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circolointernazionalista

Campi di Bisenzio. Più di una lezione da chi non pretende di impartirne

di Rostrum

Dopo poco più di 3 ore di auto siamo arrivati davanti ai cancelli della GKN di Campi Bisenzio. In leggero anticipo rispetto all’ora fissata per il concentramento della manifestazione, indetta dal collettivo degli operai dello stabilimento, che da settimane ne presidiano in permanenza e con grande determinazione gli accessi.

Qualche settimana fa la proprietà ha deciso di chiudere i battenti, di licenziare 422 operai, comunicandolo con una email? Bene. Anzi, male, hanno pensato i lavoratori. E il loro pensiero è stato fin dall’inizio azione. Da oggi si ferma tutto e non esce un singolo pezzo dalla fabbrica.

Il collettivo autorganizzato si è messo prontamente al lavoro con grande energia ed efficienza, cercando immediatamente di stabilire collegamenti con altre realtà di lavoratori in lotta ed esercitando, con denunce e iniziative di informazione, una grande influenza su diverse realtà del territorio, persino su altri strati sociali. Sono arrivati attestati di solidarietà da operai di fabbriche e magazzini, da impiegati comunali, da infermieri e da autisti del servizio pubblico, persino dalla direzione del centro commerciale che giganteggia proprio di fronte allo stabilimento GKN. Più di 400 operai in meno a fare la spesa a fine turno, pesano.

Davanti ai cancelli fervono i preparativi per la manifestazione. Sotto un tendone si vendono a tutti coloro che si uniranno alla manifestazione magliette del collettivo di fabbrica. Un modo intelligente di autofinanziarsi. I contatti con la protezione civile sono serviti a predisporre bagni chimici e punti di primo soccorso – la giornata è calda. Vengono distribuite bottigliette d’acqua.

Poco dopo le 9.30 il corteo si predispone e parte. Fin da subito si ha nettissima la percezione che il moto non è casuale. Non si tratta di una transumanza caotica ma di una marcia organizzata, scandita da tamburi che battono un ritmo cadenzato.

Una cosa è chiara, e viene ribadita al megafono: in testa al corteo stanno gli operai e le operaie della GKN, poi un po’ di spazio libero, e a seguire tutti i lavoratori di altre realtà, le organizzazioni, i movimenti, e in generale i solidali. È giusto così.

Ai lati del corteo, cordoni fatti di aste di plastica tenute in mano dai membri di un servizio d’ordine impeccabile. Ragazzi e ragazze, con giubbini catarifrangenti ben distinguibili, che per due ore e passa, sotto un sole impietoso, hanno dato forma al corteo, con cordiale fermezza. Un servizio d’ordine efficiente, fatto di operai della GKN: a casa nostra – sembrano voler dire – apparecchiamo noi. Non deleghiamo ad altri. È nostra responsabilità e vanto. È giusto così.

Qualcuno tra i presenti si chiede perché radunarsi così presto di mattina. Non era meglio organizzare la manifestazione in pomeriggio, per dare tempo ai solidali di tutta Italia di raggiungere Firenze senza partire di notte? Nessuno risponde a queste domande. La risposta arriva da sé. Marciando. Siamo in zona industriale. Qui a quest’ora si lavora. Devono vederci gli operai degli altri stabilimenti, non i turisti o i passeggiatori del sabato pomeriggio fiorentino o romano. I solidali per convinzione e non per convenzione, quelli che possono ovviamente, si svegliano anche nel cuore della notte, prendono il caffè e salgono sul treno, sul bus, sull’auto. Quelli che non possono, sosterranno in altra maniera. Quelli che “no… è troppo presto…” stanno bene dove stanno. È giusto così.

Ma – si domandano altri – perché fare un corteo in questa landa desolata? Perché non il centro di Firenze? Perchè non Roma? Lì sì che c’è “visibilità”.

Già, la visibilità. Come l’alba inseguita dai poeti. Come il punto di giunzione tra la terra e l’arcobaleno. Come l’oasi verso cui ci si fionda assetati nel deserto. A volte c’è, a volte si stringe solo la sabbia.

