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L’indifferenza di genere

di Patrizio Paolinelli

Secondo il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, gli Stati Uniti sono la società più diseguale dell’occidente grazie a trent’anni e passa di politiche neoliberiste. L’aumento delle disuguaglianze sociali e il relativo impoverimento di larghe fasce della popolazione è talmente evidente che non si può più nascondere con gli artifici degli istituti di statistica, la complicità della stampa, i profeti della civiltà digitale. Per le élite dominanti si è dunque posto il problema di come ovviare a una situazione sempre meno occultabile e foriera di estese proteste sociali. La soluzione è stata trovata nel rilancio in grande stile della narrazione sulla parità di genere.

Le donne sono così diventate la categoria-chiave per veicolare in tutto l’occidente un’idea di giustizia sociale senza intaccare il modo di produzione che genera l’ineguaglianza e la conseguente divisione in classi. Si tratta di un paradosso. Ma è un paradosso che funziona. Come? Attraverso la propaganda, l’informazione, la comunicazione. Da qui l’enfasi mediatica sull’ineguaglianza di genere. Una narrazione molto efficace e da qualche tempo quotidianamente presente nell’agenda nel discorso pubblico confezionata dal sistema dei media.

La persuasione del racconto si fonda su problemi reali che investono le differenze tra uomini e donne nel mondo del lavoro in termini di prospettive di carriera, qualificazione professionale, parità di retribuzione e così via. Tuttavia il tema non è affatto nuovo. Se ne parla da oltre un secolo. I movimenti che si ispiravano al socialismo fecero dell’emancipazione delle donne attraverso il lavoro una delle loro principali rivendicazioni politiche e dove riuscirono a governare abbatterono parecchi vincoli della cultura patriarcale.

Con la fine del XX secolo si è spenta l’idea socialista ed è iniziata la fase turbocapitalista o neoliberista che dir si voglia. Durante questa fase il kombinat potere politico, potere mediatico e potere economico ha ideato e attuato due brillanti strategie comunicative: 1) appropriarsi delle parole d’ordine dei vecchi antagonisti ormai sconfitti (per es.: riforma e rivoluzione); 2) appropriarsi di alcune loro battaglie, come appunto quella della parità dei diritti tra uomo e donna. Naturalmente il neoliberismo ha risemantizzato quelle parole d’ordine e quelle battaglie conferendo loro un senso e una direzione opposta a quella del pensiero socialista. Il quale riteneva l’emancipazione femminile un obiettivo da raggiungere all’interno di un’idea di emancipazione delle classi lavoratrici e dunque dell’intera società, non solo di un suo spicchio.

Col recente ritorno dei democratici alla Casa Bianca è stata impressa una forte accelerazione al tema dell’uguaglianza di genere grazie a una martellante campagna di comunicazione globale a cui anche nella nostra piccola Italia il più modesto Tg locale si è immediatamente accodato. Si tratta di una scelta politica spiegabile col fatto che i presidenti democratici statunitensi sono stati corresponsabili della precarizzazione del lavoro, della compressione salariale, dell’aumento della povertà e dunque delle sempre più marcate disuguaglianze sociali sia nel loro Paese sia in Europa. Occorreva correre ai ripari evitando di mettere in discussione il rapporto tra capitale e lavoro. E bisogna riconoscere che l’operazione è largamente riuscita.

La donna narrata al grande pubblico è astratta e concreta allo stesso tempo. Astratta perché si parla della donna in generale ignorando le determinazioni che la caratterizzano: per esempio, l’appartenenza a una specificata classe sociale. Appartenenza che ha conseguenze: la figlia del celebre anchorman difficilmente si sposerà col figlio della donna delle pulizie che rassetta lo studio televisivo. La concretezza invece si consolida nel successo in qualsiasi campo: politica, sport, economia, informazione, spettacolo, scienza, tecnologia e in generale nel mondo delle professioni. Ma in virtù di quali caratteristiche questa donna raggiunge il successo? Alla determinazione per scalare la piramide sociale e alla conformità alle regole sociali sembrerebbe unire qualità come la concretezza, la capacità organizzativa, la vocazione all’ascolto, lo spirito cooperativo e così via. Qualità che secondo la narrazione dominante difetterebbero negli uomini, anch’essi considerati in astratto, e che costituiscono un’utile differenza di genere per migliorare ogni tipo di performance. In particolare quelle che riguardano il lavoro.

Ora, non è affatto detto che tutte le donne eccellano in tali qualità umane e che tutti gli uomini ne siano privi. Ma non è questo il punto essenziale. Il punto essenziale è un altro: la struttura del mercato del lavoro non cambia minimamente per il semplice fatto che le donne possono accedervi più facilmente e a condizioni migliori rispetto al passato. Il mercato del lavoro – è la stessa definizione a dichiararlo – considera i lavoratori un fattore della produzione, degli oggetti, delle merci. Per questo motivo i lavoratori e le lavoratrici si possono licenziare secondo leggi economiche architettate a uso e consumo degli imprenditori.

E quando la donna è un’imprenditrice? Le regole del gioco restano le stesse con cui si affannano i colleghi uomini: le aziende sono organizzate in maniera rigidamente verticale, il rapporto di lavoro è un rapporto di forza in cui la parte svantaggiata sono i lavoratori e le lavoratrici e niente lascia presagire che grazie alle donne imprenditrici i sindacati saranno maggiormente ascoltati o che aumenteranno i diritti e le tutele dei dipendenti.

Ad onta della campagna globale sull’emancipazione delle donne la differenza di genere sembra contare assai poco in parecchi ambiti. Per esempio: se una donna diventa rettrice ciò implica che i concorsi universitari non saranno più truccati? La direttrice di una testata giornalistica si metterà contro la proprietà in nome di un’informazione più onesta e veritiera? La donna-manager utilizzerà logiche d’impresa alternative a quelle dei suoi colleghi maschi? E la scienziata? Opererà per una scienza al servizio della società o del profitto? E le donne in politica? Quando il ministro della giustizia sarà una donna le galere ospiteranno meno pesci piccoli e più pesci grandi? Se una donna sarà ministro del lavoro avremo una drastica riduzione di disoccupati? Quando nei governi statunitensi le donne diventeranno segretarie di stato pioveranno meno bombe? E ancora: casalinghe, operaie, infermiere entreranno in massa in Parlamento? Le cuoche dirigeranno lo Stato?

Almeno finora le istituzioni sembrano del tutto indifferenti al genere. Potere politico e potere economico procedono secondo dinamiche che prescindono dall’essere uomo o donna. Ciò non impedisce alla comunicazione globale di continuare a narrare la propria favola proprio perché il potere mediatico sa bene che non è tanto la realtà a contare quanto il fatto che il pubblico si comporti come se la realtà raccontata esistesse davvero. Forse prima o poi il pubblico si risveglierà perché nella società capitalistica non si arriverà mai a una vera eguaglianza tra tutte le donne e qualcuna tornerà a interrogarsi sulle divisioni di classe. O forse le donne avranno acquistato così tanto spazio da azzannarsi con gli uomini per la spartizione del potere nelle istituzioni. Un altro conflitto creato ad arte come quelli che da anni mettono i precari contro i lavoratori garantiti, i genitori occupati contro i figli disoccupati, i giovani contro i pensionati. Un altro conflitto che rientra nel novero dei diritti civili col preciso scopo di oscurare quelli sociali. Battagliare per i primi non crea alcun problema al potere economico.

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