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sinistra

Alcune osservazioni sul programma politico del Fronte Comunista

di Eros Barone

Il documento politico elaborato dai compagni del Fronte Comunista è un contributo importante al processo di formazione del partito rivoluzionario marxista-leninista nel nostro paese. Sennonché per spingere in questa direzione è indispensabile sia un approfondimento della teoria marxista-leninista della lotta di classe sia l’elaborazione di una linea strategica e di una tattica basate sull’analisi delle classi, poiché senza una strategia rivoluzionaria è impossibile parlare di partito. Nello spirito fraterno, schietto e costruttivo del metodo di unità-critica-unità, che deve regolare i rapporti fra i nuclei marxisti-leninisti oggi esistenti nel nostro paese, indicherò pertanto, nell’esaminare alcuni aspetti assiali di questo documento, quelli che sono, a mio giudizio, dei pregi e quelli che sono invece dei difetti, soffermandomi in particolare su questi ultimi.

Tra i pregi sono senz’altro da citare i capitoli del documento concernenti i seguenti temi:

l’analisi dell’imperialismo nella fase attuale (dove, fra l’altro, viene formulato un giudizio preciso sulla natura imperialista della Cina e della Russia);

la riaffermazione della centralità della classe operaia nella costruzione del partito comunista (il capitolo sulla costruzione del partito comunista delinea, ad esempio, un modello di partito comunista “che sappia confrontarsi con il difficile compito…di riconnettere l’avanguardia politica rivoluzionaria ai settori più avanzati e combattivi dei lavoratori, impegnandosi sul piano della lotta di classe effettiva e non su quello dell’auto-rappresentazione in un conflitto di classe simulato”); il programma politico e, in particolare, la questione del potere; infine il socialismo/comunismo (dove vengono indicate e precisate le linee fondamentali di un programma di transizione).

Tra i difetti sono invece da rilevare alcuni ‘vuoti’ di notevole importanza: la mancanza di un’analisi delle forze politiche e delle loro basi sociali (assente), l’indicazione degli interlocutori e delle prospettive per la costruzione del partito (assente), l’analisi congiunta della composizione di classe (tecnica, sociale e politica) del proletariato e della correlativa funzione dell’aristocrazia operaia nel contesto dell’imperialismo e del capitalismo monopolistico (entrambe assenti, eccettuato un fugace cenno di carattere economicistico a quest’ultima quale spesa improduttiva del capitale).

Nel presente intervento mi propongo di affrontare la questione fondamentale della lotta contro il revisionismo (anch’essa citata in due o tre punti del documento, ma mai analizzata). A tal fine prendo le mosse da un passo del documento che compare nel capitolo sul capitalismo italiano, dove è dato leggere quanto segue: “Nel 1984, un referendum voluto dai padroni, sponsorizzato dal governo guidato dal socialista Craxi, mal gestito da una CGIL egemonizzata da un PCI ormai avviato sulla strada del revisionismo e dell’autodissoluzione, cancellava la scala mobile”. In sostanza, il presupposto del giudizio storico-politico che qui viene formulato sembra essere quello secondo cui il revisionismo sarebbe cominciato nel periodo della direzione di Berlinguer, mentre il periodo precedente (1945-1970) sarebbe stato un periodo immune dal virus revisionista. In realtà, un’analisi storica non superficiale basta a dimostrarci che la degenerazione revisionista risale perlomeno al 1945, ossia alla gestione semi-opportunista della “svolta di Salerno”, laddove la ‘svolta’ fu una scelta giusta e l’errore di Togliatti, all’inizio minima deviazione angolare destinata a diventare poi sempre più ampia nei cinque lustri successivi, fu quello di trasformare una scelta tattica in una prospettiva strategica.

Perché questo processo involutivo è potuto avvenire? Ebbene, per rispondere a questa cruciale domanda occorre ribadire che la trasformazione del Pci in “partito operaio borghese” (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin), prima della sua finale liquidazione ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo di dirigenti revisionisti (quasi che il Pci fosse un ‘corpo sano’ con una ‘testa malata’). Questi dirigenti infatti erano l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia, degli intellettuali borghesi e piccolo-borghesi. «Oggi – scrive Lenin già nel 1916 – il “partito operaio borghese” è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti… Nella lotta fra queste due tendenze – continua Lenin riferendosi alla lotta fra il revisionismo di cui è portatore il “partito operaio borghese” e il marxismo rivoluzionario di cui sono portatori i comunisti – si svolgerà ora inevitabilmente la storia del movimento operaio, poiché la prima tendenza non è casuale, ma economicamente determinata».

Le oscillazioni tra il termine-concetto di ‘ricostruzione del partito comunista’ e il termine-concetto di ‘costruzione del partito comunista’, rilevabili nel documento del Fronte Comunista, sono quindi la spia di un’incertezza ideologica e di un’ambiguità politica che possono portare, se non vengono corrette, ad una degenerazione di carattere neorevisionista (cfr. un articolo di Alessandro Mustillo del settembre scorso, pubblicato dalla rivista online «L’Ordine Nuovo» e intitolato Dopo le elezioni: superare l’irrilevanza con una vera costituente comunista). Orbene, l'articolo si segnala per un approccio realistico all’analisi della situazione attuale delle forze comuniste, ma in esso vi è un punto piuttosto ambiguo là dove si afferma "la necessità di una revisione generale, di una condivisione strategica di fondo da costruire". Se questa tesi riguarda la tattica è corretta; se invece, visto che concerne la strategia, costituisce la premessa maggiore di un sillogismo da cui discende come conclusione una svolta in senso antileninista, allora essa è semplicemente inaccettabile. Incidentalmente, osservo che, se nella vittoria del 'sì' al recente referendum vi è un aspetto positivo, esso è la definitiva eliminazione di due tare, frutto dell'opportunismo socialdemocratico, che hanno storicamente condizionato la maggior parte della sinistra comunista: il cretinismo parlamentare e l'elettoralismo 'a prescindere'. Naturalmente non si tratta di negare l’importanza che assume, in una situazione non rivoluzionaria, la conquista del diritto di tribuna, ma di chiarire che è dall'area dell'astensione, che rappresenta più o meno la metà del corpo elettorale e dove si trovano i soggetti attualmente o potenzialmente antagonisti, che occorre ripartire nella costruzione (sia ben chiaro, non 'ricostruzione') del partito comunista.

Per quanto riguarda poi il ruolo del Fronte Comunista nel processo di costruzione del partito comunista quale emerge dalla sua denominazione, mi sembra opportuno precisare che nella tattica marxista-leninista sono stati storicamente elaborati, in relazione alle specifiche congiunture della lotta di classe e ai problemi di unità o di alleanza che in esse si ponevano, vari tipi di ‘fronti’.

