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linkiesta

Dieci anni dal crack di Lehman Brothers

Ora lo sappiamo: non è stata una crisi, ma un’apocalisse

di Francesco Francio Mazza

Stipendi diminuiti del 70 per cento. Ricchezza pro capite crollata, invasione dei titoli tossici. La crisi finanziaria del 2008 è stata un’apocalisse per il la civiltà occidentale. Ha distrutto le democrazie liberali, ha creato i populisimi, e ha diffuso l’invidia come sentimento sociale dominante

Settembre 2008 - settembre 2018. Sono passati dieci anni dal crack di Lehman Brothers e dall’inizio di quella che, erroneamente, venne chiamata crisi. Non era una crisi: era una fine, la fine del mondo così come lo avevamo conosciuto. Tra migliaia di anni, quando gli storici del futuro guarderanno al nostro confuso presente, la data del 15 settembre 2008 – il giorno in cui fallì l’istituto bancario fondato nel 1850 in Alabama– sarà considerata uno spartiacque, come la data della Rivoluzione Francese o della scoperta dell’America e molto più dell’11 settembre.

In pochi, all’epoca, si resero conto della reale portata dell’evento. Soprattutto in Italia, dove gli imbecilli - si sa - oltre ad ignorare la Luna ignorano pure il dito, impegnati come sono a leccare il posteriore del potente di turno. Mentre il neo Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, affidandosi all’infallibile cartina da tornasole dei ristoranti, affermava che siccome erano pieni non c’era nulla di cui preoccuparsi, la maggior parte dei media italiani era troppo impegnata nelle solite beghe tra massaie per rendersi davvero conto che, in una sola notte, l’unico mito sopravvissuto al Novecento – quello del libero mercato giusto e della “mano invisibile” a vegliare sul ceto medio, aumentandone progressivamente la ricchezza– se n’era andato giù per il tubo di scarico del cesso della Storia, e non sarebbe tornato mai più.

L’ha spiegata bene l’economista Micheal Pearce alla Cnn: «Se prendeste i migliori economisti sulla Terra nel 2007, e li trasportaste nel 2018, mostrando loro come in dieci anni le banche centrali abbiano pompato 9 trilioni di dollari nell’economia globale nel tentativo di rianimarla (peraltro senza riuscirci), nessuno vi avrebbe creduto. Nessuno». Non è facile cambiare un modo di pensare, soprattutto se quel modo di pensare è radicato da secoli nella mentalità degli individui. Del resto, c’è ancora gente che crede fermamente nel sistema aristotelico-tolemaico. Eppure i numeri del cambiamento, riportati la scorsa settimana dal New York Magazine, non lasciano margini di dubbio, neppure al più inguaribile degli ottimisti.

Dal 2007 al 2013 gli stipendi medi, considerando l’insieme dei lavoratori dipendenti americani, sono diminuiti del 70%. Nel decennio 2008-2018, l’indebitamento medio delle famiglie è aumentato di un terzo (Micheal Pearce).

E tutto questo negli Stati Uniti, un Paese comunque in crescita, dove la borsa è ai massimi storici e la disoccupazione ai minimi (4%). Figuriamoci in Italia, dove i dati sulla disoccupazione giovanile e il debito pubblico sono talmente deprimenti che, per evitare che si faccia tutti come le balene andando a suicidarci in spiaggia, si è scelto di rimuoverli dalla coscienza collettiva, anche grazie all’arma di distrazione di massa dell’immigrazione. Si continua ad erodere il patrimonio dei genitori, che a loro volta hanno cominciato ad erodere quello dei nonni: e tra una cena all’all-you-can eat e una gita all’outlet si fa finta di niente, aiutati da abbondanti dosi di Xanax.

Ovviamente, ad un simile sconvolgimento della struttura, non poteva che corrispondere un altrettanto devastante sconquasso al livello della sovrastruttura. In un mondo impoverito, il vizio capitale dominante ha cessato d’esser l’avarizia – il peccato tipico del capitalismo da vacche grasse – per essere sostituito dall’invidia. Siamo diventati un pianeta di gente che non vede l’ora di prendere a bastonate il vicino colpevole di avere l’erba più verde della nostra: non a caso, il social network più diffuso è essenzialmente un mezzo per aizzare l’invidia dell’altro, tramite spiagge da sogno e macchine cabrio, tette di plastica e culi torniti, in una rappresentazione della realtà indistinguibile dai video dei rapper bifolchi, passati - non a caso - dal ruolo di comparse dell’industria musicale a quello di cantori ufficiali di un tempo senza pudore.

