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linterferenza

Estrema sinistra e liberismo

di Ferdinando Pastore

Qual è stato il momento preciso nel quale la sinistra estrema – o almeno quella che si definisce tale – ha abbracciato tutti i proponimenti del capitalismo nella loro forma globale e trans-nazionale? Esiste un punto di unione tra due mondi che in realtà dovrebbero considerarsi antitetici?

Partiamo dall’assunto di Michéa il quale sostiene – a ragione – che mentre la destra (e ormai anche la sinistra politica ) persegue gli obiettivi economico e sociali dell’ideologia neo-liberale – spoliticizzazione dell’economia, privatizzazione del diritto pubblico, stabilità dei prezzi e lotta all’inflazione, abbattimento della spesa sociale, individualizzazione dei rapporti di lavoro, verticalizzazione del sistema politico – la sinistra (estrema) accetta le conseguenze che quelle politiche portano nelle relazioni umane e soprattutto finisce per esaltare la concezione individualista che si manifesta nella nuova frontiera del mercato illimitato.

La critica pressante della gioventù sessantottina era rivolta all’oppressione della società gerarchizzata all’interno della quale si muovevano tre istituzioni che comprimevano il desiderio di una libertà personale illimitata, resa allettante dalla propaganda sul consumo di massa: lo Stato dirigista, l’Azienda burocratizzata e la famiglia moralista.

Il conflitto che si manifestò in quegli anni – nonostante la copertura di critiche marxiste più compiute – trovò un consenso di massa per una spinta sostanzialmente individuale. Abbattere tutti i limiti all’espansione della propria individualità posti dalle strutture collettive. Anche i partiti e i sindacati erano considerati baracconi che comprimevano il legittimo desiderio soggettivo.

A questa domanda rivendicativa – dopo la stagione del terrorismo che di fatto fece naufragare una reale prospettiva socialista di trasformazione della società – rispose lo stesso capitalismo con un’operazione mistificatoria. Accolse il desiderio di realizzazione di sé attraverso la modifica delle struttura aziendale. Questa trasformazione non si rivolse però al lavoro operaio ma a quello più qualificato, tenuto conto che la critica all’Azienda irreggimentata proveniva da un ceto medio/alto e istruito. L’essere umano diventava libero di contrattare il proprio futuro direttamente con il capitale nel contesto di un sistema concorrenziale. L’Azienda così si presentava agile e democratica e nella contrattazione individuale nascondeva lo sfruttamento attraverso la narrazione di una società di liberi e uguali, tutti però condizionati dagli imperativi di comando della flessibilità e della mobilità. Altro che Dio, Patria e Famiglia.

Così tutte le riforme del lavoro che hanno precarizzato i contratti hanno trovato un consenso di fondo proprio da quei soggetti – un tempo politicizzati – che hanno accettato di buon grado le conseguenze esistenziali di quel nuovo modello. La liberazione dalle catene oppressive della gerarchia e dell’alienazione impiegatizia tradizionale considerata “da sfigati” assecondava l’ideologia dell’imprenditore di sé stesso e del capitale umano. Il modello più congeniale era appunto l’economia sociale di mercato dove lo stesso individuo si fa impresa. Stretta conseguenza fu l’idea che lo Stato fosse da abbattere perché – in una sorta di americanizzazione psicologica – limitava con le sue regole morali e sociali la naturale espansione delle proprie capacità. La strana idea che l’Unione Europea sia un sogno di fratellanza deriva proprio dal fatto che la UE è istituzione che ha il compito di educare l’individuo alla concorrenza e di costringere lo Stato a privarsi della sua capacità decisionale.

Con la rivoluzione di internet quel ceto ha elevato l’individualismo a vera e propria missione mistica. L’esaltazione del “nuovo mito della frontiera” ha immiserito tutte le critiche alla globalizzazione dei mercati e ha dato il colpo definitivo alla difesa delle prerogative statali e di difesa dei diritti sociali. Improvvisamente chi osava contestare il modello del libero mercato veniva colpito dal marchio di “conservatore”. La globalizzazione era automaticamente associata al progresso. Diventava evento storico impossibile da limitare e dal quale era impossibile tornare indietro. La mentalità fatalista e determinista assumeva anche contorni di ossequiosità nei confronti dell’imperialismo americano – contro le politiche USA l’estrema sinistra non organizza una manifestazione da tempo immemore – che diventava paragonabile a svariati altri imperialismi. Per questo motivo l’unica condizione per valutare le politiche di uno stato era la sua democraticità formale messa in relazione alla protezione delle libertà individuali. Artifizio argomentativo congeniale alla difesa della potestas indirecta americana, esportatrice della “vera” democrazia nel mondo.

L’americanizzazione dell’estrema sinistra e la sua convergenza con la sinistra liberal ha reso esplicito un certo liberismo di costume o culturale che considera obsolete le tradizionali rivendicazioni di classe. Al tempo stesso l’ha resa allergica alle condizioni di precarietà esistenziale di chi ha sofferto delle politiche liberiste derivanti dalla globalizzazione dei mercati. Lo stigma del conservatorismo ha colpito tutte le fasce popolari che non si adeguavano al nuovo modello. Il popolo è così diventato ignorante e arcaico, non al passo con i tempi, limitato culturalmente e colpevole dei propri fallimenti. La resilienza, quell’atteggiamento passivo e di attesa, è il solo modo di confrontarsi con le proprie difficoltà, per una successiva rigenerazione personale. L’unico contesto nel quale si deve esercitare la critica è lo scontro tra categorie di individui maschio/femmina, immigrato/autoctono, laico/cattolico così da nascondere il reale conflitto che è quello tra capitale e lavoro.

Per questo le azioni di lotta – comunque da sostenere – sono limitate alla categoria degli esclusi – immigrati, carcerati – così da far ingenerare il pensiero che le ingiustizie provocate dalle politiche liberiste si manifestano solo in un campo estremamente ristretto e da far risultare in confronto la condizione dei lavoratori tradizionali privilegiata e in fin dei conti ancora protetta.

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