Vanno quindi precisate le differenze tra il fronte unico, rappresentato dai partiti che si richiamano alla classe operaia (cfr. il III Congresso del Comintern nel 1921), il fronte popolare, estensione del fronte unico ai partiti che organizzano il ceto medio progressista e antifascista (cfr. il VII Congresso del Comintern nel 1935), e il fronte patriottico (o nazionale) che raggruppa tutte le forze politiche interessate a battersi per l’indipendenza nazionale. Da questo punto di vista, il concetto di “fronte comunista” sembra invece recare in sé il codice genetico dell’eclettismo: sotto sotto si direbbe che riappare l’idea profondamente errata che il partito sia il risultato del livello medio di coscienza raggiunto dalle masse, ma ciò significa negare nell’opportunismo codista i princìpi fondamentali del leninismo.

A questo proposito, vale la pena di rammentare che Lenin non si spaventò mai di essere in minoranza, convinto che sarebbero state la vita e la lotta a dimostrare chi avesse ragione.«Debolezza numerica? Quando mai i rivoluzionari hanno reso le loro politiche dipendenti dal fatto di essere maggioranza o minoranza?»,e aggiungeva:  «Non dobbiamo avere paura di restare in minoranza». Occorre pertanto ribadire, dal punto di vista teorico, che la costruzione del partito è un atto volontario di avanguardie rivoluzionarie. In altri termini, partendo da una corretta analisi dello scontro di classe, forti degli elementi essenziali di una strategia e di una tattica rivoluzionaria, che derivino dalla giusta applicazione dei princìpi del marxismo-leninismo alle situazioni concrete, e quindi in gran parte (ma non solamente) da un intervento continuo nelle lotte delle masse e nella lotta ideologica, sulla base di una omogeneità di analisi e di intervento, nuclei di avanguardia decidono di tradurre il loro effettivo orientamento comune in termini organizzativi, con tutte le implicazioni che questa scelta comporta (centralismo, disciplina ecc.).

Mi scuso con i compagni del Fronte Comunista per il taglio prevalentemente metodologico del mio intervento, in cui più che fornire il pesce ho cercato di mettere a punto la canna da pesca. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che la politica dei comunisti, quale che sia la fase del processo rivoluzionario in cui essi operano, deriva da precisi fondamenti teorici (e in questo consiste, come ebbe a rilevare Joseph Schumpeter, un grande economista borghese del Novecento, la nobiltà e la grandezza della teoria marxista e la sua differenza dal politicantismo borghese e piccolo-borghese).

Concludo dunque sottolineando i seguenti punti: a) la necessità di analizzare, nei processi di degenerazione del movimento operaio e comunista innescati dall’imperialismo, sia le differenze sia i peculiari intrecci tra l’opportunismo, il riformismo e il revisionismo; b) la necessità di una posizione intransigente nella lotta contro l'opportunismo, quale è affermata da Lenin: «La lotta contro l'imperialismo è una frase vuota e falsa se non è indissolubilmente legata alla lotta contro l'opportunismo»; c) l’imprescindibile criterio, che deve presiedere all’unificazione dei comunisti e che è insieme di metodo e di contenuto, per cui «prima di unirsi, e per unirsi, è necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e nettamente».

Infine, e concludo davvero, siccome il 28 novembre scorso cadeva il 200° anniversario della sua nascita, ritengo che di Friedrich Engels siano da meditare e da salvaguardare due insegnamenti politici che derivano rigorosamente dalla teoria del socialismo scientifico e di cui né la Spd né il Psi né il Pci post-1945 hanno tenuto il debito conto: I) la necessità delle delimitazione tattica delle alleanze (si pensi alla delimitazione rispetto alla socialdemocrazia, atto fondante di un nuovo movimento operaio con la creazione della Terza Internazionale); II) l’indipendenza del partito in quanto espressione organizzativa dell’autonomia teorica e politica del proletariato (l’obiettivo per cui Marx si era tenacemente battuto dentro la Prima Internazionale).


Per maggiori informazioni su tale formazione è possibile visitare il seguente sito: www.frontecomunista.it

Di seguito il collegamento al file del programma politico che è oggetto delle mie osservazioni: https://www.frontecomunista.it/programma-politico-2020/

