Print Friendly, PDF & Email

voxpopuli

Da Alitalia per inquadrare il declino industriale italiano

di Vox Populi

Risuonano in queste prime settimane di luglio le note di una canzone ascoltata in più occasioni negli ultimi decenni: Alitalia.

Alitalia è in crisi cronica da molto tempo, lo sappiamo tutti, ed in questi giorni il governo sta cercando di salvare l’azienda senza procedere verso la doverosa nazionalizzazione per non violare le deliranti regole europee. Ad oggi esiste il rischio di nuovi esuberi, si parla di 740 lavoratori su 11000 dipendenti nel personale di terra per risparmiare 14 milioni di euro, tagli sul salario del 5% per i piloti e del 5,8% per gli assistenti di volo, diminuzione dei riposi mensili da 10 a 9 e del numero dell’equipaggio su un’unità di Boeing 777.

Di Maio deve gestire una situazione complicata che vede sul piede di guerra i sindacati, specialmente l’USB, e molte incertezza nella ricerca dei soci per mettere insieme un capitale congruo per rilanciare l’azienda.

I due attori da tenere in considerazione sono Ferrovie dello Stato e Delta Airlinesche dettano le condizioni al governo. Ferrovie dello Stato pretende di far entrare nella partita i Benetton, con Atlantia, che come contropartita chiedono al governo di lasciare nelle loro mani le nostre autostrade. A questa richiesta aggiunge la cancellazione dei voli da Roma per Pisa, Firenze e Napoli con lo scopo di favorire il trasporto via treno, mentre Delta Airlines vorrebbe delle concessioni sulle tratte a lungo raggio con l’ovvio risultato di ridimensionare Alitalia, facendola scendere da 117 a 102 aerei.

Queste aziende non si battono per salvaguardare e rafforzare Alitalia, tutelando l’occupazione da cui dipendono molte famiglie, ma rappresentano un potenziale nuovo caso di cannibalismo industriale. Viene acquisita un’azienda in difficoltà con l’unico scopo di conquistare la sua fetta di mercato, con tanti saluti al futuro dei lavoratori coinvolti. Per esempio è quello che è successo con Indesit a Napoli e di cui abbiamo parlato qualche settimana fa. Sconcertante è anche la questione dell’immunità penale difesa da ArcelorMittal per l’ex Ilva di Taranto che svela una modalità di gestione dell’impresa finalizzata esclusivamente al profitto, ignorando salute dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente.

Come è stato dimostrato dalla recente morte di un operaio.

Questi fatti raccontano di un paese in declino, che sta perdendo posizioni nella catena internazionale del valore e in cui serve urgentemente l’azione ferma e decisa dello Stato che si assuma il compito di una studiata e attenta pianificazione industriale.

Chiedere questo sforzo al padronato italiano è francamente ridicolo, poiché esso ha dimostrato sempre nella sua storia la sua natura parassitaria, capace di vivere solamente grazie alla mano visibile dello Stato.

Quando il ciclo dell’accumulazione non poteva più funzionare nel modo che abbiamo sperimentato fino agli anni ’70 ha chiesto ed ottenuto massicce privatizzazioni su cui ha potuto fare affari d’oro, collocandosi, come ben dimostra il caso Atlantia, in posizioni di rendita che non richiedono nessun rischio d’impresa.

Da soggetti così possiamo aspettarci quegli investimenti che impone l’industria 4.0?

La mia risposta è negativa.

La deindustrializzazione avanza senza pietà, assumendo la forma del cannibalismo industriale, del fallimento delle piccole e medie imprese e delle delocalizzazioni, la deflazione salariale ci rende tutti più poveri, l’11,7% della forza lavoro è povera pur lavorando in Italia, e lo stato sociale viene compresso anche grazie all’azione fiancheggiatrice dei sindacati confederali, i quali lodano il welfare aziendale mentre distrugge il Sistema Sanitario Nazionale che avrebbe bisogno di ingenti investimenti per rimanere almeno in piedi.

Ce lo spiega bene Vladimiro Giacché nel suo libro ANSCHLUSS. L’annessione: L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, in cui parlando del mondo in cui venne deindustrializzata la DDR, a favore del padronato della Germania Ovest, può materializzarsi il nostro futuro.

La DDR passò dall’essere una nazione autosufficiente dal punto di vista industriale, con aziende di qualità, con delle fette di mercato dategli dalle relazioni con le altre nazioni del Patto di Varsavia, ad una specie di Mezzogiorno tedesco; oggi la vecchia DDR è ridotta a malato terminale tenuto in vita dai sussidi del governo tedesco, senza industrie, in via di spopolamento e con tassi di disoccupazione paragonabili ai nostri, una situazione difficile da recuperare perché, sembra banale ma va chiarito, è più facile costruire partendo da una base che ripartire da zero.

Quindi va posta una domanda al governo italiano, quale futuro hai in mente per la nostra patria?

Le risposte date non sono corrette, poiché ci muoviamo verso la secessione dei ricchi, quell’autonomia differenziata che vuole rompere l’unità della scuola italiana e del Servizio Sanitario Nazionale, reintroducendo le gabbie salariali che il movimento operaio fece saltare in aria negli anni ’60. Una mossa che ha come obiettivo agganciare le regioni ricche del Nord al capitalismo mercantilista tedesco, abbandonando al suo destino il resto del paese.

Non possiamo accettare un destino fatto di agricoltura retta da schiavi importati dall’Africa che producono il tanto decantato cibo italiano, di un turismo di massa che trasforma in pericolosi luna park le nostre città, come dimostrano i casi di Venezia e Roma, e in generale di lavoro povero che produce precarietà e lotta per la sopravvivenza.

Questo capitalismo orientato alla rendita si è imposto con la morte del movimento operaio, come diceva Mario Tronti:

“la lotta operaia impone lo sviluppo capitalistico”

Oggi non possiamo aspettarci nulla dai padroni italiani, agganciare il treno dell’industria 4.0 è vitale per rimanere tra i paesi avanzati e ricchi, consapevoli che oggi viviamo nel secolo asiatico, in cui milioni di persone in Asia reclamano benessere e uno stile di vita paragonabile al nostro e che dobbiamo avere l’intelligenza di sfruttare, per esempio usando la Nuova Via della Seta per inserire l’Italia nella catena del valore cinese, dialogando con le loro aziende innovative per trarne il massimo vantaggio, rifiutando il ruolo di terzisti a cui ci vogliono relegare i tedeschi e la gabbia europea.

Dobbiamo fare i conti con il mondo multipolare in cui inserire eventualmente, come diceva Samir Amin, elementi di socialismo. Possiamo accettare questa sfida solo partendo da un ruolo attivo della pianificazione statale.

Senza Stato e industrie perderemo posizioni nella catena internazionale del valore e quindi sarebbe una condanna al ruolo di paese declinante, che passa dal benessere ad una realtà a macchia di leopardo, con aree ben integrate nelle dinamiche della globalizzazione, per esempio Milano, e aree dove la divisione internazionale del lavoro detterà la sua legge brutale, come nel nostro Mezzogiorno.

Il declino va fermato prima di arrivare al punto di non ritorno.

Add comment

Submit