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sinistra

La Napoli di Malaparte tra profezia, metafora e realtà

di Eros Barone

Settant’anni fa veniva pubblicato da Curzio Malaparte il romanzo “La pelle”. Non vi è dubbio che, tra le rappresentazioni letterarie del paesaggio, della storia e della società napoletani del Novecento, quella fornita dalla “Pelle” sia una delle più sconvolgenti. Più che un romanzo storico “La pelle” è un esempio di storiografia elaborata sul piano retorico e narrativo secondo quel modello concepito e praticato dagli antichi (‘opus oratorium maxime’), di cui lo storico e, insieme, l’artista Tucidide ha rappresentato, con la sua descrizione della peste ateniese, il protòtipo classico. In effetti, il libro, iniziato alla fine del 1946, si sarebbe dovuto intitolare La peste. Ma proprio con questo titolo uscì, nel 1947, il celebre libro di Camus.

Il libro di Malaparte è bello, e pochi lo negarono, ma in molti, allora, non gli perdonarono il contenuto: tutti gli orrori e la degradazione umana sono concentrati nella Napoli ‘liberata’ del 1944, dove il popolo consuma il più turpe mercimonio di sé, dei figli, di qualunque cosa possa essere venduta alle truppe anglo-americane, rinunciando a libertà, dignità, onore pur di sopravvivere e “salvare la propria pelle”; è quella che Malaparte chiama, per l’appunto, “la peste di Napoli”.

E Malaparte racconta queste abiezioni con abbondanza di particolari, cercando di dimostrare in tal modo che il desiderio di vivere può ridurre l’uomo in uno stato bestiale, e che la vittoria degrada gli uomini e i popoli non meno della sconfitta, giacché l’abiezione dei vinti è una diretta conseguenza dell’abiezione dei vincitori.

Tuttavia, il romanzo, pur descrivendo la Napoli tumultuosa, agitata e venale della ‘liberazione’, contiene una serie di spunti e di situazioni che, per la loro forza simbolica e quasi profetica, ne fanno una metafora estensibile alla Napoli e all’Italia di oggi, e forse all’intera Europa.

A onor del vero, la critica italiana apprezzò il libro dal punto di vista strettamente artistico, ma non nascose sdegno e fastidio per la materia della narrazione, che mostrava l’Italia “nata dalla Resistenza” come composta da prostitute e sfruttatori della prostituzione, morale o fisica che fosse. Fra i critici di sinistra, come Muscetta, e quelli di destra, come Cajumi, il più duro fu però un letterato puro, il cattolico Cecchi. Questi in una recensione, poi riprodotta testualmente nella sua monumentale Storia della letteratura italiana, definì lo scrittore pratese come un “fabbricante di bolle di sapone terroristiche”, non senza celare la sua soddisfazione per la certezza che Malaparte sarebbe stato “sprofondato nelle voragini dell’inferno”.

A questa critica gonfia di livore polemico e di disprezzo morale Malaparte rispose, in modo forse ellittico ma quanto mai incisivo, con una sola frase: “Caro Cecchi, col silenzio e l’ipocrisia si diventa accademici d’Italia”, sottolineando che Cecchi, antifascista a posteriori, neanche dieci anni prima aveva corteggiato il ministro Bottai per ottenere la tessera del partito e la prestigiosa (e ben remunerata) nomina all’Accademia d’Italia.

Sennonché a Malaparte si sarebbe dovuto semmai rimproverare il suo atteggiarsi a censore spietato di certi mali, senza indicarne le origini e le possibili cure. In questo senso, il crudo realismo della Pelle, privo dell’impegno sociale che caratterizzava il neorealismo di quegli anni, se da un lato rivela oggi, come si è poc’anzi rilevato, una forza simbolica e quasi profetica, dall’altro sembrò allora, quando il libro apparve, gratuito e scandalistico, e la stessa impressionante fenomenologia dell’abiezione che esso contiene fu percepita più come spettacolo che come analisi di una degenerazione psicologica e sociale. Nondimeno, se il libro rischia spesso di scadere nella retorica e nel sensazionalismo, è innegabile che un pathos violento e suggestivo lo percorre dall’inizio alla fine.

