’uso che ne farebbero i suoi beneficiari potrebbe essere amministrativamente prescritto o perlomeno controllato”, ripiombando pertanto “nello scenario di attività di cittadinanza remunerate da un salario cittadinanza”.

Gorz opta allora per una giustificazione “non economica ma politica”, secondo la quale il reddito non è più compreso come la remunerazione di una creazione di ricchezza, ma come “ciò che deve rendere possibile il dispiegamento di attività che sono una ricchezza e un fine per esse stesse”, insomma come una sorta d’investimento sociale che permette di finanziare la cooperazione libera e creatrice delle moltitudini del general intellect. Così facendo, spinge il ragionamento fino a parlare di due concezioni del RSG.

Questo scivolamento della giustificazione del reddito garantito pone diversi problemi, di cui purtroppo non è stato possibile discutere con lui.

Il primo è che Gorz passa così da una giustificazione del RSG fondata ex-ante sulla produttività sociale dell’intelligenza collettiva, a una giustificazione che fa oramai del reddito sociale garantito essenzialmente uno strumento che mira ex-post a permettere “ai creatori di creare, agli inventori di inventare”, ossia di rendere possibile il dispiegamento di attività fuori dal mercato, fondate su forme di cooperazione alternative alla logica del capitale. Questo tipo di argomentazione si basa su una dissociazione piuttosto arbitraria tra giustificazione economica e giustificazione politica, tra lotta sulla ripartizione e lotta per porre le fondamenta di un altro modo di produzione, come i due pilastri indissociabili della rivendicazione del RSG[7]. Crea inoltre e soprattutto un pericolo maggiore, che consiste nell’allontanarsi da un approccio che consideri il RSG come un reddito primario.

Il secondo problema è che questo tipo di argomentazione considera il RSG come il riconoscimento di una concezione nuova della nozione di lavoro produttivo, ma piuttosto come uno strumento e un investimento sociale al servizio del dispiegamento di forme alternative di creazione di ricchezza, rischiando così, a differenza della prima giustificazione, di legittimare un controllo amministrativo che rende la sua attribuzione prescritta e condizionata.

Senz’altro – questo il discorso delle amministrazioni che attribuiscono il reddito garantito – abbiamo accettato d’investire su di voi per permettere la realizzazione della vostra forza creatrice. Mostrateci ora la fondatezza dello sforzo finanziario compiuto, il fatto che non si riveli a posteriori come uno spreco di risorse che si sarebbero potute spendere per migliorare le condizioni di lavoro[8]. Gli orpelli della critica moralista di un diritto al reddito dissociato dall’impiego salariato riaffiorerebbero ineluttabilmente in superfice.

Ciò vale ancora di più visto che il finanziamento del reddito garantito, giustificato come un d’investimento, si apparenterebbe a una sorta di credito di cui le amministrazioni, come una banca, potrebbero richiedere la sostenibilità e la redditività economica e sociale.

Ecco perché la giustificazione della sostenibilità del reddito garantito implica, secondo noi, una battaglia politica e culturale, nel senso gramsciano del termine, per affermare a livello sociale l’egemonia di una concezione altra del lavoro produttivo rispetto all’approccio dominante oggigiorno in seno alla teoria economica e alla società capitalista.

È chiaramente difficile sapere ciò che Gorz avrebbe risposto di fronte a tali obiezioni, anche perché potremmo concludere con lui: “solo l’incondizionalità del reddito potrà preservare l’incondizionalità delle attività che traggono tutto il loro significato dal solo fatto che non sono compiute in vista di qualcos’altro”.

In fin dei conti, una giustificazione forte del RSG e del suo carattere incondizionato non può riposare, secondo noi, che su una sintesi delle due concezioni. Il RSG deve insomma presentarsi al contempo come istituzione del comune, come reddito primario per gli individui e come investimento collettivo della società nel sapere che permette la nascita di un modo di sviluppo fondato sulla primazia del non mercificato e delle forme di cooperazione alternative nei loro principi di organizzazione tanto al pubblico che al mercato.

