Alcune osservazioni sul programma politico del Fronte Comunista
di Eros Barone
Il documento politico elaborato dai compagni del Fronte Comunista è un contributo importante al processo di formazione del partito rivoluzionario marxista-leninista nel nostro paese. Sennonché per spingere in questa direzione è indispensabile sia un approfondimento della teoria marxista-leninista della lotta di classe sia l’elaborazione di una linea strategica e di una tattica basate sull’analisi delle classi, poiché senza una strategia rivoluzionaria è impossibile parlare di partito. Nello spirito fraterno, schietto e costruttivo del metodo di unità-critica-unità, che deve regolare i rapporti fra i nuclei marxisti-leninisti oggi esistenti nel nostro paese, indicherò pertanto, nell’esaminare alcuni aspetti assiali di questo documento, quelli che sono, a mio giudizio, dei pregi e quelli che sono invece dei difetti, soffermandomi in particolare su questi ultimi.
Tra i pregi sono senz’altro da citare i capitoli del documento concernenti i seguenti temi:
l’analisi dell’imperialismo nella fase attuale (dove, fra l’altro, viene formulato un giudizio preciso sulla natura imperialista della Cina e della Russia);
la riaffermazione della centralità della classe operaia nella costruzione del partito comunista (il capitolo sulla costruzione del partito comunista delinea, ad esempio, un modello di partito comunista “che sappia confrontarsi con il difficile compito…di riconnettere l’avanguardia politica rivoluzionaria ai settori più avanzati e combattivi dei lavoratori, impegnandosi sul piano della lotta di classe effettiva e non su quello dell’auto-rappresentazione in un conflitto di classe simulato”); il programma politico e, in particolare, la questione del potere; infine il socialismo/comunismo (dove vengono indicate e precisate le linee fondamentali di un programma di transizione).
Tra i difetti sono invece da rilevare alcuni ‘vuoti’ di notevole importanza: la mancanza di un’analisi delle forze politiche e delle loro basi sociali (assente), l’indicazione degli interlocutori e delle prospettive per la costruzione del partito (assente), l’analisi congiunta della composizione di classe (tecnica, sociale e politica) del proletariato e della correlativa funzione dell’aristocrazia operaia nel contesto dell’imperialismo e del capitalismo monopolistico (entrambe assenti, eccettuato un fugace cenno di carattere economicistico a quest’ultima quale spesa improduttiva del capitale).
Nel presente intervento mi propongo di affrontare la questione fondamentale della lotta contro il revisionismo (anch’essa citata in due o tre punti del documento, ma mai analizzata). A tal fine prendo le mosse da un passo del documento che compare nel capitolo sul capitalismo italiano, dove è dato leggere quanto segue: “Nel 1984, un referendum voluto dai padroni, sponsorizzato dal governo guidato dal socialista Craxi, mal gestito da una CGIL egemonizzata da un PCI ormai avviato sulla strada del revisionismo e dell’autodissoluzione, cancellava la scala mobile”. In sostanza, il presupposto del giudizio storico-politico che qui viene formulato sembra essere quello secondo cui il revisionismo sarebbe cominciato nel periodo della direzione di Berlinguer, mentre il periodo precedente (1945-1970) sarebbe stato un periodo immune dal virus revisionista. In realtà, un’analisi storica non superficiale basta a dimostrarci che la degenerazione revisionista risale perlomeno al 1945, ossia alla gestione semi-opportunista della “svolta di Salerno”, laddove la ‘svolta’ fu una scelta giusta e l’errore di Togliatti, all’inizio minima deviazione angolare destinata a diventare poi sempre più ampia nei cinque lustri successivi, fu quello di trasformare una scelta tattica in una prospettiva strategica.
