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Abbattere le statue?

di Franco Romanò

L’iconoclastia è un sentimento complesso che accompagna la storia di tutte le civiltà e che risorge nei momenti in cui i nodi vengono al pettine su temi cruciali e in questi tre mesi e nei successivi, ne sono venuti molti e altri ne verranno. Se ne facciano una ragione coloro che si scandalizzano. La rabbia di chi soffre sul proprio corpo e sulla propria pelle l’oppressione secolare o millenaria di una discriminazione e anche peggio è più che comprensibile e se in momenti di particolare tensione le cose tracimano, invece di stracciarsi le vesti sarebbe meglio offrire una capacità di rivivere e patire insieme. Su tutto il resto occorre discutere e saper distinguere, con pazienza, distinguere ogni volta, senza scandalizzarsi sull’abbattimento delle statue o sulla messa al bando di Via col vento; senza accettare tutto a priori con pelose adesioni acritiche, piuttosto prendendo tutto questo anche con un po’ di ironia, perché nell’iconoclastia c’è sempre anche un aspetto ridicolo, ma che va preso anche quello molto sul serio. Esso consiste nel fatto che spesso i bersagli sono quelli del momento, ma se poi si va oltre ci si rende anche conto che un simbolo o una statua ne tirano un’altra come le ciliegie e a quel punto si comprende che è possibile non ci si fermi più: l’iconoclastia tende sempre ad andare fino in fondo nei suoi momenti acuti.

Via Col vento? E che facciamo allora di Tosca, di cui abbiamo ammirato la pregevole messa in scena di Livermore il 7 dicembre scorso, quando la pandemia c’era già ma non lo sapevamo? La storia è quella di un ricatto sessuale che porta a un suicidio.

Penso che il dibattito furioso che è nato a livello mondiale e che si traduce anche in gesti clamorosi e abnormi, sia invece una grande occasione da non sprecare. Prima di tutto perché fa emergere che ci sono forme di genocidio, discriminazione e oppressione sulle quali si continua a fare troppo poco ed evidentemente, il coagularsi intorno all’assassinio di George Floyd di una molteplicità di reazioni nelle direzioni più diverse, significa anche che sta ritornando potentemente in scena tutto il negato della storia e questo è un gran bene. Nelle trasposizioni europee del movimento Black lives matter, ci sono certamente anche delle forzature e non escluderei persino qualche cortina fumogena, ma se ci si ferma a questo o si reagisce con la medesima reattività dell’iconoclasta non si va lontano. La pandemia c’entra eccome in tutto questo perché è stato ed è un fattore di drammatica accelerazione di processi che tuttavia erano già in atto e che, segmento per segmento, occupavano già le piazze le strade e i dibattiti. La necessità di nominare diversamente gli spazi pubblici si era già imposta e ritorna a ondate, sia le ragioni positive sollevate da movimenti come quello femminista oppure anti razzista, sia sotto l’urto di tentativi reazionari pericolosi. Portelli, negli articoli pubblicati in questi giorni, distingue la necessità di fare storia e quindi di non rimuovere i simboli negativi del passato, da un uso del passato per riproporlo, fingendo di volerlo ricordare. Mantenere le statue dei generali confederati, addirittura a Capitolo Hill, non significa fare un’opera di memoria storica, ma che il razzismo è una componente organica della società Usa, così come il genocidio dei popoli nativi, cui solo nel 1924 si cominciò a riconoscere qualche diritto. Apro qui una parentesi, invece, sull’annosa questione di Cristoforo Colombo. Alessandro Barbero è intervenuto nel gruppo su facebook dedicato alla storia per distinguere il suo ruolo da quello dei protagonisti della conquista vera e propria, invitando a non costruire la storia a partire dalla conclusioni che sappiamo già per costruire a ritroso una catena di ineluttabilità. È un’argomentazione che faccio mia: dal 1492 al 1509 succede poco o nulla e non era affatto ineluttabile che succedesse qualcosa. Colombo era un navigatore, ma anche un avventuriero, alla corte spagnola non sapevano se credergli o meno quando al ritorno parlava di oro e altro e non dimentichiamo cosa disse Torquemada quando le tre caravelle lasciarono il porto: “Finalmente ce lo siamo tolto dai coglioni”. La conquista comincia quando nel 1509 Cortez arma la sua spedizione. Al netto di tutto questo, però, rimane il fatto che dipende pure dal punto di vista. Vai a spiegarle a un Quechua peruviano, che ha dietro di sé una scia di orrori, queste distinzioni! Gli storici naturalmente devono farlo e dirò di più: sono convinto che anche quel Quechua o i suoi figli, se potessimo davvero un giorno stare su un piano di reale convivenza civile, sarà in grado anche lui di distinguere e vedere le sfumature.

