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Il Recovery Fund è davvero la soluzione? Ecco criticità e tecnicismi

di Alessandro Guerriero

Nelle ultime settimane il dibattito economico e politico si è focalizzato sul Recovery Fund (o più correttamente Next Generation EU), lasciando però molte parti in ombra. Il Next Generation EU è il piano della Commissione Europea per la resilienza dei paesi UE colpiti dal Covid-19. È stato approvato dal Consiglio Europeo straordinario il 21 luglio di quest’estate e successivamente confermato dal Parlamento Europeo.

Il Next Generation EU è un quindi un’estensione del bilancio della Commissione europea, che si aggiunge al quadro finanziario pluriennale (QFP). Le risorse del Recovery Fund sono 750 miliardi di euro, divise in 390 di sovvenzioni a fondo perduto e 360 di prestiti.

La differenza tra prestiti e sovvenzioni a fondo perduto esiste, ma è più labile di quel che si pensa. La Commissione europea è stata incaricata di poter contrarre, per conto dell’Unione e tramite la BEI (Banca Europea per gli Investimenti), prestiti sui mercati dei capitali per 750 miliardi di euro al fine di finanziare il piano di aiuti.

Partendo dai 360 miliardi di prestiti, la Commissione dopo averli raccolti sui mercati finanziari li destinerà ai paesi richiedenti dell’Unione. Proprio perché sono prestiti, essi dovranno essere restituiti. Le restituzioni partiranno dal 2028 fino a completarsi obbligatoriamente nel 2058.

Emettere titoli di stato o prendere soldi a prestito dalla Commissione Europea è praticamente la stessa cosa: entrambi devono essere restituiti ed entrambi aumentato il debito pubblico dello Stato. Allora quali sono le differenze tra queste due fonti di finanziamento?

Una prima differenza è che gli aiuti del Recovery Fund hanno delle condizionalità, come previsto per il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), ovvero la coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese, nonché del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resilienza sociale ed economica dello Stato membro. Anche l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale rappresenta una condizione preliminare ai fini di una valutazione positiva. (A 19, Conclusioni finali del Consiglio Europeo di luglio).

Per questi fondi le condizionalità sono diverse rispetto a quelle del MES, quali la transizione digitale e green, la creazione dei posti di lavoro e la resilienza che sono di certo obiettivi auspicabili per l’Italia. Ma a differenza del Next Generation EU e del MES, il finanziamento tramite titoli di Stato non prevede alcuna condizionalità di spesa: quindi il governo sarebbe libero di spendere a suo piacimento, senza alcun vincolo.

Un’altra differenza sono i tassi di interesse che richiede in cambio il mercato alla Commissione Europea e ad un singolo Stato. Il tasso di interesse dei prestiti concessi alla Commissione Europea dovrebbe essere vicino allo zero. Proprio per questo ad alcuni Paesi potrebbe convenire prendere questi prestiti, poiché i loro tassi di interesse sui titoli di stato sono più alti. Ad altri invece non dovrebbe risultare utile. Questo è uno dei possibili motivi per cui il Presidente spagnolo Sanchez è in forte dubbio sul ricorso alla parte dei prestiti del Recovery Fund. I tassi di interesse sui titoli di Stato sono al minimo storico in molti paesi. In Italia i tassi dei decennali non sono mai stati così bassi dal 1310 secondo la Deutsche Bank.

Infine, non sembra che la BCE sia intenzionata a diminuire la portata del PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme) nel breve periodo. I tassi di interesse del debito acquistato dalla BCE sul mercato secondario vengono restituiti al Tesoro, pertanto essi risultano uguali a zero.

L’altra possibile motivazione del rifiuto è che le condizionalità del prestito non sono ben chiare. Il governo di Madrid è dunque preoccupato per le possibili pretese future di aggiustamenti profondi sui bilanci e sul debito da parte dell’Unione Europea. Questo aspetto, se risultasse vero, farebbe diventare qualsiasi prestito della Commissione svantaggioso rispetto all’emissione dei titoli di debito per ogni singolo paese, anche se gli ultimi fossero più costosi in termini di tassi di interesse.

In merito alle sovvenzioni a fondo perduto, invece, queste sono state considerate la parte più importante del piano di resilienza: all’inizio della contrattazione tra Paesi frugali e i favorevoli al Recovery Fund, le sovvenzioni erano fissate a 500 miliardi, per poi scendere nell’accordo finale a 390.

L’espressione “fondo perduto” è ingannevole, poiché di solito si pensa a somme versate senza impegno di restituzione. Leggendo superficialmente le modalità delle sovvenzioni del Next Generation EU, questa espressione sembra essere corretta: la Commissione Europea prenderà in prestito dai mercati finanziari gli importi che le servono per finanziare le sovvenzioni a fondo perduto e li darà agli Stati richiedenti. Al contrario dei prestiti precedenti, questi non dovranno essere restituiti. Il problema non ben evidenziato è che la Commissione dovrà in futuro restituire i soldi presi in prestito dal mercato. E in che modo?

