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La tecnica non è mai neutrale. Guida critica alla Draghi-mania

di Mattia Marasti, Alessandro Bonetti e Matteo Lipparini

In un momento drammatico come quello che stiamo vivendo, mentre la crisi economica si intreccia a quella sanitaria, la classe politica ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza. Ponendo meschini egoismi davanti alla stabilità del governo, ci si è addentrati in una crisi politica inopportuna, innescata fra le altre cose dal MES. Uno strumento che perfino Cottarelli e Boeri ritengono inutile in questo momento.

È iniziata poi una guerra personale di veti incrociati, comizi davanti ai giornalisti e lunghe attese, incomprensibili a una popolo già abbastanza provato.

In circostanze diverse, questa crisi avrebbe portato il Presidente della Repubblica a sciogliere le camere convocando elezioni anticipate. Ma viste le circostanze, Mattarella ha preferito convocare l’ex governatore della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea Mario Draghi.

Draghi è un personaggio più complesso di quello che si sta dipingendo in queste ore. Quello che però desta preoccupazione è l’idea che la tecnica sia, in qualche modo, il silver bullet per risolvere problemi che affliggono il nostro Paese da oltre 30 anni.

Infatti, con la crisi del 2008 e ancora di più con quella del Covid, il dibattito macroeconomico è diventato, se non più plurale, almeno più frizzante. La teoria mainstream, che appena qualche anno prima Bernanke aveva elogiato come la ragione principale di oltre due decenni di stabilità e ricchezza, ha mostrato le sue crepe. Pensiamo al paper con cui Paul Romer, premio Nobel per l’economia, ha criticato nel 2016 la teoria macroeconomica dominante (“The Trouble with Macroeconomics”).

Queste spaccature si stanno accentuando. L’Economist, settimanale certo non assimilabile alla sinistra post-keynesiana, ha dichiarato che non siamo in grado, oggi, di sapere dove questo dibattito ci porterà in futuro. Giavazzi, ideatore della cosiddetta “austerità espansiva”, dalle colonne del Corriere ha sposato una posizione simile a quella degli economisti critici, ritenendo inutile concentrarsi sullo stock del debito in un momento come questo, in cui dovremmo essere più concentrati sulla crescita. Addirittura il Fondo Monetario Internazionale ha affermato che, in questo momento, le politiche di austerità che aveva sostenuto durante la precedente crisi non hanno portato agli effetti sperati.

In un contesto siffatto, sarebbe quantomeno ingenuo ritenere che un tecnico, anche della caratura di Draghi, possa tirare fuori la bacchetta magica. Siamo di fronte all’ennesima riprova che l’aristocrazia della “competenza” esercita un potere smisurato rispetto ai meccanismi democratici. È la tecnodemocrazia, bellezza.

Ma vi è, forse, una ragione più profonda per essere preoccupati dall’entusiasmo che la scelta di Mattarella ha suscitato. Senza entrare in complicate discussioni epistemologiche, possiamo tranquillamente affermare che l’economia non è una scienza dura, tanto meno una scienza esatta.

Chi ha familiarità con la matematica sa che la correttezza di un risultato non deriva dal suo conformarsi o meno ai risultati sperimentali, ma dalla coerenza con le sue premesse. Tuttavia, l’economia non può limitarsi a questo tipo di razionalità procedurale. Per dirla con le parole di Piero Sraffa:

“Le teorie economiche, antiche o moderne, non nascono dalla semplice curiosità intellettuale di scoprire le ragioni di ciò che si osserva accadere in fabbrica o sul mercato. Nascono da problemi pratici che si presentano alla comunità e che devono essere risolti. […] Ci sono interessi opposti che supportano l’una o l’altra soluzione e trovano argomenti teorici […] per dimostrare che la soluzione che propongono è conforme alle leggi naturali o all’interesse pubblico, o all’interesse di coloro che governano o qualunque sia l’ideologia che in quel momento particolare sta dominando.”

Lezioni sulla teoria avanzata del valore (1928-1931)

Perciò l’economia, come scienza sociale, può certamente servirsi della matematica. Ma, anche quando cerca di dissimularlo, l’economia è sempre politica. Si basa su trade-off, scelte di tipo politico e soprattutto sociale. Citando Heidegger, la tecnica è invece “l’oblio dell’essere”.

Facciamo un esempio: tecnicamente un lockdown totale alla cinese potrebbe essere la strategia ottimale in risposta a una risalita del virus, ma la questione si intreccia anche a problemi di tipo sociale e psicologico, oltre che economico.

Davanti alle sfide che fronteggiamo non abbiamo, quindi, bisogno di affidarci solo alla tecnica. O meglio, abbiamo bisogno della tecnica come mezzo, non come fine. Quello di cui avremmo bisogno, invece, è una proposta politica chiara e radicale, in grado di comprendere la realtà e dare soluzioni che colgono la complessità dei fenomeni e i rapporti fra di essi. Infatti, “nella mentalità del tecnocrate non c’è posto per il politeismo di valori, ma conta soltanto la gabbia d’acciaio della razionalità per amministrare con efficienza”, come sottolinea il politologo Lorenzo Castellani ne “L’ingranaggio del potere”.

È giusto ricordare che il contributo di Draghi come presidente della Banca centrale europea è stato fondamentale per la tenuta dell’eurozona. Ma non illudiamoci e restiamo vigili: la tecnica non è mai neutrale.

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