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lafionda

Sovranità popolare. Dimenticata o mai esistita

di Umberto Vincenti

Chi crede nella sovranità popolare deve guardare con coraggio al fondo del sistema di potere che ci governa: mi riferisco alle regole che hanno instaurato, alimentato, irrobustito una combinazione che potremmo chiamare statutaria, una mistura formidabile, e paralizzante, tra ordine nazionale e ordine europeo. In entrambi, seppur con diversa forma e intensità, è sotteso un progetto – realizzato – di elusione della sovranità popolare.

L’impressione – anzi, qualcosa di più – è questa. A guardarla, liberandosi della retorica che l’ammanta da una parte e dall’altra, questa combinazione statutaria, che ci sottomette, pare un meccanismo praticamente perfetto per blindare il potere presso chi già ce l’ha (e non lo vuol perdere). Essa ha assicurato decenni di governo, ai vari livelli, ai partiti che fecero parte del Comitato di liberazione nazionale. Non vi è stato un presidente della Repubblica che non fosse legato, direttamente (quasi sempre) o indirettamente, a uno di quei partiti. Ottimi testimoni i nostri due ultimi presidenti: Napolitano, ex PCI, e Mattarella, ex DC; ora entrambi – e non sembra del tutto casuale – del PD, nei fatti l’unico partito che si possa intestare l’eredità di uno (anzi, di due) dei Partiti del CLN. Aggiungo che questo è il partito che più di ogni altro ha difeso – e difende – la Costituzione più bella del mondo.

Se si consultano i lavori preparatori della Costituente, si troverà che uno come Lelio Basso – persona onesta e intellettualmente integra – aveva affermato (o confessato) pubblicamente che lo scopo della nascitura carta costituzionale era anche la custodia della «della democrazia dei partiti già in atto» (i corsivi sono miei). In che modo? In una «repubblica democratica», qual è la nostra, il perseguimento di uno scopo del genere non si sarebbe certo potuto garantire (e, tanto meno, giuridicizzare); ma favorire sì, attraverso un’accorta formulazione di alcune regole.

Già il primo articolo della Costituzione, se assegna al popolo la sovranità (ma si sarebbe forse potuto evitarlo in una repubblica?), puntualizza contestualmente che però su di essa gravano «forme e limiti». Un’enunciazione, questa, tutt’altro che astratta: diviene invece concreta quando si considera la distribuzione dei vari poteri dello Stato. Vediamo a costo di un po’ di pedanteria.

La massima carica dello Stato non è eletta dal popolo e il capo dell’esecutivo può non esserlo (e così anche i ministri e i sottosegretari). Aggiungerei che il presidente della Repubblica è eletto non solo dai parlamentari e dai delegati dei consigli regionali, ma anche dai senatori a vita: un meccanismo complesso che, ancor più nei fatti, riduce, o può ridurre, il fondamento popolare dei poteri presidenziali a quasi una finzione.

Passando al legislativo, se il parlamento è investito dal popolo, resta però che sulle leggi la Corte costituzionale può esercitare un ampio potere caducatorio che, negli anni, si è fatto progressivamente più raffinato e più intenso. Ma nessuno dei giudici costituzionali è eletto dal popolo: nominati per un terzo dal presidente della Repubblica, per un terzo dal parlamento in seduta comune e per un terzo dalle magistrature supreme (e per quest’ultimo terzo il fondamento popolare non esiste in assoluto).

Quanto, infine, al potere giudiziario, se tutti sanno che i magistrati sono nominati per concorso, vale forse la pena di ricordare che il consiglio superiore della magistratura, nella sua larga maggioranza, è nominato dai magistrati: un potere così decisivo – come il giudiziario nella Repubblica italiana – risulta essere indipendente (o quasi: un terzo dei componenti è eletto dal parlamento in seduta comune) dalla volontà popolare anche nel suo organo di governo dal quale dipende lo sviluppo della carriera di qualunque magistrato.

Non mancano ulteriori limiti alla sovranità popolare come quelli che attengono all’iniziativa legislativa popolare e, soprattutto, al referendum popolare (da leggere e meditare l’art. 75 Cost.).

Così stanno le cose secondo la nostra Grundnorm. Probabilmente molti cittadini italiani non hanno piena cognizione di questo apparato normativo; tutti ne hanno però sperimentato l’esito nei decenni e ora, in misura rilevante, sono renitenti al voto avendo realizzato che votare serve poco o nulla. Ma serve a legittimare quelle oligarchie – di partito e non – che sono connotate da grande abilità e spregiudicatezza manovriere avvalendosi proprio degli indicati meccanismi costituzionali al fine di tutelare i loro propri interessi: è così possibile appropriarsi, se non dello Stato, certo di pezzi importanti del potere pubblico finendo con il privatizzarli.

La potenzialità di contenimento della sovranità popolare spiegata dalla nostra Costituzione si è spinta oltre i confini nazionali: in grazia dell’art.75 prima ricordato è stato possibile ai governanti italiani –incardinati e assortiti come appena illustrato – ingabbiarci dentro quella stranissima istituzione sovranazionale che è l’UE, senza che ai cittadini sia stato minimamente possibile esprimere il proprio gradimento (o negarlo), nemmeno attraverso un referendum abrogativo delle leggi di approvazione dei relativi trattati: si è imposto appunto l’art. 75 che vieta i referendum abrogativi delle «leggi di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali».

Il cosiddetto vincolo esterno ha costretto all’immobilismo essenzialmente la volontà popolare e l’interlocuzione è esclusivamente con i governanti (sempre quelli, poco o per nulla espressione della sovranità popolare e per questo graditi dai vertici UE). Formalmente vige il principio di eguaglianza tra gli Stati membri. Ma nei fatti – chissà perché – il sistema di coazione grava diversamente su Germania e Francia: la conseguenza è appunto che la sovranità del popolo italiano subisce il controllo e il condizionamento di chi ha lo scettro in Europa. All’opera di imbrigliamento attende l’altra faccia della combinazione statutaria, quella che ci osserva e ci comanda da Bruxelles (e spesso da Berlino o da Parigi).

All’imbrigliamento si perviene attraverso un modulo che stempera la volontà popolare che pertiene a ciascuno degli Stati membri. Il sostanziale potere di governo dell’UE, ivi compresa l’assegnazione dei fondi europei e l’esercizio del controllo sul loro utilizzo da parte degli Stati, spetta alla commissione europea i cui membri vengono scelti dal consiglio europeo. Quest’ultimo non è un organo eletto ma un collegio composto dai capi di Stato o di governo dei vari Paesi. Il parlamento europeo può solo approvare o meno la squadra indicata dal consiglio che, d’altronde, individua alquanto liberamente i vari commissari tra quelle «personalità» che appaiono connotate da indipendenza, competenza e impegno europeo: ciò implica che il consiglio europeo – dove possono sedere capi di Stato o di governo non eletti (per noi quasi una regola: Renzi, Conte, Draghi) – è legittimato a scegliere esclusivamente in base a criteri di valutazione tecnica.

Complessivamente la combinazione statutaria integra, in un’epoca che si descrive di democrazia matura, un quadro normativo desolante. Si tratta di un dispositivo per manovre e congiure di palazzo, per il varo di governi tecnici senza fine, per oscure intese dentro e fuori i confini della Repubblica: un dispositivo perfetto per quei gruppi di potere che siano capaci e abbiano la forza di imporsi a prescindere da ogni legittimazione popolare rispetto alla quale i protagonisti possono essere assolutamente estranei. Sarebbe necessario acquisirne consapevolezza per reclamare, in ogni sede, quelle modifiche alla combinazione statutaria, cominciando da quella interna, per restituire, diciamo potere al popolo. Agire nel pubblico per soddisfare interessi particolari è un costume che sì è progressivamente diffuso a tutti i livelli: un’inversione di rotta sarà possibile solo riformulando certe regole congruamente al canone repubblicano del nostro Stato. Ci sono da intraprendere nuove esperienze di assegnazione ed esercizio del potere pubblico. Quelle che abbiamo non ci piacciono più e non ci piace più la politica così conformata. Non è nemmeno un caso che il più vecchio dei nostri partiti, il PD, appaia oggi, e per varie ragioni, il più attrezzato e il più abile nelle manovre consentite dalla combinazione statutaria; e anche il più contiguo ai centri del potere interno ed europeo (e, forse, nemmeno è un caso che il nostro commissario europeo sia Paolo Gentiloni).

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