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kriticaeconomica

Finanzcapitalismo: la materia oscura dell’economia contemporanea

di Edoardo Quercia

Virtuale (è) reale. Fine della produzione e produzione della fine

Il Pil italiano del 2018 è stato pari a 1753 miliardi di dollari, cioè solamente il 3,65% dell’ammontare dei derivati detenuti da una singola banca tedesca, la Deutsche Bank. Questi 48mila miliardi in titoli azionari rappresentano una grandezza 27 volte superiore a quella di tutti i beni e servizi prodotti in un anno da un paese di 60 milioni di abitanti, settima potenza manifatturiera del mondo.

Nonostante la cosiddetta finanza ombra adoperi un’infinità di strumenti finanziari estremamente complessi e tra loro mortalmente intrecciati, come ad esempio le obbligazioni che hanno per collaterali un debito (le famigerate CDO) o i certificati di protezione del credito dal rischio di insolvenza del debitore (CDS, credit default swap), credo che i derivati, sia per il ruolo che svolgono effettivamente nell’architettura della finanza contemporanea, sia per le loro caratteristiche strutturali, quasi ontologiche azzarderei, rappresentino una buona unità di misura della mutazione del sistema capitalistico odierno.

Usando come metafora una teoria presa in prestito (è il caso di dirlo) dalla fisica, possiamo dire che i derivati sono la materia oscura della finanza globale, rilevabile solamente in modo indiretto tramite gli effetti “gravitazionali” sull’intero universo economico: la moneta fisica circolante, con percentuali simili a quelle della materia “osservabile”, rappresenta meno del 2% dell’intera massa di denaro, con i derivati a farla da padroni con un valore complessivo stimato in 2,2 milioni di miliardi di euro, 33 volte il PIL mondiale.

Ora, che la teoria della materia oscura sia vera o meno, non è importante in questa sede, dove ci interessa invece constatare come i derivati e in generale tutto il sistema dello shadow banking system, che costituisce la fetta più grossa della torta dei ricavi finanziari contemporanei, basato sulla speculazione e sostanzialmente disinteressato alla produzione di merci, strutturino l’economia contemporanea fin nelle sue fondamenta, rappresentando non tanto una sua “deviazione”, una stortura, bensì il suo cuore pulsante – o piuttosto perennemente sull’orlo di un attacco cardiaco, ciclicamente esposto a crisi.

Il capitalismo finanziario, o finanzcapitalismo come lo chiama Luciano Gallino nel suo omonimo, fondamentale libro, non ha potere, bensì è potere. Le sue logiche, volte all’estrazione di valore e non alla sua produzione, hanno asservito e articolato la realtà a partire dall’astrazione del capitale stesso, dalla sua completa autonomizzazione dall’economia reale e soprattutto da una sua crescente virtualizzazione grazie al processo tecnologico e alla penetrazione degli algoritmi in tutte le fasi di gestione e controllo del sistema, come nel caso del high frequency tarding, la compravendita di titoli effettuata in modo completamente automatico da algoritmi in frazioni infinitesimali di secondo, che rappresenta ormai circa il 50% delle transazioni.

Questo capitale-potere, astratto e macchinico, è diventato negli ultimi 40 anni il vero e proprio “nomos” della Terra, il principio di dis-organizzazione della società nel suo complesso, non solo nella sfera economica, ma anche in quella sociale – si pensi all’immensa estrazione di valore dalle relazioni sociali attuata dalla gig economy grazie ad algoritmi –, in quella etica, con un processo di costituzione di un soggetto debitore già analizzato altrove, e finanche nella sfera della riproduzione naturale, della natura vista come “fondo” per generare profitti. Anche la crisi dell’ecosistema, infatti, è al centro di speculazioni finanziarie: i disastri ambientali non sono fenomeni da limitare ma eventi su cui investire con “catastrophe bond” e derivati climatici, macchine di profitto per chi scommette su possibili catastrofi naturali in un determinato luogo.

Ma cos’è un “derivato”? Un derivato, nella sua forma originaria, è un contratto tra due controparti che si impegnano l’una a vendere, l’altra a comprare una certa quantità di merce entro un periodo definito ad un determinato prezzo: il suo valore “deriva”, appunto, da un sottostante, ciò che viene scambiato. In questa forma “pura”, dunque, un derivato è, come spiega Gallino, “una razionale ed efficace garanzia contro il rischio di variazioni sfavorevoli di prezzo atte a verificarsi a distanza di tempo”: fisso oggi il prezzo al quale comprerò o venderò una materia prima fra sei mesi, un anno (i cosiddetti futures), fissare la possibilità, e non l’obbligo, di acquistarla (options).

In questa forma “pura” di assicurazione dal rischio, futures e options esistevano già alla metà dell’Ottocento, quando al Chicago Board of Trade si scambiavano quelli sul grano come forma di tutela dalle variazioni di prezzo causate dalla ciclicità dei raccolti e delle scorte, e per circa un secolo furono contratti legati unicamente alle commodities, le materie prime.

