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La città degli eventi

di Guido Viale

Perché le Olimpiadi sono cruciali rispetto all’emergenza climatica indetta dal Comune di Milano? Lo ha spiegato, involontariamente, l’assessore Marco Granelli nell’incontro che si è tenuto mercoledì scorso alla Casa della Carità. Queste Olimpiadi, per Milano, sono una replica dell’Expo (un grande successo; per l’assessore) e insieme concorrono a definire “il modello Milano”, a farne “una città degli eventi”. Expo e Olimpiadi vanno ad aggiungersi a Moda, Mobile, Design, Cibo, tutte manifestazioni dove non si producono beni (i beni si producono altrove) ma immagine; e che concorrono a fare della città un polo di attrazione mondiale. Anche se la costruzione di quella immagine richiede pesanti e ingombranti investimenti “a perdere”, come gli “avanzi” dell’Expo, che avrebbe dovuto essere un grande orto da cui far partire la valorizzazione colturale di tutto il parco sud e che invece, sotto la direzionne di Beppe Sala – già allora “vero sindaco” di Milano dietro la maschera di Pisapia – è stato trasformato in una “piastra” (mai nome fu più appropriato) di cemento di un chilometro quadrato. Dove, dopo aver smantellato tutti i padiglioni inutili – e costosi, sia in termini economici che ambientali – costruiti a beneficio delle multinazionali del cibo manipolato, non si sa più che cosa impiantare. Perché costruire un contenitore prima di sapere che cosa metterci dentro è il modo più stupido di procedere; è un po’ come costruire un’enorme galleria senza sapere che cosa farci correre dentro. Ma, come è noto, tutto fa PIL

Ma che cos’è un “polo di attrazione”? È un concentrato del lusso, che attira turismo di affari e di prestigio: viaggi aerei a sfare, sfolgorio di luci, di installazioni, di padiglioni, di scenografie, di costumi usa e getta. Palazzi dalle forme strane e prezzi mirabolanti destinati a rimanere vuoti per la maggior parte dell’anno, come city life (chi vi compra un appartamento per lo più ne ha altri cinque o sei in altre capitali dell’Occidente e dell’Oriente). L’apoteosi dello spreco e dell’insostenibilità. Ma tutto questo, dice Granelli, porta molto denaro, di cui beneficia tutta Milano. Non tutta: ne beneficia un ceto privilegiato che vive della città ma non nella città; o meglio, che vive separato da tutto il resto della città, a cui non arrivano che le briciole, perché quel ceto esclusivo ha bisogno non di lavoratori (quelli li va a cercare altrove), ma di servitori, che recluta nel popolo dei migranti: colf, badanti, portieri, fattorini, sguatteri, giardinieri e rider per portare la pappa a chi non vuol muovere più nemmeno il culo da casa per andare a mangiare; e poi edili che lavorano nel subappalto, stradini per tappare le buche delle strade e tuttofare per lavargli l’auto. Perché la produzione di quel che a Milano si pensa si fa per lo più a migliaia di chilometri e a decine di gradini sociali di distanza. È un sistema che produce e moltiplica differenze e ingiustizie sociali, ma soprattutto che allontana invece di avvicinare al traguardo da raggiungere per affrontare in modo adeguato l’emergenza climatica. Tutto quello spreco di risorse è destinato a crollare e dissolversi insieme alle persone che ne ricavano reddito e posizione sociale non appena la cittadinanza sarà costretta a prendere atto della gravità dei processi in corso.

Milano, come qualsiasi altra città, ha bisogno di tutt’altro: di opere e di lavoro che mettano in grado gli abitanti di far fronte ai tempi difficili che ci aspettano: un’agricoltura non distruttiva e di prossimità che valorizzi risorse locali come quelle del parco sud; un’alimentazione conseguente; un sistema di mobilità di merci e persone flessibile, che consenta di ridurre al minimo auto, furgoni e le loro emissioni; impianti di generazione elettrica da fonti rinnovabili diffuse su tutto il territorio; un’edilizia che valorizzi il già costruito invece di consumare nuovo suolo e che permetta di ridurre al minimo riscaldamento e raffrescamento artificiali; il recupero integrale degli scarti della produzione e del consumo; e poi, un sistema produttivo flessibile, gestito quanto più possibile dai lavoratori, che utilizzi in pieno le loro competenze soprattutto in campo scientifico e informatico, mettendo a frutto le produzioni di pezzi unici o piccole serie come quelle rese possibili dalle stampanti in 3D. Questo è il nostro progetto di città sostenibile, che non ha niente a che fare con le Olimpiadi, che rappresentano invece un progetto diametralmente opposto, che avvicina alla catastrofe climatica la sua popolazione insieme a quella di tutto il resto del pianeta.

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