Nel primo capitolo, intitolato “La peste”, Malaparte descrive, in significativa assonanza con il romanzo di Camus apparso due anni prima e recante proprio questo titolo, il male morale che ha contaminato l’Europa dopo la Liberazione: prostituzione, corruzione, delazione, abiezione sono le manifestazioni sintomatiche di questo male. Un esempio è offerto nel capitolo intitolato “La vergine di Napoli”: Malaparte, questa volta in compagnia di un giovane tenente americano, si reca in un ‘basso’ napoletano, dove un miserabile, per un dollaro a persona, mostra ai soldati americani una ragazza vergine, invitando i clienti a verificarne la condizione fisica. In un altro capitolo, intitolato “Le parrucche”, Curzio e Jimmy assistono al commercio, altrettanto ignobile, di grotteschi ciuffi di peli biondi, che vengono venduti ai soldati di colore che prediligono il vello pubico biondo. Insomma, lo spettacolo dell’abiezione è tratteggiato da Malaparte con toni che oscillano fra il realismo dantesco e la visionarietà estetizzante.

In un altro episodio particolarmente commovente Malaparte si prodiga per alleviare le sofferenze di un soldato americano dilaniato negli intestini dallo scoppio di una mina: “Mangerei la terra, – così Malaparte esprime il suo senso di fraternità cosmica, masticherei i sassi, ingoierei lo sterco, tradirei mia madre, pur di aiutare un uomo, o un animale, a non soffrire”.

Nel settimo capitolo, intitolato “Il pranzo del generale Cork”, Malaparte tocca il diàpason dell’orrido: a un banchetto elegante di ufficiali alleati e signore americane viene servita la Sirena, pesce dell’acquario di Napoli che ha l’aspetto di una bambina bollita; i commensali, inorriditi, esigono ingenuamente che il pesce con le fattezze di una bimba sia seppellito come un essere umano. Nel capitolo “La pioggia di fuoco” l’autore offre invece una descrizione apocalittica dell’eruzione del Vesuvio nel 1944.

Il decimo capitolo, “La bandiera”, narra l’ingresso degli alleati a Roma, funestato da un terribile episodio che assume, a distanza di settant’anni dalla pubblicazione del romanzo, un significato sinistramente profetico per la cruda luce che proietta sullo stato attuale di un paese che, come l’Italia di oggi, è stretto nella morsa, da un lato, dell’europeismo capitalistico e, dall’altro, del sovranismo populista. Un disgraziato finisce sotto le ruote di un carro armato e si riduce ad un’informe poltiglia, sottile come una sorta di grottesca bandiera: “quella bandiera di pelle umana era la nostra bandiera, la vera bandiera di noi tutti, vincitori e vinti, la sola bandiera degna di sventolare, quella sera, sulla torre del Campidoglio”.

Nell’undicesimo capitolo, “Il processo”, vengono descritte alcune scene tipiche della guerra civile e dei suoi strascichi, rappresentati dalle esecuzioni sommarie dei fascisti ad opera dei partigiani. L’ultimo capitolo, “Il Dio morto”, descrive l’ascesa di Malaparte sino alla cima del Vesuvio, in compagnia di Jimmy, il tenente americano. Il vulcano spento, il Vesuvio, diviene l’immagine di un mondo morto: l’Europa è ormai “un mucchio di spazzatura”, ma l’autore rifiuta di seguire l’amico in America, nella terra dei vincitori. In fondo, egli conclude, “è una vergogna vincere la guerra”.

Comments

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Vincesko
Friday, 13 September 2019 11:50
Bello, grazie.
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