Comments

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Eros Barone
Thursday, 04 February 2021 19:37
L’intervento del compagno Giulio Bonali arricchisce e approfondisce con la chiarezza espositiva e con l’onestà intellettuale che gli sono consuete la discussione che si sta svolgendo a ridosso del mio articolo sul programma politico del “Fronte Comunista”. La tesi che Bonali giunge a formulare, passando attraverso gli anelli intermedi di un’articolata problematizzazione, è, in sostanza, una variante della teoria che io ho denominato “teoria dell’ircocervo”. In parole povere, la Cina sarebbe un capitalismo senza borghesia (o con una borghesia non ancora pienamente in atto quale classe dirigente dello Stato), giacché il controllo, l’orientamento dell’attività produttiva e le principali scelte di politica economica sono esercitati dal partito comunista, i cui dirigenti non coincidono con le figure dei soggetti che si appropriano e detengono la ricchezza sociale in un contesto borghese-capitalistico di tipo tradizionale. Sennonché è molto importante formulare una corretta valutazione della natura socio-economica della Cina. In questo senso, è un dato di fatto che oggi in Cina prevalgono i rapporti di produzione capitalistici, il che trova conferma nei seguenti elementi che ho reperito consultando diverse fonti disponibili sulla Rete: 1) il PIL cinese è generato dal settore privato per oltre il 60%; 2) gli imprenditori cinesi più potenti hanno nelle loro mani settori strategicamente importanti, come il nucleare, l’aerospaziale, l’informatica, le telecomunicazioni e l’energia, e in alcuni di essi come la telefonia mobile, il 5G, i treni veloci, le costruzioni navali, i PC e i super computer, essi hanno raggiunto e, in diversi casi, superato per livelli produttivi e vendite i concorrenti americani; 3) la disoccupazione, che contraddistingue tutte le economie capitalistiche, è al 5,3% e l'obiettivo del governo è di rimanere al di sotto del 6%; inoltre, decine di milioni di immigrati interni, che sono occupati in lavori temporanei e possono rimanere anche per lungo tempo disoccupati, non vengono conteggiati nelle statistiche ufficiali, mentre possono raggiungere il 30% della forza-lavoro del paese; 4) la Cina è un membro attivo di tutte le organizzazioni capitalistiche internazionali, come l'Organizzazione mondiale del commercio e la Banca mondiale, ed è strettamente connessa all'economia capitalistica globale, come dimostra l’enorme quantità di obbligazioni statunitensi che si trova nelle sole mani cinesi (1,1 trilioni di dollari). Peraltro, la convergenza tra l'interesse statunitense a vendere le proprie obbligazioni alla Cina e l’interesse della Cina ad accedere al grande mercato statunitense in quanto principale sbocco di beni prodotti in Cina, va di pari passo con l'acuirsi del confronto tra le due potenze, che assume sempre più un carattere globale, poiché si manifesta simultaneamente in molte regioni del mondo e coinvolge in misura crescente altre organizzazioni e accordi internazionali. Ma questo dimostra che l'interdipendenza delle economie capitalistiche può andare di pari passo con l'intensificarsi delle contraddizioni inter-imperialiste. Dal canto loro, i sostenitori di parte comunista delle attuali politiche della Cina paragonano le riforme di Deng alla NEP, la politica economica applicata da Lenin nell’URSS dopo il primo conflitto mondiale e la guerra civile. Questo paragone, però, è, a mio avviso, fuorviante perché, mentre la NEP prevedeva limitate concessioni al capitalismo perseguendo l’obiettivo immediato di risollevare l’industria nazionale devastata dalla guerra, mirava ad accumulare le forze necessarie per un balzo in avanti verso il socialismo e – particolare, questo, non marginale – fu attuata nel quadro della dittatura del proletariato tenendo, per così dire, il fucile puntato sulla testa degli imprenditori, in Cina il socialismo di mercato è venuto configurandosi come un processo (e forse anche un progetto) di transizione dal socialismo al capitalismo vero e proprio: processo che ha comportato la restaurazione dei rapporti di produzione tipici del modo di produzione capitalistico. Come osserva giustamente Bonali, gli attuali dirigenti cinesi “agitano continuamente il concetto antimarxista di una pretesa ‘armonia di ascendenza più o meno confuciana’ fra i vari fattori di produzione presenti in Cina (e cioè fra i grandi capitalisti e i proletari da loro sfruttati, nonché i lavoratori delle imprese statali e cooperative)”. Altrettanto dicasi per l’applicazione del binomio leniniano “soviet + elettrificazione” al caso cinese, tesi invero ardita sostenuta da Rontini e da Galati, ai quali si potrebbe obbiettare ciò che un sofista obbiettava a Socrate: “Io vedo il cavallo (= il capitalismo), ma non la cavallinità (= i soviet)”. Tornando sul terreno della realtà concreta, è pertanto inevitabile che queste due potenze, Stati Uniti e Cina, le quali sono di gran lunga le economie più forti del mondo, siano in competizione tra di loro per la supremazia: una competizione che ha una solida base, dato che il confronto investe molteplici campi e nell'ultimo periodo si è manifestato in una serie di aspre guerre commerciali tra le due potenze. Naturalmente tutto ciò si ripercuote sul piano politico, diplomatico e militare. È significativo che gli Usa abbiano incolpato la Cina per la pandemia di coronavirus, per la violazione dei brevetti tecnologici, per il suo “espansionismo”, per la violazione dei "diritti democratici" ecc., mentre la Cina, stipulando accordi economici e commerciali a 360 gradi, cerca di erodere il tradizionale sistema delle alleanze statunitensi. Concludo quindi ribadendo che i comunisti non possono parteggiare per nessuno dei paesi imperialisti che oggi si contendono sfere di influenza, mercati, forza-lavoro e materie prime, ma debbono lavorare per costruire un campo autonomo e indipendente tanto a livello internazionale quanto nei singoli paesi, partendo da tre princìpi fondamentali: a) non esistono più Stati-guida nel contesto dell’imperialismo mondiale; b) i paesi che si sono, in tutto o in parte, liberati dallo sfruttamento capitalistico, quali la Corea del Nord e Cuba, vanno valorizzati e sostenuti; c) per ciascun partito comunista il nemico da combattere è nel proprio paese.
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Fabio Rontini
Friday, 05 February 2021 22:48
Se un sofista non vuole vedere la cavallinità sarà difficile che Socrate riesca a convincerlo, anche se il sistema politico cinese è rimasto sostanzialmente immutato dall'epoca di Mao ad oggi.
Ma anche ammettendo (senza concedere) che la Cina sia capitalista rimarrebbe comunque palese l'assurdità di un programma che si propone di valorizzare e sostenere Nord Corea e Cuba e allo stesso tempo di mantenere un'impossibile equidistanza tra un paese che li appoggia e li sostiene (diplomaticamente ed economicamente) e uno che li combatte e li affama.
Tra un paese che ha nel marxismo la sua ideologia di stato e ne promuove la conoscenza e la diffusione e uno che si è fatto fucina di tutte le ideologie anticomuniste possibibili.
Tra uno che valorizza e difende la storia del comunismo e le sue conquiste e uno che promuove il revisionismo storico in ogni sua forma.
Tra un paese le cui aggressioni militari ai paesi vicini sono al massimo solo ipotizzabili o prevedibili e un altro che ha una storia secolare di stermini di massa e di stragi di ogni tipo.
Tra un paese che aggredisce e sottomette il resto del mondo e uno difende (insieme alla Russia) la propria indipendenza e quella degli altri.
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Fabio Rontini
Wednesday, 03 February 2021 22:33
Il punto non è se in Cina vi sia o meno un modo di produzione capitalistico e quanto esso sia esteso.

Il punto è se la pratica di governo (piani quinquennali) e la forma statuale (assemblee popolari e partito unico comunista) corrisponda o meno al concetto di "dittatura del proletariato".

Per Barone sembra che il fatto che in Cina vi siano ancora i soviet piuttosto che un parlamento borghese non faccia la minima differenza.

Eppure fu Lenin ad affermare che "Il socialismo è il potere sovietico più l'elettrificazione di tutto il paese." NON il socialismo è l'uguaglianza del reddito, lo stato sociale o la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. I soviet e l'elettrificazione!

