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Il capitale vede rosso

di Carlo Formenti

Dai primi di novembre sarà in libreria il mio ultimo libro. Un pamphlet dal titolo "Il capitale vede rosso. Socialismo del secolo XXI e reazione maccartista", pubblicato da Meltemi nella collana Melusine. Perché possiate farvi un'idea dei suoi contenuti. Copioincollo qui di seguito la Nota Introduttiva

Il titolo di questo libretto è ispirato dalla gigantesca statua di bronzo che si trova davanti alla sede della borsa di New York. Quel grande toro nerastro è una perfetta raffigurazione degli “spiriti animali” del turbocapitalismo contemporaneo, che costruisce i propri profitti sulla speculazione finanziaria più che sulla produzione industriale di beni e servizi. Il toro è infatti la metafora delle fasi arrembanti della borsa, nelle quali i titoli sembrano destinati ad accrescere senza sosta i propri valori, seguendo una curva di progressione geometrica. Tuttavia, l’artista che lo ha realizzato pare piuttosto avere pensato allo spettacolo delle corride: la bestia è ritratta in una posizione di tensione dinamica, la testa bassa e lo sguardo feroce, tanto che sembra pronta a precipitarsi contro il drappo rosso con cui un matador ne aizza la furia; non a caso, “vedere rosso” è il modo di dire comunemente usato per parlare di una persona talmente arrabbiata da avere perso il controllo, per cui si comporta appunto come un toro che carica a testa bassa.

Scegliendo questo titolo, ho inteso alludere al fatto che il capitalismo trionfante, che ha infilzato con le corna della controrivoluzione neoliberista le classi subalterne, e ne ha schiacciato le capacità di resistenza sotto gli zoccoli, si trova oggi a dover fare i conti con una successione di crisi – dalla bolla dei suprime del 2008 alla tempesta perfetta scatenata dalla pandemia del covid19 - che rischiano di metterne in discussione le conquiste realizzate con la sua decennale, vittoriosa guerra di classe contro i proletari del mondo intero. Benché al momento non si profilino all’orizzonte forze politiche e sociali in grado di sfruttare l’occasione per impersonare il ruolo di un matador capace di affondargli nel cuore la spada della rivoluzione socialista, le difficoltà che lo tormentano sono gravi al punto che basta poco per aizzarne la furia.

Del resto, quando Marx scriveva – attorno alla metà del secolo XIX – che uno spettro si aggirava per l’Europa, il nascente movimento comunista era ben poca cosa di fronte alle capacità di repressione della borghesia, ma ciò non bastava a tranquillizzare le forze della reazione. Lo stesso succede oggi: nemmeno il crollo dei socialismi esteuropei, nemmeno l’integrazione dei partiti socialdemocratici occidentali nel blocco di potere, nemmeno il rattrappirsi delle sinistre radicali in una nicchia priva di peso politico – ma soprattutto di qualsiasi velleità antisistemica -, bastano a tranquillizzare gli inquilini dei piani superiori. La crescita dei movimenti populisti, ancorché tutt’altro che irresistibili, l’esplosione di movimenti sociali come il 15M e i gilet gialli, ancorché privi di salde basi progettuali e programmatiche, ma soprattutto l’indebolimento del controllo imperiale di Stati Uniti ed Europa sugli equilibri geopolitici mondiali, sfidati dalla Cina e turbati dagli scossoni delle rivoluzioni latinoamericane, contenute e represse ma pronte a riesplodere, sono sufficienti a far vedere rosso alle élite neoliberali occidentali.

Fuor di metafora: ciò a cui stiamo assistendo è qualcosa di simile – ma questa volta su scala planetaria - all’ondata maccartista negli Stati Uniti del secondo dopoguerra. Come allora bastava esprimere modeste critiche alla politica imperialista americana per essere accusati di essere “spie sovietiche”, oggi l’intero sistema di potere mondiale – partiti, istituzioni, media, accademici, intellettuali, magistrati – serra le fila attorno ai principi e ai valori di un “pensiero unico” che vede l’ombra della bandiera rossa anche dietro a proposte politiche che fino a non molti anni fa sarebbero state liquidate come banale riformismo neokeynesiano. Parole come nazionalizzazione, ridistribuzione del reddito, welfare, economia mista, politica industriale, sovranità popolare, servizi pubblici, ecc. puzzano di “statalismo”, di attacco alle libertà economiche (e quindi, con immediata e ardita associazione pur smentita dai fatti, ai diritti individuali e civili).

