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Noi non tifiamo spread, mercati, finanza, noi li combattiamo

di Giorgio Cremaschi

L’intervento scritto di Giorgio Cremaschi per l’assemblea di Potere al Popolo di Genova

Care compagne, cari compagni,

Una serie di disguidi mi ha impedito di poter confermare la mia presenza a questa importantissima assemblea, mi scuso con tutte e tutti voi e spero di poter almeno in parte sopperire all’assenza con queste note.

Questo nostro incontro nazionale é importantissimo per i suoi contenuti e anche per una singolare coincidenza. In questo stesso giorno il PD manifesta a Roma contro il governo riuscendo nella ben difficile impresa di essere più a destra della politica economica di Salvini e Di Maio. Noi ovviamente siamo lontanissimi da lì perché la nostra opposizione al governo è dal lato opposto di quella del PD. Noi non tifiamo spread, mercati, finanza, noi li combattiamo. Noi giudichiamo le misure annunciate dal governo, tutte da verificare in concreto, insufficienti per i poveri e per chi deve andare in pensione, scandalose per ricchi ed evasori fiscali, inesistenti per il lavoro e lo stato sociale. La finanziaria di Salvini e Di Maio non mette in discussione il dominio dei mercati e i vincoli liberisti della UE, ma cerca solo di attenuarli. Può sembrare avanzata solo dopo la totale subalternità alle elites dei governi del PD, ma non cambia la sostanza delle politiche liberiste. Distribuisce risorse, ma non le redistribuisce dai ricchi ai poveri, anzi.

E non possiamo certo dimenticare che mentre si proclama l’abolizione della povertà, si varano le leggi speciali di Salvini contro i migranti, contro i poveri e contro chi lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione sociale.

La finanziaria di Salvini e Di Maio resta nel solco delle politiche liberiste per tante ragioni, ma soprattutto perché non rimette in campo un intervento pubblico nell’economia, un intervento alternativo al dominio della finanza e del profitto. Senza questo intervento pubblico le disuguaglianze, la precarietà e la disoccupazione resteranno a dominare le nostre vite. Non basta dare ogni tanto qualcosa qua e là, ci vuole il pubblico. Bisogna ricostruire lo stato sociale e non continuare a tagliarlo, soprattutto nelle periferie. Noi siamo per il pubblico sociale sotto controllo popolare e per tutto questo manifesteremo a Roma il 20 ottobre.

Quanto è accaduto a Genova con la strage del ponte è un crimine prodotto dal concorso di tutti i principali fattori della distruzione di vita e ambiente nella nostra società. La privatizzazione dei servizi e la loro riorganizzazione in funzione della ricerca del massimo profitto profitto, la trasformazione delle città in macchine di affari dove le persone devono spostarsi in obbedienza alla catena del valore, il degrado del trasporto pubblico, il disprezzo per l’ambiente, la speculazione edilizia, il modello complessivo di sviluppo. Tutte queste cause si sono date appuntamento sul ponte Morandi e lo hanno fatto precipitare. Io penso che se vogliamo parlare di vera ricostruzione dobbiamo parlare di ricostruzione, materiale, sociale, ambientale.

Come sappiamo e come si vede dal decreto Genova appena firmato, solo la prima delle ricostruzioni interessa il dibattito politico che su di essa si accapiglia. Le altre interessano solo noi, che, mantenendo l’impegno costituente di Potere al Popolo di fare tutto al contrario degli altri, dobbiamo invece metterle al primo posto.

Pochi giorni fa sono stato a l’Aquila, a una nostra assemblea. Rispetto a qualche anno fa, ove la città offriva tutto il suo abbandono e la sua desolazione, un cambiamento c’è stato, frutto anche della lotta di una parte della popolazione che non si è arresa. Oggi a l’Aquila è tutto un cantiere, da lontano vedi decine e decine di gru all’opera. Se poi entri in città vedi bellissimi palazzi antichi ricostruiti, molto più belli di come fossero prima del terremoto. Ma la città è deserta, i palazzi sono vuoti e tutto sembra una specie di outlet abbandonato. La popolazione non abbandona la periferia dove si è rifugiata dopo le scosse, non torna nel centro perché costa troppo, in tutti i sensi, viverci. C’è la ricostruzione materiale, ma non c’è quella sociale e neppure quella ambientale con la ghettizzazione del periferie rispetto al lussuosissimo centro. Sia chiaro tutto questo avviene con soldi pubblici, che però vengono usati secondo le più sfacciate logiche di mercato.

Io credo che a Genova tutto si stia muovendo nella stessa direzione, con le ovvie differenze materiali.

Dopo i tanti disastri che hanno colpito il paese, la velocità della ricostruzione è sempre stata utilizzata in Italia per far passare le peggiori pratiche. Che si fondano su tre principi: lo stato mette i soldi, i privati ricostruiscono, il mercato ringrazia. Per governare questi principi si é inventata la figura dell’autorità pubblica straordinaria, il commissario coi superpoteri cui viene permesso di fare tutto in nome dell’emergenza. Naturalmente l’emergenza esiste, le famiglie sfollate, il traffico folle, il porto, la città divisa e bloccata. Queste emergenze però vengono usate proprio per rimettere in piedi tutto come prima. Il ponte sarà più solido certo, ma in fondo sarà quello di prima. E non è neppure detto che la priorità data alla velocità della ricostruzione produca i risultati voluti, spesso le stesse contraddizioni del modello di sviluppo si ripresentano come rallentamento o blocco della stessa ricostruzione materiale, come testimoniano tante parti del nostro paese.