Perché questo processo involutivo è potuto avvenire? Ebbene, per rispondere a questa cruciale domanda occorre ribadire che la trasformazione del Pci in “partito operaio borghese” (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin), prima della sua finale liquidazione ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo di dirigenti revisionisti (quasi che il Pci fosse un ‘corpo sano’ con una ‘testa malata’). Questi dirigenti infatti erano l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia, degli intellettuali borghesi e piccolo-borghesi. «Oggi – scrive Lenin già nel 1916 – il “partito operaio borghese” è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti… Nella lotta fra queste due tendenze – continua Lenin riferendosi alla lotta fra il revisionismo di cui è portatore il “partito operaio borghese” e il marxismo rivoluzionario di cui sono portatori i comunisti – si svolgerà ora inevitabilmente la storia del movimento operaio, poiché la prima tendenza non è casuale, ma economicamente determinata».
Le oscillazioni tra il termine-concetto di ‘ricostruzione del partito comunista’ e il termine-concetto di ‘costruzione del partito comunista’, rilevabili nel documento del Fronte Comunista, sono quindi la spia di un’incertezza ideologica e di un’ambiguità politica che possono portare, se non vengono corrette, ad una degenerazione di carattere neorevisionista (cfr. un articolo di Alessandro Mustillo del settembre scorso, pubblicato dalla rivista online «L’Ordine Nuovo» e intitolato Dopo le elezioni: superare l’irrilevanza con una vera costituente comunista). Orbene, l'articolo si segnala per un approccio realistico all’analisi della situazione attuale delle forze comuniste, ma in esso vi è un punto piuttosto ambiguo là dove si afferma "la necessità di una revisione generale, di una condivisione strategica di fondo da costruire". Se questa tesi riguarda la tattica è corretta; se invece, visto che concerne la strategia, costituisce la premessa maggiore di un sillogismo da cui discende come conclusione una svolta in senso antileninista, allora essa è semplicemente inaccettabile. Incidentalmente, osservo che, se nella vittoria del 'sì' al recente referendum vi è un aspetto positivo, esso è la definitiva eliminazione di due tare, frutto dell'opportunismo socialdemocratico, che hanno storicamente condizionato la maggior parte della sinistra comunista: il cretinismo parlamentare e l'elettoralismo 'a prescindere'. Naturalmente non si tratta di negare l’importanza che assume, in una situazione non rivoluzionaria, la conquista del diritto di tribuna, ma di chiarire che è dall'area dell'astensione, che rappresenta più o meno la metà del corpo elettorale e dove si trovano i soggetti attualmente o potenzialmente antagonisti, che occorre ripartire nella costruzione (sia ben chiaro, non 'ricostruzione') del partito comunista.
Per quanto riguarda poi il ruolo del Fronte Comunista nel processo di costruzione del partito comunista quale emerge dalla sua denominazione, mi sembra opportuno precisare che nella tattica marxista-leninista sono stati storicamente elaborati, in relazione alle specifiche congiunture della lotta di classe e ai problemi di unità o di alleanza che in esse si ponevano, vari tipi di ‘fronti’.
Vanno quindi precisate le differenze tra il fronte unico, rappresentato dai partiti che si richiamano alla classe operaia (cfr. il III Congresso del Comintern nel 1921), il fronte popolare, estensione del fronte unico ai partiti che organizzano il ceto medio progressista e antifascista (cfr. il VII Congresso del Comintern nel 1935), e il fronte patriottico (o nazionale) che raggruppa tutte le forze politiche interessate a battersi per l’indipendenza nazionale. Da questo punto di vista, il concetto di “fronte comunista” sembra invece recare in sé il codice genetico dell’eclettismo: sotto sotto si direbbe che riappare l’idea profondamente errata che il partito sia il risultato del livello medio di coscienza raggiunto dalle masse, ma ciò significa negare nell’opportunismo codista i princìpi fondamentali del leninismo.