Cosi si spiega l’allusione della seconda parte del sottotitolo alla reazione neomaccartista. Tuttavia il fine di questo breve saggio è soprattutto quello di chiarire il senso della definizione “socialismo del secolo XXI”. Esiste infatti il rischio di prendere alla lettera le accuse di comunismo che piovono nei confronti anche dei minimi tentativi di smarcamento dal discorso dominante: il fatto che si arrivi a definire comunisti i grillini (l’ultima risibile trovata è stata accusarli di avere preso soldi dal Venezuela di Maduro) può confondere le idee di alcuni amici e compagni che, pur bene intenzionati, potrebbero essere indotti ad allargare eccessivamente il ventaglio delle forze ascrivibili al campo anticapitalista.

Né è da sottovalutare il rischio opposto: la furia neomaccartista non è solo frutto di abbagli ideologici reazionari, rispecchia il fatto che una serie di obiettivi politici che – come sopra ricordato - in altri tempi si sarebbero liquidati come riformisti, rappresentano viceversa una concreta minaccia nei confronti delle condizioni che consentono l’accumulazione allargata in questa peculiare fase di sviluppo capitalistico. Il che ci obbliga non solo a tornare a ragionare sul confine che separa riforme e rivoluzione, ma anche a ridefinire il concetto stesso di socialismo.

È per queste ragioni che ho avvertito l’esigenza di ritornare su alcune delle tesi che ho avanzato nei miei ultimi lavori (Formenti, 2013, 2014, 2016, 2019 e Formenti-Romano, 2019), sia per approfondirne certi aspetti sia per chiarirne meglio il senso. Fare esegesi dei propri testi rischia di apparire un vezzo narcisista; ma sono disposto a correre tale rischio perché mi sono reso conto che in alcuni casi ne sono state date interpretazioni in cui non mi riconosco. Nelle pagine che seguono cercherò quindi di ribadire/precisare alcuni concetti fondamentali, ma anche - nei casi in cui nuove letture e determinati eventi mi hanno indotto a modificare il mio punto di vista - di rettificarne in tutto o in parte i contenuti. Del resto per un marxista (ancorché “eretico”) quale continuo a ritenermi, la teoria non è un insieme di idee generali e astratte, valide in qualsiasi contesto, bensì un pensiero che aspira a calarsi nella concreta congiuntura storica, con l’ambizione di contribuire a modificarla.

In particolare, cercherò di precisare meglio cosa intendo quando parlo di sovranità, di popolo, di stato, di socialismo; da un lato, per evitare di essere frainteso e associato alle definizioni correnti di termini come populismo e sovranismo; dall’altro lato, per prendere le distanze dai vizi – elettoralismo, governismo, comunicazionismo – che spesso si accompagnano a quelle pratiche e progetti politici che rivendicano la necessità di proiettarsi oltre la polarità destra/sinistra. Un’ultima annotazione su quest’ultimo punto: da anni, quando vengo accusato di non essere più di sinistra, replico: è vero io non sono di sinistra, sono comunista, il che non è la stessa cosa. Ora i miei lettori potrebbero obiettare che questa risposta è in contraddizione con il fatto che spesso (anche in questo scritto) mi capita di riferirmi alla concezione “classica” del comunismo – posto che in Marx e negli altri padri fondatori non esistono definizioni chiare e univoche del termine – come a un orizzonte simbolico, a un mito fondativo, più che a un concreto obiettivo politico. È vero, ma la consapevolezza che il comunismo è un’utopia, nulla toglie alla sua potenza evocativa, alla sua capacità di incarnare l’irriducibile volontà di andare oltre il capitalismo. Laddove “essere di sinistra” non implica più ormai alcuna velleità di abolire lo stato di cose presente.

Comments

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Carlo Tarsitani
Saturday, 16 October 2021 12:07
Riporto: «[...] in Marx e negli altri padri fondatori non esistono definizioni chiare e univoche del termine – come a un orizzonte simbolico, a un mito fondativo, più che a un concreto obiettivo politico. È vero, ma la consapevolezza che il comunismo è un’utopia, nulla toglie alla sua potenza evocativa, alla sua capacità di incarnare l’irriducibile volontà di andare oltre il capitalismo [...]». Se fosse così non sarei comunista nemmeno io. Sono comunista poiché sono convinto che il comunismo di Marx abbia una base scientifica nell'analisi delle condizioni storiche e dell'evoluzione dei bisogni materiali. Mi rifiuto di recedere in una concezione "etica" del comunismo. Le scelte comuniste hanno la stessa base antropologica delle scelte capitaliste. Come quest'ultime le possiamo comprendere nell'ambito di una concezione del mondo scientificamente e razionalmente fondata. E' razionale, per esempio, che l'uomo difenda la propria sopravvivenza se vede questa minacciata: questa non è una scelta "morale". E' razionale che l'uomo scelga la possibilità di un lavoro libero e non "alienato".
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