Per questo la tesi di Barone secondo cui la natura socialista o meno di un paese discenderebbe direttamente dai rapporti di produzione in essa vigenti è un travisamento del pensiero di Lenin.
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Mario Galati
Thursday, 04 February 2021 15:06
Ho seguito la discussione e non mi sembrava opportuno interferire con lo sviluppo che le stavano conferendo i partecipanti. Neppure quando mi era sorto un rilievo analogo a quello di Rontini sulla "macchina statale" cinese. Stimolato da Rontini, però, adesso lo esplicito.
In effetti, volendo essere conseguenti nel ragionamento seguito da Eros Barone, se l'organizzazione statale cinese non può essere altro che la necessaria sovrastruttura della "società civile" capitalistica imperialista che lo presuppone, in uno stretto e diretto rapporto di funzionalità, e se questa organizzazione statale non è la "normale" organizzazione democratica parlamentare del capitalismo, ma una variante autoritaria dittatoriale con al centro un partito unico (quindi una struttura autoritaria al servizio dell'imperialismo, sinora soltanto latente quanto alle sue manifestazioni aggressive militari), senza liberi sindacati, ecc., allora possiamo concludere che la Cina è uno stato fascista e il suo partito comunista è un partito fascista.
Mi sembra che un percorso e una conclusione del genere, presupponendo e partendo da una posizione di sinistra di classe e marxista, finirebbe poi per convergere curiosamente con posizioni di tipo liberaldemocratico che, partendo da presupposti liberali, sono già effettivamente pervenute a questa conclusione.
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Giulio Bonali
Tuesday, 02 February 2021 19:07
Vorrei intervenire in questo interessantissima discussione, anche a costo di sfidare il ridicolo per gli evidenti limiti delle mie conoscenze rispetto gli altri compagni partecipanti, perché la questione mi interessa troppo e vorrei cercare di capire.
Per parte mia concordo convintamente con Eros Barone che nella Cina “da Deng in poi” é stato restaurato il capitalismo.
E constato che si tratta di un capitalismo in rapido, impressionante sviluppo.
Infatti penso che la verissima considerazione materialistica storica per la quale in sostanza da tempo i rapporti di produzione capitalistici sono oggettivamente di gran lunga superati, a livello complessivo mondiale, dallo sviluppo delle forze produttive non vada declinata semplicisticamente in senso deterministico; e cioè ignorando il carattere eminentemente ineguale dello sviluppo capitalistico stesso, nonché gli elementi almeno in parte irriducibilmente aleatori e imprevedibili dello sviluppo storico in generale, che non può essere “perfettamente” descritto nè men che meno previsto e calcolato con geometrica precisione nei suoi molteplici aspetti particolari concreti, ma solo nelle sue tendenze generali astratte (non ricordo il luogo, ma mi pare che in particolare lo affermasse convintamente anche Gramsci, credo nella sua critica al manuale di Bucharin e Preobrazenskij). E in particolare non si può pretendere, a costo di adattare i fatti alle credenze circa i fatti alla maniera degli aristotelici che si opponevano a Galileo, che oggi sempre e comunque il capitalismo debba essere in crisi permanente, in tutto e per tutto assolutamente incapace di sviluppare le forze produttive, per quanto inevitabilmente in maniere “distorte” e contraddittorie (cosicchè lo spettacolare sviluppo economico “quantitativo” cinese, comunque non certo esente da contraddizioni, “dimostrerebbe per assurdo” la natura socialista di quel grande paese).
Concordo in particolare che “la classe dirigente denghista, perseguendo un indirizzo neobuchariniano all’insegna dell’“enrichissez-vous”, ha sì promosso l’espansione del capitalismo privato come modo di produzione dominante e ne ha fatto il motore della crescita economica nazionale e internazionale, ma nel contempo non ha ancora accompagnato tale espansione con le relative guerre di aggressione in termini di spartizione delle sfere di influenza, di conquista dei mercati e di accaparramento della forza-lavoro e delle materie prime” in quanto si tratta di un imperialismo ancora relativamente debole sul piano militare e dei rapporti internazionali più in generale (ma si sta armando rapidamente, ha già aperto una base militare “quasi all’ altro capo del mondo” -a Gibuti- e soprattutto esporta capitale “alla grande”; credo almeno in misura ampiamente preponderante statale, ma non saprei dire con certezza, anche ammesso che la distinzione sia dirimente in proposito. In Africa e non solo; per esempio ha acquistato il porto del Pireo ove sottopone i portuali greci a uno sfruttamento particolarmente pesante, reprime duramente il sindacato di classe e promuove un sindacato giallo; e siamo solo all’ inizio della realizzazione del progetto della “nuova via della seta”...).

A parte le impressionanti “proporzioni quantitative” dei mezzi di produzione capitalistici privati (sostanzialmente monopolistici, nazionali e stranieri) oggi presenti e operanti in Cina, credo soprattutto che un’ assimilazione di quanto vi sta accadendo con la NEP non sia proponibile soprattutto tenendo conto dei rapporti politici, oltre che economici in atto e della lotta di classe che vi si svolge.
Infatti per Lenin la NEP era una sorta di ritirata strategica, un doloroso passo in dietro nella realizzazione del socialismo in una fase di oggettiva debolezza nella lotta di classe; una sorta di ripiegamento ordinato necessario per evitare rotte ben più rovinose e per preparare il terreno per nuove autentiche avanzate verso il socialismo. E dunque imponeva di continuare sul terreno politico con ancor maggiore vigore e determinazione la lotta di classe e la repressione contro la borghesia capitalistica cui si era costretti a fare pesanti concessioni sul terreno economico.
Invece per i dirigenti cinesi il loro “socialismo di mercato” o “socialismo con caratteristiche cinesi” costituirebbe un avanzamento, sia pure a partire da condizioni molto arretrate, verso il comunismo pienamente realizzato; e infatti di lotta di classe non parlano quasi più (e nei rari casi in cui o fanno si direbbe lo facciano in modo quasi rituale e comunque astratto, non riferendosi alle concrete vicende politiche in atto); al contrario agitano continuamente il concetto antimarxista di una pretesa “armonia di ascendenza più o meno confuciana” fra i vari fattori di produzione presenti in Cina (e cioé fra i grandi capitalisti e i proletari da loro sfruttati, nonché i lavoratori delle imprese statali e cooperative).
E infatti, mentre il X Congresso del partito Bolscevico del 1921, lo stesso che “lanciò la NEP”, proibì le frazioni organizzate per limitare ulteriormente qualsiasi anche remota possibilità per la borghesia capitalistica, cui si era costretti a fare pesanti concessioni sul terreno economico, di aprirsi spazi di azione sul terreno del potere politico. E invece non ricordo più se il penultimo o il terz’ ultimo congresso del Partito Comunista Cinese -non l’ ultimo- ha aperto agli imprenditori capitalistici la possibilità di iscriversi al partito stesso e dunque di agirvi politicamente e lottarvi per promuovere i loro interessi di classe.
Rispetto alla NEP, a mio modesto parere, si tratta quasi dell’ esatto contrario.

