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micromega

Quando il singolo studente è in quarantena

di Carlo Scognamiglio

C’è un mantra che tutti i più recenti documenti ministeriali (restituiti poi in forma di monito dai dirigenti scolastici), ripetono meccanicamente dall’inizio di questa pandemia: l’attività didattica online non può essere una mera trasposizione di quanto si svolge in presenza. Si tratta di un’ovvietà, ma è particolarmente interessante, perché la forza con cui è ribadita risulta inversamente proporzionale al suo rispetto nella vita quotidiana della scuola. La dimensione comunicativa, laboratoriale e la strutturale natura relazionale del processo educativo in presenza, non possono essere riprodotti, se non in modo caricaturale, nella didattica online.

Simmetricamente, la didattica a distanza può promuovere attitudini e processi cognitivi diversi: certamente una maggiore responsabilizzazione dello studente nell’organizzazione del lavoro, una dimensione laboratoriale prevalentemente (ma non esclusivamente) digitalizzata, una maggiore autonomia di giudizio – facilitata anche dall’alleggerimento della dimensione corporea – rispetto all’ingombrante personalità del docente.

Un’ovvietà dunque, rafforzata dalle evidenti differenze di motivazione, stimolazione e tipologia di attenzione cognitiva, che segnano il confine tra la didattica in presenza e quella a distanza. Ma, come diceva Hegel, “ciò che è noto, proprio per questo non è conosciuto”. E se dobbiamo procedere a una didattica digitale integrata, cioè “integrare” la didattica in presenza con quella a distanza, dovremmo almeno conoscerne e riconoscerne le differenze, altrimenti non di integrazione si tratterebbe, bensì di scomposta aggregazione.

Dopo aver ripetuto la formula magica, molti dirigenti (ma insieme a loro i Collegi dei docenti) paiono dimenticarsene all’istante, rivelandosi spesso abborracciati nel gestire l’ordinaria vita scolastica da pandemia, come se i duri mesi passati non fossero serviti a nulla. Tralasciamo l’imbarazzante constatazione di alcuni regolamenti interni alle scuole, in base ai quali i dirigenti esigono di essere inseriti nella classroom con gli studenti, per poter meglio monitorare il lavoro dei docenti; chiedono di partecipare alle videochiamate (tanto per rasserenare il clima), oppure – per assicurarsi della solerzia dei subalterni – prevedere, in caso di lockdown, la marginalizzazione (fino all’insussistenza) delle attività formative in modalità asincrona. Questa forma di sfiducia nei confronti degli insegnanti è particolarmente ingenerosa, dopo che con il proprio sforzo spontaneo (e, almeno in una prima fase, non dovuto) lo scorso anno i docenti italiani hanno portato a conclusione, senza adeguato supporto e senza indicazioni chiare, l’anno scolastico a distanza, con risultati apprezzati in tutta Europa, e sottolineati dal Presidente della Repubblica.

Ma l’esempio più clamoroso di questa contraddizione è dato dalla casistica, sempre più diffusa, di singoli studenti posti in isolamento temporaneo. Nella migliore delle ipotesi, questi ragazzi assistono dalla propria cameretta, quasi come spettatori alienati, a quanto avviene in aula, in loro assenza.

Uno studente che non riesce a comprendere quel che dicono i suoi compagni (perché a stento può cogliere continuativamente la voce del proprio insegnante), che per poter intervenire deve faticare ad attirare l’attenzione del docente, che non può commentare una cosa buffa con i suoi amici, è ancora un membro del gruppo classe? Che idea di gruppo abbiamo? E che idea di educazione portiamo avanti? Immaginiamo poi che si tratti di uno straniero di prima generazione. Ci abbiamo riflettuto?

Ebbene, neanche a farlo di proposito, l’altro gettonatissimo mantra, talvolta evocato per rimproverare ingiustamente i docenti della vecchia scuola, ma non realmente interiorizzato, è quello della personalizzazione della didattica. Qualcuno è in grado di spiegare che tipo di individualizzazione del momento educativo è stata ipotizzata per un allievo in quarantena, che magari è preoccupato anche per le sue condizioni di salute e per quelle dei propri familiari, ridotto a fragile spettatore dei suoi coetanei? Eh sì, ci vuol pure un po’ di sensibilità, nella professione dell’insegnante!

Se tutti gli studenti fossero collegati con un dispositivo, allora sarebbe in parte diverso perché, pur restando in aula, potrebbero partecipare e intervenire in modo paritario, ma il sistema BYOD (che in soldoni prevede la possibilità che ogni studente porti a scuola il proprio pc o smartphone per connettersi autonomamente durante le attività didattiche) non decolla, dal momento che i genitori non hanno tutti le stesse disponibilità economiche, e perché i sistemi wifi delle scuole non reggono l’impatto. E la precedenza è stata data ad elementi dell’arredo scolastico di dubbia funzionalità.

Da una ricognizione empirica molto rozza da me effettuata tra i colleghi di varie scuole, devo dire che quasi nessuno ha pensato a una vera soluzione alternativa. Eppure, almeno un’opzione sarebbe dietro l’angolo… facile-facile.

Ogni Istituto ha a disposizione un surplus di organico (eredità del così detto “organico di potenziamento” immesso in ruolo con la Legge 107). Non sarebbe difficile costituire – anche cedendo solo una o due ore a testa tra le ore “a disposizione” – una sorta di Consiglio di classe virtuale, con il compito di predisporre una serie di attività in modalità asincrona da proporre ai singoli alunni in quarantena per il periodo previsto di isolamento. Tale procedimento si attiverebbe mediante un coordinamento costante con i docenti della classe, e le attività svolte autonomamente dallo studente sarebbero accompagnate da un sistematico lavoro di confronto e feedback da parte del “docente virtuale”. Per alcune ore a settimana (un paio d’ore al giorno, ad esempio), lo studente potrebbe collegarsi col gruppo classe, condividere i suoi lavori multimediali, ascoltare una discussione per farsi un’idea di quel che si svolge in aula, e per non perdere il contatto con il suo gruppo di riferimento. Ma non avrà la sensazione di rimanere indietro, bensì di essere entrato in un percorso speciale che potrebbe addirittura dargli una marcia in più, trattandosi di una formazione personalizzata.

La verità è che due cose non sono state ancora comprese: il valore della dimensione asincrona nell’attività a distanza, almeno nella scuola secondaria di primo e secondo grado, ma anche e soprattutto l’evidenza in base alla quale la riduzione della vita scolastica alla diretta streaming, come è stato sufficientemente dimostrato, contribuisce a radicalizzare il carattere classista della scuola italiana.

Perché allora non si elaborano modelli più chiari e condivisi di didattica in modalità asincrona, da affiancare in quota consistente alle pur necessarie sessioni live? Forse perché alcuni docenti si rifiutano di programmarla in modo sistematico (anche perché la predisposizione dei materiali e la necessità di feedback costanti implicano – almeno nelle prime fasi – uno sforzo non indifferente). Può darsi.

O forse perché i dirigenti non si fidano dei propri docenti, o temono le proteste dei genitori (che talvolta pressano, invocando lo schermo-intrattenitore), oppure perché banalmente gli sfugge che quanto ripetono meccanicamente da mesi è proprio la verità, e cioè che la mera trasposizione “a distanza” della tradizionale didattica “in presenza” è tristemente inutile, e probabilmente anche dannosa.

Meglio consigliare qualche buon libro e lasciare in pace lo studente fino alla fine della quarantena, se non si è in grado di fare di meglio.

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