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Tesi e mondi

di Alberto Giovanni Biuso

È in corso da tempo una demagogica e distruttiva tendenza a regalare diplomi e lauree che perdono in questo modo valore professionale e significato scientifico. Per quanto riguarda le Università, tra le varie ragioni della catastrofe ce ne sono due: la crescita incontrollata del numero degli appelli, che ha come effetto anche la mancata frequenza alle lezioni perché in pratica quasi ogni mese c’è la possibilità di dare un esame; il far sostenere a ciclo continuo le cosiddette ‘prove in itinere’, che parcellizzano l’apprendimento e fanno perdere il significato unitario (epistemologico) di un programma di studi. Gli Atenei pubblici – unica garanzia di eguaglianza sociale – scimmiottano in questo modo le università telematiche, suicidandosi.

La radice di tali tendenze è la trasformazione delle discipline/materie in ‘crediti’ da collezionare come i punti al supermercato. Metamorfosi attuata dai ministri Luigi Berlinguer e Mariastella Gelmini, il cui esito consiste in uno studio che diventa trafelato, che rimane di conseguenza del tutto superficiale, che ha come risultato il non apprendere nulla e il dimenticare presto ciò che si è appreso.

L’esito ultimo di questo tracollo didattico e scientifico è il verificarsi di episodi come quello del quale sono stato testimone e attore in una seduta di laurea dello scorso novembre a Unict. Seduta alla fine della quale ho chiesto di mettere a verbale la seguente dichiarazione:

«La tesi che la candidata *** presenta per il conseguimento della Laurea magistrale in Scienze filosofiche, dal titolo *** si compone di 32 pagine; indica soltanto 6 testi in bibliografia; contiene errori di ogni genere (sintassi, lessico, grammatica) in quasi ognuna delle 32 pagine; non dà neppure una indicazione in nota o nel corpo del testo dei classici dei quali parla; presenta dei brani copiati dalla Rete (ad esempio a p. 12 dal sito di Giuseppe Argentieri; a p. 24 da un manuale online dell’Università di Siena).

Ritengo dunque che un lavoro con queste caratteristiche non possa essere giudicato adeguato al conseguimento del titolo di laurea magistrale, titolo che pertanto chiedo alla Commissione di non attribuire alla candidata.

Aggiungo che, per quanto basso sia diventato il livello dei laureati italiani, non intendo rendermi responsabile di una decisione evidentemente scorretta, quale sarebbe l’attribuire un titolo dal valore anche legale a fronte di una tesi di laurea del tutto insufficiente».

Come siamo arrivati a un punto così basso della didattica universitaria? Alcuni anni fa descrivevo i patetici tentativi di nascondere la realtà con ‘corsi zero e sotto(zero)’ rivolti alle matricole. Di didattica e pedagogia scrivo da quando insegnavo nei Licei, dunque da decenni. Alcuni di noi hanno indicato per tempo – con libri, saggi, iniziative, azioni – il baratro verso il quale stiamo conducendo ciò che chiamiamo ‘conoscenza, sapere, scienza, civiltà’ (cfr. ad esempio: Educazione e antropologia; Sulla «Grande Riforma» della scuola italiana; Per la Paideia).

Nel caso specifico del quale parlo ci sono evidentemente problemi nella governance (come amano dire) delle Università italiane per quanto riguarda i finanziamenti, che arrivano più copiosi se si hanno più iscritti che si laureano in corso e si hanno più iscritti che si laureano in corso se si rende tutto più facile, vale a dire se si nega uno dei significati sia antropologici sia sociali delle istituzioni educative: orientare in base alle capacità e alla tenacia.

E poi: presidenti di corsi e di commissioni di laurea che dovrebbero verificare per tempo la congruità delle tesi presentate; studenti abituati a ottenere voti alti preparando gli esami in pochi giorni; la generale pretesa di laurearsi soltanto per il fatto di essersi iscritti a un corso di studi, atteggiamento - questo - che è parte di uno dei drammi più pervasivi del presente: l’infantilizzazione del corpo collettivo. E così via e così via nel rosario delle responsabilità diffuse.

Ma non sono questi gli elementi più gravi. Il dramma è il risultato, vale a dire: certificati di laurea che perdono il loro valore; tanti studenti che si impegnano con rigore e passione e che ottengono lo stesso titolo legale di chi copia le tesi; la conferma che onestà e lavoro non servono e nella vita ci vuole altro. Tutte espressioni, quelle elencate e altre, del fallimento della funzione educativa delle istituzioni scolastiche e universitarie.

Ha dunque ragione una studentessa, sempre di Unict, a contrapporre a un simile degrado la lucidità e la passione pedagogica che intesse le pagine di Giovanni Gentile e, direi, tutta la sua attività di docente. Sarah Dierna ha infatti scritto che di fronte a tutto questo Gentile direbbe «né, per la stessa ragione, è possibile assegnare un punto finale al processo educativo. Le licenze e le lauree servono in pratica come etichette ai barattoli» (Sommario di pedagogia come scienza filosofica, volume I. «Pedagogia generale», Sansoni, Firenze 1954, p. 139) e rivolgendosi ai docenti li esorterebbe a insegnare ai propri allievi che «la via del sapere sincero è lunga» (Ivi, p. XI).