E’ tuttavia innegabile che la restaurazione capitalistica nella Cina odierna quantomeno presenta caratteristiche molto diverse da quella, decisamente disastrosa, verificatasi in Unione Sovietica e nei paesi a sovranità limitata da parte dell’ URSS stessa, ad opera di Gorby, Eltsin e compari.
Contrariamente a varie e diffuse interpretazioni “classiste” dell’ esperienza sovietica che ne negano la natura effettivamente socialista, almeno per alcuni decenni e sia pure caratterizzata da seri limiti e difetti, sono convinto che nel caso di quei processi controrivoluzionari di fine XX secolo, per lo meno in Unione Sovietica, si partiva da decenni di soppressione praticamente integrale e completa della proprietà privata capitalistica dei mezzi di produzione. Sono convinto che allora non esistessero autentici “nemici di classe interni al paese”, se non in senso meramente potenziale, come pure e semplici aspirazioni soggettive coltivate da determinati strati sociali relativamente privilegiati ma non costituenti una classe di capitalisti realmente esistente in atto all’ interno del paese; e che la restaurazione capitalistica sia stata realizzata da questi settori sociali limitatamente privilegiati ma non (non ancora) proprietari privati dei mezzi di produzione grazie anche alla forza economica e militare del capitalismo occidentale e dal consenso, e dall’ attrazione egemonica che il capitalismo occidentale tendeva ad esercitare sempre più pervasivamente soprattutto -ma forse non solo- su tali ceti privilegiati ma non borghesi in atto.
Penso cioé che questi gruppi sociali dapprima relativamente, molto limitatamente privilegiati, solo attraverso un processo controrivoluzionario siano riusciti a conquistarsi privilegi ben più sostanziosi in un vero e proprio “salto qualitativo”, cioé privilegi autenticamente di tipo classistico; essi erano costituiti dai dirigenti politici del Partito e dello Stato, per lo meno nella loro stragrande maggioranza, che infatti si sono trasformati quasi di punto in bianco in proprietari capitalistici unitamente e parallelamente ad altri gruppi sociali operanti nell’ illegalità sia pure più o meno tollerata nell’ ultima fase di esistenza dell’ URSS, dando vita a quella infame congrega che é comunemente detta “degli oligarchi russi” (tralascio per brevità le importantissime e interessanti considerazioni che sarebbe necessario fare circa i gravi limiti e gli errori soggettivi delle componenti “sane” del PCUS che soprattutto dopo la morte di Stalin consentirono: da una parte la sempre maggiore penetrazione nel partito stesso e la progressiva conquista nel suo ambito di posizioni dirigenziali e di potere da parte delle espressioni politiche di quei ceti relativamente privilegiati potenzialmente costituenti una nuova borghesia capitalistica autoctona che operando in crescente combutta con quella -attualissima- imperialistica straniera -quella vecchia ed espropriata dalla rivoluzione essendo ormai da tempo defunta come classe- hanno finito per prendere il potere e compiere la controrivoluzione; e dall’ altra quella evidente progressiva passivizzazione e perdita di coscienza di classe e socialista da parte delle masse lavoratrici che impedì di sconfiggere di evitare tale restaurazione controrivoluzionaria decisamente disastrosa, per loro e per l’ intero proletariato mondiale).
Invece, per quel poco che mi pare di conoscere e di capire, in Cina all’ epoca della svolta denghista ancora esisteva una piccola proprietà privata, sostanzialmente artigianale dei mezzi di produzione, ed é ai detentori di questa piccola proprietà privata, e soprattutto a commercianti e imprenditori privati cinesi in esilio all’ estero nonché alle grandi imprese capitalistiche straniere, che il Partito Comunista Cinese ha offerto la possibilità di trasformarsi in una fiorente classe capitalistica operante in quel grande paese. E questo é avvenuto attraverso privatizzazioni per così dire “oculate”, ben diverse dalle svendite o meglio dai saccheggi e dagli accaparramenti selvaggi perpetrati nella Russia di Gorbaciov e soprattutto di Eltsin; oltre che, e probabilmente in molto maggior misura da quel che mi pare di capire, attraverso investimenti diretti di capitale di già in possesso di questa borghesia capitalistica, soprattutto straniera o comunque residente all’ estero.
E infatti, salvo limitati casi di corruzione o comunque di violazione della legalità peraltro sottoposti a severissime, draconiane punizioni esemplari quando scoperti, i dirigenti politici del Partito e dello Stato cinese, almeno per ora, non si sono trasformati in qualcosa di simile agli “oligarchi” russi, cioé non sono diventati grandi capitalisti ampiamente dediti alla speculazione finanziaria (e non di rado a pratiche illegali e mafiose), ma si sono per così dire “accontentati” di godere di privilegi economici non propriamente classisti, fra l’ altro almeno in qualche misura giustificabili in quanto autorità politiche, oltre che dei privilegi e del prestigio sociale che dalla semplice detenzione del potere politico ovviamente conseguono.
A mio modesto parere, per dirlo in termini forse un po’ moralistici, si direbbe che la restaurazione capitalistica (per quanto ideologicamente mistificata come “socialismo di mercato” o “con caratteristiche cinesi”) sia stata realizzata dai dirigenti del PCC non per lo scopo gretto e meschino di accaparrarsi spropositate ricchezze e privilegi economici di tipo classistico, contrariamente a quanto accaduto in URSS, non per emulare gli “oligarchi russi”, ma invece allo scopo almeno all’ apparenza ben più rispettabile di promuovere in quel grande paese uno sviluppo economico quantitativo per cos’ dire, cioé di favorire in Cina un adeguato sviluppo delle forze produttive; forze produttive che loro (cioé i dirigenti del partito al potere) ritenevano oggettivamente insufficienti per la conservazione e per il progresso e il perfezionamento di rapporti di produzione socialisti, e che a torto o a ragione hanno considerato si potessero adeguatamente sviluppare solo mediante la restaurazione di una condizione di dominio di rapporti di produzione capitalistici.
Ritenendo peraltro giustamente che questo sviluppo economico considerato necessario ed auspicato (ed effettivamente, almeno per molti versi in corso di strepitosa realizzazione) fosse possibile con una restaurazione di assetti sociali capitalistici che fosse però affiancata da almeno due ineludibili conditiones sine qua non, senza le quali la storia ampiamente dimostra che economie privatistiche scarsamente sviluppate non possono affatto essere considerate in alcun modo “in via di sviluppo” come pure spesso ipocritamente si dice, ma inesorabilmente imboccano la via di un’ ulteriore, ingravescente sottosviluppo.
E queste due condizioni sono lo sganciamento dal sistema economico imperialistico dominante a livello mondiale, anche attraverso misure più o meno marcatamente protezionistiche per lo meno in una fase iniziale di inevitabile debolezza, e inoltre la regolamentazione statalistica centrale degli “spiriti animali” del capitalismo per così dire; spiriti animali, o più letteralmente oggettive tendenze operative spontanee del capitalismo che comnportano anche effetti fortemente autodistruttivi, e che comprendono forti tendenze a promuovere uno sviluppo decisamente ineguale e squilibrato e limitato alle aree geografiche (interne e internazionali) nonché alle imprese e ai settori produttivi di già “favoriti in partenza”, se non addirittura monopolistici; nonché ad investire piuttosto nella speculazione finanziaria che nell’ accrescimento e miglioramento della produzione di beni e servizi.

Forse si potrebbero paragonare le condizioni oggettive di sviluppo delle forze produttive della Cina della svolta denghista a quelle della Russia del 1917 piuttosto che a quelle dell’ URSS degli ultimi anni ’80.
Nel 1917, di fronte ai seri limiti nello sviluppo industriale russo, i Menscevichi proponevano di limitarsi ad appoggiare passivamente la rivoluzione democratica borghese nella speranza illusoria che la borghesia capitalistica russa avrebbe sviluppato le forze produttive fino a consentire un futuro passaggio al socialismo (mi scuso per queste banalizzazioni di questioni storiche colossali: sto solo cercando faticosamente di capire; e può anche darsi che stia sparando delle gran cazzate)
Invece i Bolscevichi, secondo me, giustamente colsero la possibilità di conquistare il potere e di iniziare a realizzare il socialismo malgrado la relativa arretratezza russa; e questo sia perchè confidavano in una rapida vittoria della rivoluzione anche nei ben più sviluppati paesi occidentali, sia perché relativamente a questi ultimi il sottosviluppo russo era probabilmente molto meno accentuato di quanto non lo fosse quello della Cina alla fine degli anni ’70 rispetto al capitalismo di allora.
E ci riuscirono, malgrado le sconfitte dei peraltro limitati, non generalizzati, tentativi rivoluzionari in occidente e sia pure attraverso vicende altamente drammatiche e al prezzo di notevoli difficoltà e sofferenze per le masse lavoratici dell’ Unione Sovietica, che senza retorica credo possono essere definite autenticamente “eroiche”.