A questo proposito, vale la pena di rammentare che Lenin non si spaventò mai di essere in minoranza, convinto che sarebbero state la vita e la lotta a dimostrare chi avesse ragione.«Debolezza numerica? Quando mai i rivoluzionari hanno reso le loro politiche dipendenti dal fatto di essere maggioranza o minoranza?»,e aggiungeva: «Non dobbiamo avere paura di restare in minoranza». Occorre pertanto ribadire, dal punto di vista teorico, che la costruzione del partito è un atto volontario di avanguardie rivoluzionarie. In altri termini, partendo da una corretta analisi dello scontro di classe, forti degli elementi essenziali di una strategia e di una tattica rivoluzionaria, che derivino dalla giusta applicazione dei princìpi del marxismo-leninismo alle situazioni concrete, e quindi in gran parte (ma non solamente) da un intervento continuo nelle lotte delle masse e nella lotta ideologica, sulla base di una omogeneità di analisi e di intervento, nuclei di avanguardia decidono di tradurre il loro effettivo orientamento comune in termini organizzativi, con tutte le implicazioni che questa scelta comporta (centralismo, disciplina ecc.).
Mi scuso con i compagni del Fronte Comunista per il taglio prevalentemente metodologico del mio intervento, in cui più che fornire il pesce ho cercato di mettere a punto la canna da pesca. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che la politica dei comunisti, quale che sia la fase del processo rivoluzionario in cui essi operano, deriva da precisi fondamenti teorici (e in questo consiste, come ebbe a rilevare Joseph Schumpeter, un grande economista borghese del Novecento, la nobiltà e la grandezza della teoria marxista e la sua differenza dal politicantismo borghese e piccolo-borghese).
Concludo dunque sottolineando i seguenti punti: a) la necessità di analizzare, nei processi di degenerazione del movimento operaio e comunista innescati dall’imperialismo, sia le differenze sia i peculiari intrecci tra l’opportunismo, il riformismo e il revisionismo; b) la necessità di una posizione intransigente nella lotta contro l'opportunismo, quale è affermata da Lenin: «La lotta contro l'imperialismo è una frase vuota e falsa se non è indissolubilmente legata alla lotta contro l'opportunismo»; c) l’imprescindibile criterio, che deve presiedere all’unificazione dei comunisti e che è insieme di metodo e di contenuto, per cui «prima di unirsi, e per unirsi, è necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e nettamente».
Infine, e concludo davvero, siccome il 28 novembre scorso cadeva il 200° anniversario della sua nascita, ritengo che di Friedrich Engels siano da meditare e da salvaguardare due insegnamenti politici che derivano rigorosamente dalla teoria del socialismo scientifico e di cui né la Spd né il Psi né il Pci post-1945 hanno tenuto il debito conto: I) la necessità delle delimitazione tattica delle alleanze (si pensi alla delimitazione rispetto alla socialdemocrazia, atto fondante di un nuovo movimento operaio con la creazione della Terza Internazionale); II) l’indipendenza del partito in quanto espressione organizzativa dell’autonomia teorica e politica del proletariato (l’obiettivo per cui Marx si era tenacemente battuto dentro la Prima Internazionale).
Ma anche ammettendo (senza concedere) che la Cina sia capitalista rimarrebbe comunque palese l'assurdità di un programma che si propone di valorizzare e sostenere Nord Corea e Cuba e allo stesso tempo di mantenere un'impossibile equidistanza tra un paese che li appoggia e li sostiene (diplomaticamente ed economicamente) e uno che li combatte e li affama.
Tra un paese che ha nel marxismo la sua ideologia di stato e ne promuove la conoscenza e la diffusione e uno che si è fatto fucina di tutte le ideologie anticomuniste possibibili.
Tra uno che valorizza e difende la storia del comunismo e le sue conquiste e uno che promuove il revisionismo storico in ogni sua forma.
Tra un paese le cui aggressioni militari ai paesi vicini sono al massimo solo ipotizzabili o prevedibili e un altro che ha una storia secolare di stermini di massa e di stragi di ogni tipo.
Tra un paese che aggredisce e sottomette il resto del mondo e uno difende (insieme alla Russia) la propria indipendenza e quella degli altri.