La stessa cosa vale per l’Italia nei confronti di chi vuole intitolare vie ad Almirante o a Mussolini: sono fascisti e leghisti che rivogliono il fascismo e sono razzisti, sono da sempre contro la costituzione italiana e sono eversori, che la Repubblica, ormai afascista e non più antifascista da tempo, non si propone di fronteggiare realmente. Su questo non ci possono essere dubbi, almeno per chi ritiene che la costituzione sia ancora un faro imperfetto, da modificare nella sua prima parte e non nella seconda, ma pur sempre un faro. Su tutto il resto bisogna avere la pazienza di discutere e allora eccoci arrivati al nodo nevralgico e italiano di questo dibattito: Indro Montanelli. Ci sono due modi di affrontarlo: il primo è rimanere troppo dentro la polemica attuale (che non intendo affatto rimuovere e a questo proposito dico subito che quel monumento è un obbrobrio che va rimosso); il secondo, serio, è di fare finalmente i conti con il colonialismo italiano e gli intrecci fra colonialismo, sessismo, madamato e liberare finalmente il senso comune dallo stereotipo italiani brava gente, che sotto traccia è fatto proprio anche da chi magari non te lo aspetti. Su questo occorre essere molto chiari: gli storici in questa materia hanno fatto il loro lavoro e lo hanno fatto bene, il femminismo ha allargato da tempo il campo di indagine, ma c’è un gap fra i loro studi e una cultura storica di massa inquinata da venti e più anni di revisionismo storico reale che ha coinvolto anche la sinistra, leghismo e pulsioni fasciste vere e proprie, tollerate da prefetti e istituzioni. Ancora una volta Montanelli c’entra con tutto questo perché mi è capitato in questi giorni di sentirlo definire addirittura uno storico! Se mai era un cronachista della storia, che tendeva sempre a semplificare e a banalizzare tutto: è sufficiente leggere anche un solo testo sull’antica Roma o altro per comprenderlo. Montanelli è stato un retore della destra italiana, forse il maggiore, capace di orientare molto meglio - in alcuni casi - degli stessi uomini politici o partiti cui faceva riferimento, un elettorato che viveva delle pulsioni più reazionarie in ogni campo. Dopo la caduta per muro di Berlino, sia per opportunismo, sia per una innata natura istrionica è sembrato occhieggiare altrove, tanto da essere accolto entusiasticamente da Veltroni in un festival dell’Unità: meglio ricordarle certe cose, anche perché spiegano molto più di tanti saggi lo stato del presente.

Quanto poi agli sproloqui di giornalisti famosi sul Corriere della sera che tirano in ballo i nostri valori c’è solo da dire che sono la certificazione del fatto che il sistema massmediatico italiano è al settantasettesimo posto al mondo per libertà di informazione e profondità della medesima. Del resto e per fortuna, le statistiche sono impietose e lo sono da anni: i giornali li leggono sempre in meno e questo va molto oltre il trend fisiologico che si riscontra a livello mondiale, ma denota una sana insofferenza nei confronti di un sistema che non è governato dalla libertà di stampa, ma dai dettami delle proprietà che di editoriale non hanno più nulla e dalla sciatteria intellettuale se non peggio. Questo è un altro problema nevralgico che dovrebbe essere affrontato con ben altro coraggio.

 

 

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