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Il popolo non esiste, parola di Panebianco

di Carlo Formenti

Le messe in guardia contro il rischio che i sistemi politici occidentali, a partire dal nostro, si trasformino in altrettante “democrazie illiberali” si moltiplicano: non passa giorno senza che politici, giornalisti e intellettuali lancino l’allarme nei talk show televisivi, sulle pagine dei giornali o sui social network. Provo a spiegare perché considero l’abuso di tale concetto particolarmente sintomatico.

Il termine democrazia illiberale allude a una separazione fra principio democratico e principio liberale che, secondo la teoria politica mainstream, troverebbero una sintesi nelle cosiddette democrazie liberali. In realtà il principio liberale – con il suo corredo di diritti individuali e civili, tutela della proprietà privata in primis, protezione della sfera privata dall’invadenza dei poteri pubblici, ecc. – nasce ben prima di quello democratico, il quale, inizialmente concepito come mero principio di rappresentanza e insieme di procedure formali necessarie alla sua applicazione (diritto di voto, ecc.) è stato a lungo appannaggio di esigue minoranze (i cittadini maschi con livelli di reddito ed educazione elevati).

Allorché, fra fine Ottocento e primo Novecento, si ebbe, sotto la spinta delle lotte operaie, una prima irruzione delle masse sulla scena politica che portò all’allargamento del diritto di voto (abbattendo le barriere di censo e, molto più lentamente, quelle di genere), la reazione di classi dominanti e caste intellettuali fu di grande preoccupazione.

Fu allora che nacquero le paure sulla “dittatura delle maggioranze”, la diffidenza nei confronti delle “folle” (vedi Gustave Le Bon e soci) e quelle teorie “elitiste” che, facendo buon viso a cattivo gioco, accettano la democrazia solo a condizione che il suo ruolo sia limitato alla selezione dei ceti dirigenti.

Dopo la lunga parentesi delle guerre e dei totalitarismi nella prima metà del Novecento, prende avvio, come reazione agli effetti devastanti della cancellazione della democrazia, la spinta a un ulteriore allargamento del principio democratico, che non si vuole più limitato all’uguaglianza formale dei cittadini (una testa un voto) ma progressivamente esteso (vedi la Costituzione italiana del 1948) fino a garantire – almeno tendenzialmente – l’uguaglianza sostanziale, rimuovendo gli ostacoli di ordine sociale ed economico che vi si frappongono.

È il momento del compromesso keynesiano fra capitale e lavoro, che vede il progressivo equiparamento fra diritti civili e diritti sociali attraverso l’estensione del welfare, è il momento in cui nascono – fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta – rivendicazioni ancora più radicali di riconoscimento e uguaglianza da realizzare attraverso nuove forme democratiche che vadano al di là della democrazia rappresentativa. Ritorna così la paura delle classi dominanti che, come ai primi del Novecento, tornano a parlare di un “eccesso di democrazia” che potrebbe generare una “dittatura delle maggioranze”.

È curioso che questi allarmi tornino a risuonare oggi, dopo quarant’anni di controrivoluzione liberista che hanno annientato le idee e le pratiche, nonché le forze politiche che le sostenevano (anche se queste, più che annientate, sono state addomesticate), associate a quel sogno di allargamento della democrazia. Dopo che il divorzio fra principio liberale e principio democratico (cfr. Colin Crouch), fra democrazia e mercato, si è celebrato da tempo, generando istituzioni e regimi liberali ma non democratici, come quella Unione europea che incarna il sogno reazionario di Ludwig von Hayek, cioè la riduzione della democrazia a un guscio vuoto che serve solo a sancire le decisioni assunte dalle caste e dalle lobby che gestiscono i grandi flussi di capitali, merci e forza lavoro.

Curioso ma non troppo. Dopo i momenti di dominio incontrastato del capitale globale è infatti normale che arrivino i “momenti Polanyi”, cioè i momenti in cui la rabbia delle masse sottoposte a decenni di macelleria sociale trova nuovi canali politici per esprimersi, i momenti in cui la politica si prende la rivincita sull’economia. Di qui i continui ribaltoni elettorali cui abbiamo assistito negli ultimi anni, il crollo delle forze politiche tradizionali, sempre più identificate come nemiche dalle classi popolari, e l’ascesa di nuove forze, assai diverse sotto il profilo ideologico, ma accomunate dalla richiesta di un ritorno della sovranità popolare e di uno stato nazione chiamato a proteggere gli strati sociali che hanno pagato il prezzo della crisi.

È questo ritorno – spesso “barbaro”, illetterato e scomposto, come sempre sono i moti che salgono dal basso – che viene etichettato come “pericolo populista” e contro il quale si invocano sante alleanze da Macron a Tsipras. Margaret Thatcher soleva dire che “la società non esiste”, l’assai meno autorevole Angelo Panebianco, in un recente articolo sul “Corriere”, si avventura a pontificare che “il popolo non esiste”, scagliando il suo esorcismo contro le ombre che salgono dal sottosuolo. Un marxista potrebbe dargli ragione, ma solo perché pensa che il popolo sia un’entità indistinta in cui convivono classi sociali dagli interessi diversi e in conflitto reciproco. Invece Panebianco, da buon liberale, nutre nei confronti di classi, comunità e identità collettive varie lo stesso disprezzo che prova per il popolo: per lui il popolo è una parola senza senso dietro la quale si nasconde “un aggregato di persone diverse che possono pensarla diversamente su tante cose”, e che tale deve restare perché lo si possa manipolare senza suscitare fastidiose resistenze.

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