__________________________________________

Note
[1] In questo contesto, proseguiva Gorz, “l’allocazione universale è la più adatta a un’evoluzione che rende il livello generale delle conoscenze – knowledge – la forza produttiva immediata e che riduce il tempo di lavoro a ben poca cosa rispetto al tempo richiesto dalla produzione, dalla riproduzione e dalla riproduzione allargata delle capacità e delle competenze costitutive della forza lavoro nell’economia immateriale”.
[2] Il dialogo che ho intrattenuto con Gorz sul tema del reddito sociale garantito era cominciato addirittura prima della sua adesione all’idea di un’allocazione universale incondizionata attraverso un articolo pubblicato su Futur Antérieur all’inizio degli anni Novanta.
[3] In questo articolo mi appoggio a più riprese sui lavori realizzati in collaborazione con Jean-Marie Monnier.
[4] Come quella che Gorz aveva tentato di teorizzare, per esempio, in Adieux au prolétariat (1980) e Métamorphoses du travail, Quête du sens – Critique de la raison économique (1988), éd. Galilée, Parigi.
[5] Si tratta, del resto, da un punto di vista strettamente teorico, delle attività realizzate in seno ai servizi pubblici non mercificati che producono della ricchezza, ma non valore di mercato. Il carattere incondizionato del RSG si distingue pertanto, in modo radicale, dal salario versato ai lavoratori di questi servizi in quanto non si fonda su un lavoro dipendente né implica dalla parte dei beneficiari una qualsiasi dimostrazione dell’utilità sociale della loro attività. Presuppone il riconoscimento sociale (non burocratico-amministrativo) di un’attività creatrice di ricchezze che si sviluppa a monte e in modo autonomo rispetto alla logica amministrativa della sfera pubblica e alla logica della redditività di mercato del privato, e ciò anche se contribuisce alla loro riproduzione. In questo senso, il RSG corrisponde a una costruzione sociale e istituzionale che prefigura la logica del comune, tanto sul piano dei principi che organizzano la cooperazione produttiva che su quelli che regolano la ripartizione.
[6] Contrariamente a quanto suggerito da Gollain, per esempio, la rivendicazione del RSG sulla base del riconoscimento sociale di questa doppia dimensione del lavoro produttivo non ha dunque nulla a che vedere con un progetto di stabilizzazione del capitalismo cognitivo. Il nostro approccio si è inoltre sempre differenziato dalla posizione, difesa da Yann Moulier-Boutang, secondo cui il RSG potrebbe divenire lo zoccolo di un nuovo compromesso istituzionale suscettibile di riconciliare capitalismo cognitivo ed economia fondata sulla conoscenza.
[7] Più precisamente, questa discussione ci sembra rimanere prigioniera, sotto molti riguardi, della vecchia gerarchia che il marxismo tradizionale stabiliva tra lotta economica della classe operaia, per definizione interna al sistema capitalistico, e lotta politica, capace invece di portare il conflitto sul piano di un progetto di rottura autentica. Ora, come messo in luce dall’operaismo, questa separazione tra lotta economica e lotta politica è non solo erronea, ma associa anche a torto il concetto stesso di “economico” alla sola forma capitalistica, in quanto invariante strutturale. Questa considerazione era vera, per esempio, per l’operaio massa, per il quale la lotta sul salario come variabile indipendente e contro l’organizzazione scientifica del lavoro era indissociabile dall’aspirazione politica a un altro modo di produzione e di ripartizione che permettesse il superamento della divisione capitalista del lavoro. E lo è ancora di più per la figura dell’intelligenza collettiva e del lavoro cognitivo, per cui il RSG rappresenta al contempo, in modo inestricabile, uno strumento di attenuazione del rapporto di sfruttamento e di liberazione del suo potenziale di auto-organizzazione verso un esodo dalla società salariale.
[8] Probabilmente è proprio a causa della coscienza di questo rischio che Gorz, verso la fine della sua vita, tiene a precisare come il RSG non possa essere instaurato “gradualmente e pacificamente da una riforma decisa dall’alto”, ma la sua messa in atto debba essere immaginata come un movimento in espansione che si propaga dal livello locale attraverso un finanziamento che riposa su una moneta parallela o alternativa, ad ogni modo “una moneta differente da quella che utilizziamo oggigiorno”. Questione che apre su una tematica molto dibattuta in seno ai movimenti che promuovono l’instaurazione di un RSG.

Comments

Search Reset
0
fausto
Thursday, 05 May 2016 12:14
Un “reddito minimo incondizionato” non può essere nella logica dello Stato borghese: finanziabile con manovre di fiscalità progressiva e tassazione dei grandi patrimoni, toglierebbe al Capitale la possibilità di drenare lavoro al minimo prezzo.
Se impedisci al capitalismo di sfruttare il lavoratore, hai fatto la rivoluzione (almeno da un punto di vista politico).
Le altre forme attualmente circolanti in forma di ipotesi, svolgono il ruolo – una sorta di “caporalato” in grande scala – di convogliare manodopera disperata verso lo sfruttamento da parte del ciclo produttivo capitalistico.
Temo, pertanto, che il RSG resti una bella utopia; e, come tale, incapace di ingaggiare uno scontro sul terreno dei "valori" con il sistema capitalistico (del quale, non sembra riuscire ad abbandonarne i costitutivi fondamentali).
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit