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La Giustizia, il momento rivoluzionario e i militari in piazza

di Piccole Note

La riforma della Giustizia presentata dalla Guardasigilli Marta Cartabia ha creato i primi problemi al governo, per la prima volta vacillante.

Cosa inattesa, dato che al governo Draghi era stato dato mandato, dagli ambiti internazionali che lo hanno imposto e dalle élite nazionali che hanno spinto in tal senso, di custodire l’Italia nell’alveo dell’atlantismo e dell’europeismo, inteso quest’ultimo come spazio geopolitico consegnato alle élite finanziarie.

A lui anche il mandato di gestire i fondi europei (più virtuali che reali, ma comunque efficaci in tempi virtuali) e ricostruire l’Italia secondo i rigidi dettami conseguenti.

 

Il momento rivoluzionario

Compito al quale Draghi si è dedicato con lealtà, limitandosi a gestire la res publica senza prodursi in slanci, cosa di cui bisogna dargli merito. In fondo, un buon funzionario può non produrre risultati esaltanti, ma può evitare i disastri propri dei rivoluzionari.

Questa considerazione finale non è casuale, dato che la riforma della Giustizia rappresenta una rottura rispetto all’azione (o inazione che sia) di governo pregressa, identificandosi come momento rivoluzionario, con i disastri conseguenti.

Disastri che sono stati messi in luce da molti, ma a noi colpisce più di altri la critica del professor Franco Coppi, principe del Foro e persona dotata, oltre che di padronanza della materia, di grande buon senso; e di certo estraneo a interessi politici o di ambiti particolari, non appartenendo neanche alla magistratura.

Sul Giornale, Coppi ha espresso perplessità sulla riforma, in particolare sull’errore di dettare tempistiche processuali calate dall’alto e avulse dalla realtà.

Così la tempistica diventa tagliola e un processo che in appello non si conclude a breve diventa un ircocervo, con una nullità che rende la sentenza di primo grado inapplicabile a meno di gettare al macero le basilari garanzie processuali e tanto altro.

Critiche sono venute anche da parti politiche oppositive al governo, ma anche dal Consiglio superiore della magistratura nel suo plenum.

 

Aperture e urgenze europee

La riforma, però, a quanto pare non è emendabile, o almeno questa è stata la prima reazione del governo, dato che sulla stessa ha posto la fiducia, mettendo sulla legge tutto il peso del Primo ministro, che non è poco.

Certo, si è poi aperto il dialogo, però, a quanto pare, si accettano ritocchi. Ma non troppi. Momento rivoluzionario, dunque, nella sua piena accezione, data la modalità e la tempistica di un’iniziativa presa e prodotta nel chiuso di una stanza e portata all’approvazione senza alcun dialogo preventivo.

Non che la magistratura italiana sia estranea a difetti, date le derive corporativistiche e politiche degli ultimi anni. E, però, e al netto di certa legittima diffidenza, appare ancor più rischioso che a modificare un istituto tanto vitale per la res publica sia una sola persona (o una cerchia ristretta di persone) in modalità autoreferenziale.

Ancor più nefasta l’urgenza con la quale la si vuol far approvare, ché sarebbe l’Europa a chiederla prima di erogare i finanziamenti concessi (già, concessi… questa la triste verità di uno spazio geopolitico che si dice comunitario, ma è alieno da ogni vibrazione di mutualità).

Questa è l’Unione europea, diventata più una parola d’ordine, nel senso stretto dell’espressione, che una comunità politica. Tant’è. Una digressione che serve a suggerire, in altro modo, il fondamento di questa riforma autoreferenziale, che ha creato tanti guai al governo. Guai dai quali si riteneva fosse esente, dato l’illustre timoniere.

 

Tintinnar di sciabole

L’illustre di cui sopra sta cercando di portare la barca in porto, nonostante le onde, aprendo, almeno in parte, a quel dialogo che sarebbe stato indispensabile in precedenza.

Ma soprattutto, almeno a stare alle indiscrezioni di Dagospia, usando quella Forza che finora aveva evitato di esercitare, anche perché non ne ha avuto bisogno, potendo contare sulla stessa per limitarsi alla moral suasion.

Da qui la minaccia di dimissioni da parte di Draghi percepita dagli ambiti che lo hanno posto sullo scranno non come una normale iniziativa politica, con precedenti illustri, ma come minaccia esistenziale alla tenuta stessa dell’Italia (cioè ai loro interessi).

Da qui la nota di Marcello Sorgi sulla Stampa, che dettaglia tale prospettiva, spiegando che Mattarella rinvierebbe Draghi al Parlamento.

“A quel punto – conclude Sorgi – la confusione a cui si assiste in questi giorni cesserebbe tutt’insieme. Ma metti anche che, in un intento suicida, gli stessi responsabili delle dimissioni insistessero per mandare a casa il banchiere, giocandosi la fiducia dell’Europa e i miliardi di aiuti di cui sopra, al Presidente della Repubblica non resterebbe che mettere su un governo elettorale, forse perfino militare, com’è accaduto con il generale Figliuolo per le vaccinazioni. A mali estremi, estremi rimedi. Anche se non è affatto detto che ci si arriverà”.

Dai tempi del Fascismo che non si leggevano cose simili, soprattutto così esplicite. D’altronde, Rivoluzione e Termidoro sono due facce della stessa medaglia. Sarebbe il caso che il presidente Mattarella, garante della Costituzione, spiegasse ai cronisti italiani, e non solo, i fondamenti della stessa.

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