Oggi il decreto Genova ha solo un punto chiaro, che Benetton non parteciperà alla ricostruzione del ponte e questo è persino ovvio. Ma siccome non è in atto alcun esproprio, alcuna delle nazionalizzazioni annunciate dai ministri cinque stelle, tutto avverrà con lo stato che chiede i soldi a Benetton, che va in tribunale e non paga e quindi costringe lo stato stesso ad anticipare i fondi. Poi ci sarà il progetto e l’assegnazione a un’azienda, pubblica o privata, del compitio di ricostruire. Ricordo che Fincantieri è un’azienda quotata in borsa che deve fare profitto. Nel frattempo alle aziende si tolgono le tasse e si valuta come far una più o meno zona franca del porto.

E il progetto sociale e quello ambientale? Nulla . Anzi come ci ha ricordato lo scandaloso sciacallaggio subito dopo la strage, tornerà con più forza la campagna per la Gronda, il terzo valico, le grandi opere. Il ponte Morandi è stato costruito all’epoca della devastazione cementificata della città, ora l’emergenza del suo crollo rischia di portare ad una nuova, diversa devastazione.

Noi dobbiamo pretendere che la città discuta e decida sul suo futuro produttivo, sociale, ambientale. Su questo dobbiamo agire, organizzare, partendo da coloro che hanno subìto i danni e le ferite del crollo, unendoli a coloro che sono e saranno ancora più ricacciati nelle periferie dello sfruttamento, respingendo le grandi opere e rivendicando un altro modello di sviluppo. Un progetto è pubblico non se lo stato ci mette i soldi, se fosse così l’Italia sarebbe il paese più socialista del mondo, ma se agisce per il pubblico ed il sociale, se tutela il bene comune ambientale.

Noi il 20 ottobre manifesteremo a Roma per le nazionalizzazioni e per un intervento pubblico nell’economia che sia a favore del sociale e dell’ambiente e non del mercato e del profitto. Genova può e deve diventare centrale in questa nostra lotta, e con questo assemblea diamo il nostro contributo affinché ciò avvenga. Grazie, al lavoro e alla lotta.

Comments

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Mario Galati
Friday, 05 October 2018 18:20
Scusate, non mi sono accorto di avere aperto l'articolo sbagliato. Naturalmente, il mio commento si riferisce ad un altro articolo.
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Mario Galati
Friday, 05 October 2018 15:02
La paura di Selmi è più che fondata. L'impostazione idealistica e la speculare impostazione (grettamente) utilitaristica della scuola, la sempre più accentuata specializzazione e frantumazione del sapere, l'unilateralitá della dimensione umana, affondano le radici nella divisione capitalistica del lavoro, nella divisione in classi. Solo il suo superamento, con il socialismo-comunismo, consentiranno la formazione onnilaterale, integrale, dell'uomo.
Tuttavia, la rivoluzione è un processo, e i contributi teorici come quello di Barone, Mazzola e di Lucio Russo, assieme all'indispensabile ripresa di un movimento dei lavoratori la favoriranno. Anzi, ne fanno parte.
Nella situazione attuale le cose che diciamo appaiono incomprensibili. Appena nella scuola si accenna alla necessità di un sapere fondato sul lavoro, sulla prassi, all'interlocutore scolastico (anche se insegnante di filosofia, il quale, almeno insegnando, non dico Marx, ma Giordano Bruno, il quale sosteneva che l'organo umano fondamentale per la conoscenza è la mano, non il cervello, dovrebbe avere un minimo di contezza di cosa sia la prassi e della differenza tra approccio idealistico e approccio materialistico) la mente corre proprio alla sua negazione, all'alternanza scuola-lavoro. E quando si parla di onnilateralitá, l'interlocutore pensa ad una polivalenza anch'essa frammentata, di uno che sa fare tante cose (come nelle scuole sperimentali svizzere, ironizzate da Gramsci, nelle quali si faceva attività teorica e accanto, parallelamente, si facevano attività manuali, si andava in laboratorio di falegnameria (che, tra l'altro, non sarebbe del tutto inutile per gente che non sa minimamente cos'è il lavoro manuale)), non pensa ad una personalità uscita dalla gabbia idealistica, che ha una coscienza dell'unità teoria-prassi e dell'unitarietà del sapere (e del suo essere, a sua volta, prassi). Non pensa a una personalità che ha superato i pregiudizi di classe, perché di questo, alla fine si tratta. Riesce incomprensibile accettare l'idea che una scuola fondata sul lavoro è una scuola teorica, pur ponendo la prassi alla base; anzi, proprio perché pone la prassi alla base della conoscenza. Povero Giordano Bruno (per tacere di Marx).
In questo momento si riesce a far passare a fatica il concetto elementare che la scuola non deve dipendere dall'impresa e che deve formare personalità sviluppate e non lavoratori alle dipendenze delle imprese o utili all'attuale sistema produttivo (chiarificatore quanto scrive Barone su quale deve essere il corretto atteggiamento rispetto all'utilità della cultura e degli studi. Non certo l'utilitarismo liberale).
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