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kriticaeconomica

Per farla finita con la divisione tra Stato e mercato

di Anna Vergnano e Mattia Marasti

In un editoriale di qualche anno fa l’Economist ha definito lo Stato come una sorta di Leviatano. Il suo compito, secondo il giornale britannico, è quello di fornire le basi affinché il rivoluzionario settore privato possa crescere.

Una visione così, che traccia una distinzione manichea tra Stato e mercato, appare a uno sguardo più attento superficiale. Si tende a voler separare la prima istituzione dalla seconda, descrivendo lo Stato come se fosse una grande azienda o un padre di famiglia alle prese con i bilanci. Purtroppo, raramente vengono ricordate le motivazioni per cui Stato e mercato sono fondamentalmente diversi (e devono esserlo) ma allo stesso tempo connessi, dipendenti l’uno dall’altro.

Ne è un esempio l’approccio che ha caratterizzato le società occidentali nella spesa pubblica degli ultimi 30 anni: il cosiddetto New Public Management. Secondo questa teoria il compito dello Stato e della pubblica amministrazione sarebbe fare di più con meno, riducendo lo Stato a un agente economico in grado di ottimizzare in un contesto di risorse scarse. Ma lo Stato non può essere concettualizzato come un’azienda: il suo lavoro non è massimizzare profitti, ma quello di garantire ai cittadini una società quanto più equa e sicura possibile nella quale operare.

Per comprendere il ruolo dello Stato è utile riprendere la fase di passaggio dalle economie feudali a quelle di mercato, riconducibile al 1600 all’incirca. La particolarità del mondo moderno sta proprio nell’interazione tra i due, che ha dato luogo alle cosiddette “economie di mercato”, sviluppatesi in Europa intorno alla metà del 1600 con l’abbandono del sistema feudale. Con l’avvento delle economie di mercato, i governi locali hanno iniziato a facilitare lo scambio tra popoli e settori tramite l’azione pubblica e l’introduzione di infrastrutture quali strade, istruzione e sistema giudiziario. Un’economia di mercato può essere più o meno interventista, ma necessita comunque dell’intervento statale.

A livello teorico questo era già stato compreso da Karl Polanyi. Nel suo La Grande Trasformazione egli chiarisce che nella società mercantile del diciannovesimo secolo la regolamentazione e il mercato andavano di pari passo. Anche Hegel, un secolo prima, aveva compreso le funzioni dello Stato nel garantire, ad esempio, la proprietà privata. Senza l’intervento statale, il libero mercato sarebbe né più né meno saccheggio e banditismo.

Il corollario di questa osservazione è che mercati naturali, semplicemente, non esistono. Il mercato è sempre un risultato dell’interazione di varie parti, tra cui aziende e consumatori, inserite in un contesto di norme, leggi, tabù.

Si tratta di un cambiamento di prospettiva notevole rispetto all’importanza, minima, rivestita dalle istituzioni nella teoria neoclassica.

Non solo però lo Stato definisce le regole, ma è anche partecipante attivo del gioco. Ha infatti il compito di imporre delle tasse alla popolazione e alla produzione, oltre che raccogliere denaro per finanziare attività come sanità, istruzione, ricerca.

Queste funzioni rientrano infatti in quello che prende il nome di fallimenti di mercato, come beni pubblici ed esternalità. La teoria ammette infatti queste situazioni come condizione per l’intervento dello Stato, nonostante poi risultati come il teorema di Coase e gli studi della public choice theory abbiano in qualche modo ristretto il campo degli interventi statali.

Una giustificazione di questo tipo, nonostante i risultati, può essere considerata soltanto come un caso particolare. Rientra infatti in una situazione statica, senza tener conto di aspetti dinamici che invece sono insiti, come osserva Schumpeter, nel capitalismo moderno.

Un caso interessante è quello della politica industriale. Dopo la fase del consenso keynesiano, la politica industriale, soprattutto nella sua versione orizzontale, è stata relegata al sedile del passeggero. Lo Stato, secondo questa visione, non è in grado di scegliere i campioni nazionali. Si tratta però di una sorta di specchio riflesso. Non appena ci si muove da una visione puramente statica a una valutazione dinamica, come nota Mariana Mazzucato, le cose cambiano. In questo campo dà particolari spunti la teoria della complessità. Proprio perché è necessario muoversi da una prospettiva manichea tra stato e mercato così come da un approccio all’equilibrio, la complessità ci permette di comprendere la natura emergente dei rapporti tra stato e mercato nella loro coevoluzione.

Prendiamo, ad esempio, quella che è la Silicon Valley. Quando pensiamo alla Silicon Valley abbiamo in mente, un po’ come diceva l’Economist, lo spirito rivoluzionario e audace del settore privato. In realtà, come nota Harayama, la fortuna della Silicon Valley dipende da un network formato dall’università di Stanford, in particolare il dipartimento di Ingegneria, dal governo federale e dal settore privato.

D’altronde gli Stati Uniti d’America, come scrive Ergas nel suo importante paper del 1987, rappresentano un caso esemplare di mission oriented project. Sotto questa prospettiva, lo Stato non premierebbe semplicemente i meritevoli, ma coinvolgerebbe il privato per raggiungere obiettivi che, come società ci prefiggiamo.

Questa vuole essere, appunto, la natura del discorso. L’intervento statale, oltre a un aspetto tecnico, non può prescindere da una dimensione più squisitamente politica. Nel corso degli anni, anche grazie all’influenza di Thatcher e Reagan sul discorso politico, si è andati verso una visione atomistica della società. La natura dello Stato nasce invece sull’idea di società come organizzazione interdipendente: come società, non siamo soltanto un gruppo di particelle impazzite, ma ogni epoca si pone obiettivi e ideali da realizzare.

La discussione quindi sui rapporti tra Stato e Mercato non può passare soltanto da un’analisi tecnica, come in una sorta di analisi costi e benefici. Sappiamo che l’interventismo statale non è una discussione binaria: buono o cattivo. E in Italia conosciamo la degenerazione dell’intervento statale: l’utilizzo politicizzato dell’IRI almeno a partire dalla metà degli anni ‘70 ha portato alla crisi e alla fine dell’Istituto. Ma deve altresì innestarsi su che cosa e come vogliamo raggiungere gli obiettivi prefissati come società. Soprattutto in un tempo di sconvolgimenti come quello attuale, dove l’intervento statale, come ha giustamente osservato Paolo Gerbaudo su Le Grand Continent, ritornerà cruciale.

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