Ora, non per fare oziosamente una storia immaginaria a base si “se” e di “ma” ma per cercare appunto di capire, mi chiedo: se -paradossalmente- avessero saputo che la rivoluzione non avrebbe vinto in occidente, e se i limiti nello sviluppo delle forze produttive in Russia fossero stati ancora più pesanti, i Bolscevichi avrebbero comunque preso il potere con lo scopo non di realizzare trasformazioni rivoluzionarie, socialiste ma più modestamente di dirigere e cercare in qualche modo di “controllare” ,come avanguardia del proletariato, quello sviluppo economico capitalistico che la debolissima borghesia capitalistica russa non sarebbe stata in grado di realizzare “in prima persona” contrariamente a quanto pretendeva la volgare e semplicistica deformazione del marxismo in senso deteriormente deterministico che era proprio dei menscevichi?
Che é come chiedersi: la restaurazione in Cina del capitalismo da parte di un Partito al potere i cui dirigenti almeno finora non si sono riciclati come imprenditori, salvo forse casi decisamente eccezionali, e che -ma non ho certezze in proposito, solo dubbi- cerca comunque in ogni modo di impedire l’ accesso al potere politico della economicamente sempre più fiorente classe degli sfruttatori é forse comunque una scelta giusta e corretta per dei comunisti?
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Eros Barone
Saturday, 30 January 2021 23:42
Lenin ha insegnato che la natura imperialista di uno Stato non dipende dal ruolo di aggressore o di aggredito che esso svolge in determinate congiunture internazionali, ma dai rapporti di produzione che caratterizzano tale Stato. Temo che, a proposito della natura sociale della Cina, non sussistano dubbi, quanto meno nell’àmbito del movimento marxista-leninista internazionale, sulla natura di questo paese, fatte salve le forme peculiari e differenziate in cui essa si esprime e si articola. Tuttavia, anche ammesso e non concesso che la natura della Cina sia socialista, è un principio ormai provato, alla luce dell’esperienza storica del proletariato mondiale, che gli elementi della politica estera di uno Stato socialista non vanno in alcun modo teorizzati o ideologizzati, sì da trasformarli in aspetti della strategia del movimento comunista internazionale e degli stessi partiti comunisti operanti nei paesi capitalisti. La verità è che, sia che si tratti dell'URSS quando ancora esisteva sia che si tratti dei partiti comunisti operanti nei paesi capitalisti, in entrambi i casi una simile identificazione indebolisce la linea strategica e le possibilità di azione del movimento comunista in ogni paese capitalista. Per valutare oggettivamente i rapporti di forza è quindi necessario non sottovalutare mai il carattere strutturalmente aggressivo del potere capitalistico, a prescindere dalla forma statale che assume e dalle sue specifiche qualificazioni ideologiche. Ad esempio, la “guerra fredda” e gli interventi militari degli Stati Uniti in Corea e in Medio Oriente, la costituzione della NATO e in seguito la guerra imperialista contro il Vietnam, hanno rivelato ben presto il vero volto dell’imperialismo americano, la cui aggressività e pericolosità sono pari, se non superiori, a quelle dispiegate dalla Germania nazista. In conclusione, i comunisti non possono parteggiare per nessuno dei paesi imperialisti che oggi si contendono sfere di influenza, mercati, forza-lavoro e materie prime, ma debbono lavorare per costruire un campo autonomo e indipendente tanto a livello internazionale quanto nei singoli paesi, partendo da tre princìpi fondamentali: a) non esistono più Stati-guida nel contesto dell’imperialismo mondiale; b) i paesi che si sono, in tutto o in parte, liberati dallo sfruttamento capitalistico, quali la Corea del Nord e Cuba, vanno valorizzati e sostenuti; c) per ciascun partito comunista il nemico da combattere è nel proprio paese.
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Fabio Rontini
Sunday, 31 January 2021 11:50
Ringrazio Barone per avermi offerto, con la sua risposta, la possibilità di esporre approfonditamente la mia opinione su un argomento di così grande rilevanza.
Mi sembra che l’interpretazione della lezione di Lenin come derivazione necessaria della natura, imperialista o meno, di una determinata formazione sociale dalla sola struttura economica, sia parziale e quindi, in definitiva, non veritiera. Al contrario, la scoperta della fase imperialistica del capitalismo contemporaneo (formazione dei monopoli, esportazione dei capitali ecc.), deve essere collegata all’analisi dello stato (borghese) come strumento nelle mani della borghesia monopolistica, la quale lo utilizza per perseguire i propri obiettivi (di profitto e di espropriazione del proletariato internazionale).
Resta inteso però, per Lenin, che lo stato può essere borghese ma può anche non esserlo, in quanto essendo una “macchina” che in qualche misura si autonomizza dalla borghesia stessa, può essere conquistato dal proletariato e ricostruito per servire i propri interessi a lungo termine di emancipazione e liberazione dal capitalismo (a livello globale). E proprio in questo sta il significato della rivoluzione, e quindi del socialismo, nella fase imperialistica: il proletariato, che rimane ancora tale, e quindi sottomesso alla borghesia nella sfera economica, diventa, tuttavia, egemone nella sfera politica.
In altre parole uno stato è imperialista SE la sua struttura economica ha raggiunto un determinato grado di sviluppo capitalistico, E SE l’apparato statale non è nient’altro che lo strumento degli interessi della sua borghesia monopolistica. Ed è questa la domanda fondamentale, l’unica veramente decisiva, per stabilire se la RPC sia un paese Socialista oppure Imperialista (escludo la categoria di Social-imperialismo che trovo fuorviante): non tanto se esiste una forte o fortissima polarizzazione borghesia-proletariato ovvero un intenso o intensissimo sfruttamento della prima sul secondo, quanto se l’apparato statale di quella nazione e le sue istituzioni siano o meno espressione degli interessi della prima o del secondo.
Ma queste cose Barone le sa, e molto meglio del sottoscritto. E allora, se di fronte al comportamento indubitabilmente pacifico, internazionalista, solidale, progressista di quella nazione, come egli stesso ammette, continua a ritenere che essa sia capitalista-imperialista (provocando una scissione cognitiva che lo porta a formulare la curiosa, e inaccettabile, teoria dell’”ircocervo”, secondo la quale la Cina o non è totalmente socialista né capitalista, oppure non vi sono informazioni sufficienti per stabilire con certezza che sia l’una o l’altra di queste cose), ciò è dovuto probabilmente (parlo di lui ma mi riferisco, ovviamente, ad una vasta area di marxisti-leninisti che condividono il suo giudizio) ad un attaccamento ad una precedente valutazione di quel paese basata su una falsa analogia storica, che andrò, adesso, ad esporre.
Sul finire degli anni ’70 in Cina, con la vittoria della fazione denghista del PCC e la liquidazione di quella maoista, si è verificata la vittoria della “linea nera” revisionista, espressione degli interessi della borghesia all’interno del partito, e la sconfitta di quella “rossa”, espressione del proletariato, analogamente a quanto avvenne in Unione Sovietica, verso la metà degli anni ’50, con la salita al potere di Krusciev e la messa in minoranza della fazione leninista fedele a Stalin.
Questa analogia, bisogna subito sottolineare, fu utilizzata da Mao Zedong durante la fase della Rivoluzione Culturale per contrastare la fazione (via via sempre più maggioritaria) del Partito Comunista Cinese che a lui si contrapponeva. Ovvero il giudizio sull’attuale dirigenza cinese, fin dagli anni ’80, come revisionista e opportunista, implica l’accettazione (acritica, come vedremo) della teoria di Mao (non direttamente deducibile dal leninismo), il quale era parte in causa nella contesa interna al partito, e che interpretava sé stesso, e i suoi fedeli, come “linea rossa”, autentica espressione dei veri interessi di lungo periodo del proletariato cinese.
Ma questa teoria, se analizzata attentamente, non regge per almeno due motivi fondamentali: a dispetto delle accuse di revisionismo che le vengono mosse l’attuale dirigenza cinese essa non ha mai messo in discussione, né in teoria né in pratica, i capisaldi del leninismo. Infatti Kruscev (oppure Togliatti) cedettero sul versante politico, arrivando a sostenere che un paese può arrivare al socialismo anche per via parlamentare. Se si legge “Viva il leninismo” oppure “Sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi” si vedrà che le critiche e le (giuste) accuse di revisionismo/opportunismo che il PCC rivolgeva al PCI e al PCUS non vertevano sul versante economico (troppo mercato/liberalizzazioni ecc.), bensì tutte sul versante politico (sottovalutazione della questione del controllo degli apparati statali). Ma di questa sottovalutazione dell’aspetto politico non vi è traccia nell’ attuale dirigenza cinese.
In secondo luogo bisogna sottolineare che né Lenin, né lo stesso Mao hanno mai escluso che in un paese socialista (dove appunto lo stato persegue in modo prevalente gli interessi del proletariato) ci potesse essere una economia di mercato, ovvero un modo di produzione capitalistico, nella misura in cui essa risulta compatibile e utile agli scopi che il paese si prefigge, e nella consapevolezza che ciò comporta il rischio della restaurazione del capitalismo nel paese.