Un’altra studentessa, Andrearosa Carpinteri, ha scritto che il racconto di quell’episodio le «ha anche ricordato il valore intrinseco e immenso che hanno le persone/gli studenti come me, ogni persona che abbia una qualsiasi difficoltà, che non scelgono la via facile, che ogni giorno lavorano per ottenere un risultato, una crescita, per raggiungere un sapere che sia guadagnato, sudato, meritato, consapevole e soprattutto interiorizzato».

Una terza, Cetti Patanè, ha commentato in questo modo: «Mi rincresce dirlo, ma è ciò che penso. Aumentare a dismisura il numero di appelli, far sostenere prove in itinere in continuazione, consentire di suddividere le materie, a mio avviso è come nascondere la polvere sotto il tappeto. Se un aspetto positivo ha avuto Teams, è stato quello di poter ascoltare tutte le lezioni e tutti gli esami, conditi, questi ultimi, da continui intercalari, sgrammaticature e così via. Certo che non sanno scrivere la Tesi, non sanno parlare, non leggono e, ciò che più conta, non hanno passione».

Queste studentesse hanno coniugato le parole di Gentile con la propria esperienza, cogliendo il nucleo profondo della pedagogia socratica, il cui esito non dipende dal docente (che non è onnipotente) né dipende dall’allievo (che è appunto in formazione) ma è il risultato della loro relazione, dalla quale si genera il fatto educativo come esperienza comunitaria. Sono concetti semplici e fecondi ma evidentemente del tutto ignoti alle istituzioni formative degli anni Venti del XXI secolo.

In questo dramma c’è anche una dimensione farsesca, quella di chi crede che regalando a tutti le lauree si operi a favore dei più disagiati, mentre invece si ottiene esattamente il contrario poiché si ribadiscono ciascuna e tutte le diseguaglianze di partenza. Chi arriva alla laurea senza meritarlo ma proviene da una famiglia ‘che possiede dei mezzi’ arriverà lontano; chi si laurea meritandolo ma fa parte di una famiglia che questi mezzi non li ha rimarrà fermo. E però tutti saranno ugualmente ‘laureati’. È il noto effetto inflattivo, che colpisce in modo implacabile i più deboli.

Tutto questo non è certo prerogativa della sola Università di Catania. Ma ovunque e da chiunque lo si consegua, che valore avrà il certificato di laurea magistrale rilasciato da un Ateneo dove lo si ottiene con una tesi di 32 pagine piena di errori e in parte copiata? Un valore assai scarso, quasi nullo.

Un collega, Michele Del Vecchio, ha colto correttamente l’eterogenesi dei fini che ha trasformato la richiesta di cibo culturale del Sessantotto nell’offerta della pietra dell’ignoranza che istituzioni, ministeri, sindacati, famiglie, individui offrono con implacabile miopia ai nostri giovani. Oppure costoro ci vedono sin troppo bene? Generazioni cresciute nell’ignoranza saranno infatti incapacitate a qualunque ribellione contro l’iniquità e il dispotismo.

Lo ha compreso ed espresso per tempo Davide Miccione nel suo ora riedito e ampliato Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, (LetteredaQalat, 2022). Miccione analizza, tra le altre figure, quella dell’ignorante ipermoderno, vale a dire il soggetto collettivo (composto come sempre da individui in carne e ossa ma con tendenze fortemente simili) che fa della propria ignoranza non una vergogna, una sofferenza, un ostacolo ma l’espressione più ricca e costante della propria identità, del proprio essere e dell’essere percepito. Il sottoproletariato cognitivo è la classe sociale – trasversale a condizioni economiche, luoghi geografici e ideologie politiche – che implementa i modi di esistere e pensare dell’ignorante ipermoderno. Mi sembra che il caso da me segnalato si inserisca assai plausibilmente in questa tipologia.

Sono comunque convinto che al pessimismo dell’intelligenza dobbiamo coniugare l’ottimismo della volontà, poiché una società senza conoscenza e senza rispetto per chi apprende è una società perduta.

La presenza di tanti studenti e docenti dai comportamenti e dalle parole ancora libere e tenaci è di per sé testimonianza di salvezza.

Tornando al caso qui discusso, si tratta certo di scorrettezza da parte dello studente; si tratta di relatori che mettono la loro firma sotto tesi impresentabili (come hanno ricordato Dario Generali e Fausta Squatriti); si tratta di tutta intera la struttura di un Dipartimento che dovrebbe vigilare su casi simili. Ma al di là degli studenti, dei relatori e della struttura stessa, l’elemento più inquietante è l’atmosfera che si respira in una comunità di studenti e di studiosi; sono la mentalità e gli atteggiamenti diffusi: di correttezza o di furbizia, di lavoro o di infingardaggine, di passione per la conoscenza o di incarnazione dell’ignoranza. Non si tratta di una tesi di laurea, si tratta di un mondo.

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