Quando si cerca la visibilità nei luoghi in cui si presume di trovarla, si può rimanere col due di picche in mano, perché magari le assai poco misteriose divinità dell’informazione mainstream decidono di non concederla. Quando invece non si orienta l’attività principalmente nella sua spasmodica ricerca – aspettandosi da essa comode moltiplicazioni di pani e di pesci – ma ci si concentra sulla costruzione di una forza reale, la visibilità è una ricaduta quasi inevitabile, se questa forza viene ottenuta. Per inciso, ieri i giornalisti c’erano. Sono venuti loro, attirati da un riuscito, lungo e imponente corteo composto da migliaia di partecipanti (non abbiamo la cattiva abitudine di “dare i numeri”, e sappiamo troppo bene quanto impegno costi radunare migliaia di persone per inventarci folle oceaniche).

Per questo le due ore di marcia sotto il sole di luglio in mezzo alla desolata zona industriale di Campi Bisenzio valgono più di tante passeggiate lungo il corso cittadino o sotto i “palazzi del potere”. Perché può capitare, come è capitato ieri, di ottenere un’altra visibilità: la visibilità agli occhi di altri lavoratori, che stanno lavorando e che sentono i tamburi della guerra di classe rimbombare all’esterno della loro galera chiamata fabbrica; che mollano gli attrezzi, che spengono le macchine e fermano i rulli per scendere in strada ad applaudire. E questo vale più di qualsiasi chiasso, conferenza stampa o intervista.

In questi giorni gli operai in lotta della GKN hanno più volte ribadito che unirci alla lotta non è un favore che facciamo a loro quanto un dovere che abbiamo verso noi stessi. Limitarsi a portare la propria testimonianza al loro corteo è utile, è importante, ma non è “unire le lotte in un solo fronte”. Le lotte si uniscono con le iniziative concrete di concreta solidarietà di classe, con scioperi o altre forme di lotta sul proprio posto di lavoro. Iniziative tempestive. Puntuali. Purtroppo, i tempi della lotta è ancora l’avversario – il capitale – a dettarli alla nostra agenda. Non possiamo illuderci di stabilire a tavolino la scadenza della “battaglia campale”. Il rischio è quello di schierarsi, magari anche in perfetto ordine, sul campo di battaglia quando altri plotoni sono stati già sconfitti, si sono ritirati per stanchezza, oppure quando la battaglia si è spostata altrove.

Gli operai in lotta della GKN, gli operai di una singola fabbrica, ieri, hanno insegnato che cos’è un assaggio di egemonia reale, che può permettersi di raccogliere le solidarietà più disparate – anche dalla Chiesa – senza cedere su nulla: “abbiamo le nostre idee… ma grazie”.

Anche nel comizio organizzato al termine del corteo la cifra è stata quella della chiarezza. Troppe volte vecchi saggi inascoltati, generali senza esercito, sconfitti che propalano consigli per la vittoria, urlatori nevrastenici, furbacchioni innamorati del suono della propria voce o della propria mimica accattivante, hanno intasato i palchi di un corteo di lotta. “Accogliamo ogni contributo o critica, ma alla fine ci riserviamo di rispondere”, hanno detto gli operai di Campi Bisenzio. Come dire: Siete i benvenuti, ma l’ultima parola, qui, in casa nostra, la diciamo noi. Ancora una volta, è giusto così.

E l’ultima parola è stata potente, e la condividiamo: “siamo un piccolo villaggio della Gallia invasa dai romani, non asserragliamoci, riprendiamoci la Gallia e puntiamo su Roma”.

Potremmo anche avere delle riserve su questa o quella questione sollevata da questi compagni operai, ma sappiamo che le loro posizioni sono l’espressione di una lotta reale e non formulette magiche escogitate da accademici della lotta di classe. Se ne avremo l’occasione ne discuteremo fraternamente con loro. Non qui, ma nel fuoco di una lotta comune condotta fianco a fianco, da compagni d’armi. “Pancia a terra e sviluppare i rapporti di forza”, questa è la consegna, come è stato detto nelle conclusioni del comizio.

Gli operai della GKN hanno parlato chiaro: “Non abbiamo verità in tasca e non ne vogliamo dagli altri”. Monito per tutti coloro che vogliono insegnare quello che non solo non hanno mai imparato, ma che pretendono di sapere da sempre, per geniale intuizione. Monito per tutti coloro che proclamano di voler “abbattere steccati e recinti”… degli altri, per riempire il proprio, scambiando un brand per un’identità.

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