Dunque dobbiamo cominciare a prendere in considerazione l’ipotesi che Mao, nell’ultima parte del suo operato, si stesse semplicemente sbagliando (usando una buffa, eppure efficace, espressione dei dirigenti cinesi attuali, “70% bene, 30% male”), e la sua cricca, lungi dall’essere espressione della “linea rossa” all’interno del partito, non fosse invece che uno dei tanti esempi di “estremismo infantile” ultrasinistro, laddove i suoi rivali, come gli sviluppi attuali della lotta di classe a livello globale tendono a confermare, fossero invece gli interpreti migliori degli interessi oggettivi di lungo periodo del proletariato internazionale.
Un errore su questo punto comporta delle drammatiche conseguenze sulla linea politica che un partito comunista, intenzionato ad incidere nei processi in corso nel mondo di oggi, dovrebbe tenere.
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Eros Barone
Sunday, 31 January 2021 23:17
Anch’io ringrazio Rontini per i suoi interventi. Le questioni che stanno al centro della discussione e delle reciproche divergenze sono due e sono l’una strettamente intrecciata all’altra: la funzione e il carattere dello Stato borghese e la natura sociale della Cina. Orbene, Rontini sostiene che “la fase imperialistica del capitalismo contemporaneo (formazione dei monopoli, esportazione dei capitali ecc.) deve essere collegata all’analisi dello stato (borghese) come strumento nelle mani della borghesia monopolistica, la quale lo utilizza per perseguire i propri obiettivi (di profitto e di espropriazione del proletariato internazionale)”. Sennonché, come risulta evidente anche dal punto di vista testuale, una posizione del genere rientra nel novero delle concezioni strumentalistiche e soggettivistiche dello Stato borghese proprie del moderno revisionismo, in quanto, scindendo la macchina burocratica e repressiva dello Stato dal potere politico della classe sociale che ne detiene il controllo e la direzione, finisce col disconoscere, per un verso, il ruolo complessivo (potere politico + apparati) che lo Stato svolge quale fattore di coesione della formazione economico-sociale capitalistica nella riproduzione di quest’ultima e, quindi, nella riproduzione dei correlativi rapporti di produzione, e, per un altro verso, promuove un’interpretazione della conquista del potere politico adiafora rispetto alla imprescindibile istanza marxiana e leniniana della rottura della macchina burocratica e repressiva dello Stato e della contestuale creazione di uno Stato proletario alternativo a quello borghese-capitalistico. In realtà, a partire dalla funzione mediatrice attribuita da Lassalle allo Stato bismarckiano, passando attraverso il collaborazionismo della socialdemocrazia tedesca, per giungere alla “stanza dei bottoni” di nenniana memoria e allo Stato costituzionale della togliattiana “società intermedia”, non esiste alcuna "neutralità" di classe dello Stato borghese e delle sue istituzioni. Il marxismo-leninismo ha dimostrato che lo Stato ha un contenuto di classe chiaro, che non può essere utilizzato a favore della classe operaia e del cambiamento sociale attraverso processi elettorali e soluzioni governative borghesi. In altri termini, finché il potere è nelle mani della borghesia lo Stato (con un settore statale più forte o più debole) sarà sempre borghese e la classe dominante svolgerà in esso la funzione di "capitalista collettivo", ossia una funzione antagonistica rispetto al proletariato e mediatrice rispetto alle diverse frazioni della borghesia (industriale, agraria, commerciale, finanziaria, piccola e media) e di alcuni settori dello stesso proletariato (aristocrazia operaia e strati salariati non produttori di valore). Non è dunque possibile – lo ripeto - giudicare uno Stato, quale che esso sia, e la posizione dei comunisti rispetto ad esso esclusivamente in virtù del modo come tale Stato si definisce e si rappresenta, cioè sulla base della denominazione. Viceversa, da un punto di vista marxista il criterio fondamentale non può non riguardare l’individuazione della classe che possiede i mezzi di produzione e detiene il potere politico. Che tipo di rapporti di produzione predominano in uno specifico paese? È questa la domanda a cui occorre rispondere per definire la natura sociale della Cina e credo, allo stato attuale, che vi siano pochi dubbi sulla risposta che un marxista può fornire a tale domanda. In questo senso, la “scissione cognitiva” che Rontini mi rimprovera in riferimento alla definizione di “ircocervo” da me attribuita alla formazione economico-sociale cinese è ìnsita ‘in rebus ipsis’, poiché la classe dirigente denghista, perseguendo un indirizzo neobuchariniano all’insegna dell’“enrichissez-vous”, ha sì promosso l’espansione del capitalismo privato come modo di produzione dominante e ne ha fatto il motore della crescita economica nazionale e internazionale, ma nel contempo non ha ancora accompagnato tale espansione con le relative guerre di aggressione in termini di spartizione delle sfere di influenza, di conquista dei mercati e di accaparramento della forza-lavoro e delle materie prime. Così, se è vero che la Cina è pervenuta ad un grado ormai avanzato di sviluppo del capitalismo, non solo raggiungendo ma anche, in taluni settori produttivi, superando il capitalismo americano, è altrettanto vero che il suo ‘modus operandi’ nelle relazioni internazionali è stato finora diverso da quello proprio degli Stati capitalistici euro-americani. D'altra parte, non è difficile prevedere che la necessità di assicurarsi il controllo delle risorse strategiche e dei mercati di sbocco, necessità comune sia alla Cina e ad altre potenze emergenti (India, Indonesia, Brasile ecc.) sia agli imperialismi tradizionali, sfocerà prima o poi in un conflitto militare. A questo punto, però, per comprendere la natura peculiare del neorevisionismo cinese è indispensabile un rapido ‘excursus’ di ordine storico. In séguito al XX Congresso del PCUS (1956), il Partito Comunista Cinese, sotto la guida di Mao Zedong, criticò, coerentemente con la teoria marxista-leninista, il revisionismo kruscioviano, definendolo revisionismo moderno per distinguerlo dal revisionismo bernsteiniano-kautskiano. Accadde così che, subito dopo la morte di Mao nel 1976, un nuovo tipo di revisionismo si manifestò in Cina come conseguenza della presa del potere da parte dell’ala destra del PCC che faceva capo a Deng Xiaoping, la quale procedette alla liquidazione della cosiddetta Banda dei Quattro, un gruppo di dirigenti del Partito che aveva avuto un ruolo importante nella Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Contrariamente a quanto era avvenuto in Unione Sovietica, in cui la figura di Stalin fu criminalizzata, il revisionismo denghista, che potrebbe essere definito come neorevisionismo, non attaccò mai apertamente Mao, ma continuò a celebrarlo e a rivendicare fino ai nostri giorni una continuità, peraltro del tutto inesistente, con la sua politica. A questo proposito, desidero osservare che definire Mao un estremista, come fa Rontini, è del tutto scorretto, poiché Mao, il quale ha sempre condotto una lotta su due fronti contro l’opportunismo di destra e di sinistra, fu semmai un centrista. Tornando a Deng, questi elaborò la teoria del socialismo di mercato, una soluzione strategica di media o lunga durata, in attesa di un non meglio definito ritorno al socialismo. Sennonché, come oggi è possibile constatare, il “socialismo di mercato” cinese ha segnato la transizione dal socialismo al capitalismo vero e proprio, con la crescente espansione dei correlativi rapporti di produzione. In conclusione, ritengo che sia profondamente sbagliato scegliere di appoggiarsi su di una superpotenza per combattere l’altra, allearsi con gli Stati Uniti in nome della “sicurezza” o con la Cina sotto la falsa bandiera del “socialismo di mercato”, come predicano i neorevisionisti del PCI e di “Marx XXI”. Una simile scelta infatti non rafforza ma danneggia la causa del proletariato mondiale. I comunisti e il movimento operaio non hanno oggi che un'arma da contrapporre all’imperialismo: la teoria e la prassi del marxismo-leninismo, di cui la solidarietà proletaria internazionalista è parte integrante e decisiva.
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Fabio Rontini
Friday, 29 January 2021 22:37
"Tra la Cina e Cuba esiste una piena coincidenza di obettivi. Siamo due paesi socialisti impegnati a perfezionare i rispettvi sistemi mediante l'applicazione di misure basate sulle caratteristiche e le specificità di ciascuno. Per tutti coloro che, come noi, credono nel socialismo, quello che la Cina sta facendo rappresenta una speranza. Non è azzardato affermare che il futuro del socialismo nei prossimi decenni dipenderà in larga misura da quello che la Cina saprà realizzare." Fidel Castro, 1999.

Ne consegue che per Fidel il "giudizio preciso sulla natura imperialista della Cina", formulato dal Fronte Comunista, non può che essere fondamentalmente sbagliato.

E, si potrebbe aggiungere, che queste prese di posizione falsamente equidistanti (USA e Cina come "opposti imperialismi") tra un paese che aggredisce e uno aggredito (la Cina è competamente accerchiata militarmente dalle basi americane, e sottoposta alla continua minaccia di smembramento territoriale tramite "rivoluzioni colorate") non fanno che fiancheggiare il nemico comune sia della Cina che di Cuba (nonchè di tutti i popoli del mondo), gli Stati Uniti.

E questo sarebbe il principale pregio del programma politico di questa bella formazione?
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