Per ripagare ai mercati 390 miliardi delle sovvenzioni, la Commissione Europea dovrà aumentare il proprio bilancio e non viene spiegato precisamente come verrà finanziato quest’ampliamento. Le soluzioni sono due: la prima è l’aumento dei contributi versati dagli Stati, e la seconda è l’imposizione di nuove tasse stabilite dalla Commissione sul territorio europeo.

Nell’ultimo caso, dichiarato possibile nel documento della Commissione Europea del 21 Luglio, sarebbero in gran parte i cittadini europei a ripagare quell’aumento di tassazione, e quindi anche quelli italiani. Sono già state programmate imposte in base al peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati a partire dal 1° gennaio 2021 e un possibile prelievo sul digitale.

Nel caso in cui venisse invece ampliato il bilancio europeo mediante i contributi, sarebbero direttamente gli Stati europei a finanziarlo secondo le proporzioni ante Covid-19, ovvero in base al RNL (Reddito Nazionale Lordo). Ma le sovvenzioni, essendo erogate secondo quanto gli Stati sono stati colpiti dalla pandemia, porterebbero ad avvantaggiare alcuni paesi rispetto ad altri, quale l’Italia.

Infatti, come deciso nell’accordo finale del Consiglio Europeo di luglio, l’Italia riceverà circa 209 miliardi, suddivisi in 81,4 di sovvenzioni a fondo perduto e 127,4 di prestiti. Ipoteticamente, se tutto l’aumento del bilancio europeo per gli aiuti a fondo perduto fosse coperto dall’aumento dei finanziamenti dei singoli Paesi, il guadagno netto per l’Italia sarebbe di un importo tra i 28 e i 30 miliardi. Ovviamente gli aiuti netti sono minori degli 81,4 miliardi indicati, ma sono sicuramente maggiori di zero.

In ogni caso, gli aiuti per l’Italia rappresentati dal Recovery Fund non sono la pioggia di soldi rappresentata dalla stampa e non sono neanche paragonabili al Piano Marshall del dopoguerra in cui gli stanziamenti erano davvero a fondo perduto.

Gli aiuti europei poi arriveranno forse dall’inizio del primo trimestre del 2021, e non saranno la totalità, bensì il 70% che dovrà essere erogato tra il 2021 e 2022. Il restante 30% potrà essere usato nel 2023.

Pertanto, nella migliore delle ipotesi i primi sussidi arriveranno a inizio 2021: i fondi verranno erogati su richiesta degli Stati, che dovranno predisporre dei piani nazionali di spesa. Entro due mesi dalla presentazione saranno valutati dalla Commissione Europea in base alla coerenza con le condizionalità imposte, come la transizione verde e digitale. Successivamente a questa valutazione, il Consiglio Europeo dovrà approvare a maggioranza qualificata la valutazione della Commissione, entro quattro settimane. Quindi il tempo massimo sarà di tre mesi per la conclusione della procedura di approvazione dei piani nazionali.

Ma i paesi frugali hanno insistito per poter aggiungere il cosiddetto “freno a mano”, ovvero l’opzione per cui uno o più degli Stati membri possano richiedere il rinvio dell’approvazione dei piani nazionali al successivo Consiglio Europeo nel caso in cui ritengano che vi siano gravi scostamenti dai target stabiliti.

Questo strumento concesso ai Paesi frugali farà allungare ancora di più i tempi dell’approvazione e della successiva erogazione dei fondi, mentre la crisi economica dilaga dall’inizio della pandemia e le manovre fiscali non sono state assolutamente adeguate a contrastarla.

Altro aspetto avverso nel caso in cui uno Stato faccia ricorso al “freno a mano”, e non è difficile aspettarselo da uno dei Paesi frugali, è il conseguente effetto comportamentale dei mercati finanziari, decisamente negativo. Esattamente il contrario del whatever it takes di Mario Draghi, allora Presidente della BCE, che nel 2012 salvò l’euro, influenzando positivamente i mercati con una semplice dichiarazione.

Ma nell’ultimo periodo abbiamo assistito anche a dichiarazioni che definire inopportune sarebbe riduttivo. Un esempio è quello dell’attuale presidente della BCE Christine Lagarde, la quale dichiarò che non era compito della banca centrale abbassare gli spread nazionali. Nel giro di quindici minuti il differenziale italiano si alzò di circa 36 punti base. La stessa cosa potrebbe succedere se un qualunque stato membro tirasse il freno a mano, creando un whatever it takes al contrario, con effetti forse ben più negativi di quelli della frase della Lagarde. Di fatto ci sarebbe una vera e propria rottura all’interno dell’Europa.

In conclusione, il Recovery Fund non è di certo la panacea che salverà l’Italia dalla crisi economica, come non sarà il MES a risolvere i problemi della sanità nazionale. Certo è che gli aspetti negativi esistono e spesso non sono affrontati. E non vengono neanche considerate alternative valide a quelle finora proposte, una delle quali potrebbe essere la monetizzazione del deficit.

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