Un sentimento - l’invidia – capace di crescere su qualsiasi terreno e di maturare in quello che si è rivelato essere il frutto più redditizio di questa epoca: l’odio. Grazie ad esso, gli agonizzanti media di tutto il mondo hanno trovato nuovo ossigeno, inventandosi la cosiddetta “economia dell’indignazione”: ogni articolo, ogni titolo, ogni frase ha come unico scopo quello di far incazzare la propria bolla di riferimento, di gasare le proprie baionette per mandarle alla battaglia online contro la bolla avversaria armate di shares, likes e retweets. Non ci sono più vittime e colpevoli da accertarsi nei modi e nei tempi previsti dalla giustizia: ci sono colpevoli a priori e vittime a prescindere, a seconda di quale sia la bolla cui la testata di riferimento si rivolge. E poi basta starsene con i piedi sulla scrivania a godersi le briciole dei ricavi pubblicitari, il grosso dei quali finisce nella pancia dei Leviatani senza volto della Silicon Valley.

Il vizio capitale dominante ha cessato d’esser l’avarizia – il peccato tipico del capitalismo da vacche grasse – per essere sostituito dall’invidia. Non a caso, il social network più diffuso è essenzialmente un mezzo per aizzare l’invidia dell’altro, tramite spiagge da sogno e macchine cabrio, tette di plastica e culi torniti

Un mondo del genere, popolato da un’umanità identica alla folla inferocita dei Simpson’s e dunque facilmente strumentalizzabile, avrebbe fatto la felicità dei politici di ogni epoca. E infatti, nella nostra, la politica ha definitivamente mollato gli ormeggi.

I politici di oggi – tutti, non solo quelli che si definiscono populisti – non hanno più nulla di coloro che li hanno preceduti: non obbediscono alle stesse dinamiche, non sono sottoposti alle stesse leggi. Per aver salvato i responsabili del collasso (le famose élite) e averne scaricato i costi sul popolo attraverso la famigerata austerità, rischiavano di sparire sul serio: per questo, da allora si sono messi al servizio dell’Uomo Della Strada, assecondandone ogni umore, anche i più turpi, facendo di tutto per compiacerlo, senza un barlume di quel senso di responsabilità che, bene o male, avevano i loro predecessori.

Stordita dalla paura di perdere tutto, una massa di elettori senza memoria c’è cascata con tutte le scarpe. Una volta l’opinione pubblica esigeva misure concrete, chiedendo conto delle promesse non mantenute: oggi punisce solo “l’assenza di narrazione” che è un modo carino per dire “assenza di cazzate”. Le ultime elezioni italiane ce lo hanno mostrato con estrema chiarezza: i fatti non contano, quello che conta è un sentimento di fondo da orientare facendo leva sugli istinti più elementari, siano il terrore per un’inesistente invasione o per un altrettanto inesistente ritorno del fascismo.

Per questo i politici di oggi non richiamano statisti alla Roosevelt o De Gasperi ma promoter come Don King o Vince McMahon: il loro mestiere non è immaginare il futuro ma convincerci di vivere un eterno presente, schiacciati da una minaccia continua da cui solo loro ci possono salvare. E la loro strategia è la costante chiamata alle armi, lo scagliare la propria bolla contro qualcuno o qualcosa - siano i migranti, i pdioti, i grullini, Trump, Renzi, eccetera – invece che provare, finalmente, a dare origine ad un nuovo sistema di riferimento, visto che il vecchio è collassato dieci anni fa e da allora non facciamo altro che spartirci il cadavere, tirando a campare. Ma è una battaglia persa in partenza. I giornali stanno rilanciando lo slogan del giorno, gli ultras hanno ripreso a scannarsi. Su Instagram l’angelo di Victoria Secret ha mostrato il suo secret, su Youtube il video del gattino vestito da Imam è diventato virale. Il debito esplode, è finito il quantitative easing. La Cina s’è comprata tutto meno che il Milan.

Annaspiamo in questo mare di merda da un decennio esatto, ma il naufragare è tutto meno che dolce.

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