Ma se un tempo questi strumenti finanziari erano legati ancora alla produzione e circolazione di merci, da quarant’anni a questa parte assistiamo ad un’esplosione di derivati “nudi”, vuoti, ovvero senza scambio reale di alcuna materia, anzi con una moltiplicazione infinita delle tipologie di entità sottostanti: tassi di cambio, corso di azioni e di indici azionari compositi, valore delle monete, prezzi di merci etc. Nel 2007, al momento dello scoppio della crisi, il 98% dei derivati era puramente speculativo, cioè senza scambi reali. Pure scommesse tra venditori e compratori, slegate dall’economia reale e però con i disastrosi effetti di ritorno su di essa che abbiamo conosciuto nel post-2008.

Questa ipertrofia della dimensione speculativa della finanza non ha il ruolo di accidente, e nemmeno di mero strumento di un’economia che ha ancora come scopo la produzione: è una mutazione genetica del modo di accumulazione capitalista, è, al contempo, l’ideologia stessa che lo legittima come unica “Ragione del mondo”, del controllo della società – la “mega-macchina” di Mumford spesso richiamata da Gallino, che usa la massa degli esseri umani come servo-unità – tasselli ibridi – per estrarre e accumulare valore.

In “Matrix” delle sorelle Wachowski, cult del 1999 troppo spesso letto più superficialmente di quanto le sue possibilità culturali lo permettano (o forse, invece, proprio il contrario? Chissà), l’umanità ha perso la guerra contro le intelligenze artificiali, e gli uomini sono ridotti a servo-unità, appunto, incubati in miliardi di cellule e “coltivati” dalle macchine per estrarne valore in quanto naturali produttori di bioelettricità: uomini-batterie, batterie di uomini. Nella mente di questi esseri umani “in coltura” gira un programma, una simulazione virtuale nella quale sono immersi per restare calmi durante questo processo di estrazione – con una funzione dunque ultraideologica, di schermatura del Reale

Ad un certo punto, al protagonista Neo (un Keanu Reeves entrato prepotentemente nel nostro immaginario collettivo) viene mostrata la realtà per com’è diventata nel tardo XXII secolo, fuori dalla simulazione, dalla “matrice”, dal codice: la terra è un cumulo di macerie, il sole è oscurato, gli umani ridotti a larve. “Benvenuto nel deserto del Reale!”, gli dice Morpheus mostrandogli le rovine della civiltà, al di là della mistificazione formato software in cui è stato immerso fino a quel momento.

Similmente, negli ultimi 40 anni, il neoliberismo ha prodotto un Reale fatto di diseguaglianze mostruose, di un impoverimento crescente, del crollo vertiginoso dell’assistenza sociale che ha provocato crisi sanitarie mortali per gli strati più bassi della popolazione – come vediamo in questi giorni di Covid – , di una precarietà lavorativa, sociale ed esistenziale per miliardi di esseri umani, di migrazioni forzate, di un ecosistema giunto al punto di non ritorno e prossimo al collasso.

Nel mentre, però, la speculazione galoppa, e l’Ideologia, forte anche del suo aspetto colpevolizzante, struttura la nostra realtà di modo che ogni nostra azione si trasformi in valore per qualcun altro, o qualcos’altro – “il mondo intorno a me continua a festeggiare/Anche se oggi sembra più sintetico del solito” (“Cpsom”, dall’album “Numero47” di Artifical Kid, piccola chicca per chi mastica di hip-hop).

Dalla fine della convertibilità dollaro-oro dichiarata da Nixon nel 1971, la moneta-merce muore e si crea la moneta-segno, una moneta virtuale non legata ad alcuna merce, permettendo così quell’ “emancipazione del segno”, di cui parla Baudrillard, che si svincola da un’esigenza arcaica di designare qualcosa, di essere referente: i segni si scambiano tra loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale, e la moneta-segno “evade” dalla produzione di beni per abbandonarsi alla speculazione infinita e alla circolazione pura, in una simulazione perenne che ricalca quella virtuale.

Questa trasformazione della natura ontologica e del ruolo della moneta verranno analizzate in un contributo a parte, ma basti qui isolare la svolta cardine nella mutazione di un capitalismo che ha come motore il sistema finanziario, sovvertendo la formula tradizionale D1 – M – D2, laddove un capitale iniziale D1 veniva investito nella produzione di merci M per ricavarne un profitto, o rendita, D2, per approdare ad una formula di accumulazione D1-D2.

Ma che ce farò io, co’ tutto quer denaro che accumulo”, si confessa un magistrale Tognazzi in “La proprietà non è più un furto” di Elio Petri, 1973, “dal momento che ormai sono in grado, e da molto tempo, di provvedere a tutti i miei bisogni? Beh, lo utilizzerò per farne altro, altro ancora, milioni, miliardi! Perché il mio bisogno fondamentale è quello di arricchire”.

Il finanzcapitalismo fa di tutto per saltare la fase intermedia di produzione di merci, volendo ricavare la rendita solamente dalla produzione di denaro per mezzo di denaro. Fine della produzione. Produzione della fine. Benvenuti nel deserto del Reale.

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