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Regionalismo: situazione grave, ma non seria

di Leonardo Mazzei

Quest’anno Pasqua è “bassa” e il Carnevale incombe. Ma prima del 28 gennaio, domenica di Settuagesima che ne segna l’inizio ufficiale, il Senato della Repubblica ha voluto anticipare le danze. Lo ha fatto con qualche curioso paradosso, come si addice al periodo. Da un lato l’inno di Mameli e le bandiere tricolori ostentate dal fronte anti-sovranista. Dall’altro lato, quello dei grandi “patrioti” meloniani, l’approvazione di una legge che l’Italia la fa a pezzi, con tanto di bandiera di San Marco a sventolare nei banchi della maggioranza, giusto per ribadire il concetto. Mancavano i coriandoli di carta, ma in compenso c’erano quelli di un’Italia che si vorrebbe triturare. Davvero il teatrino della politica non poteva far di meglio!

Cos’è successo di così importante martedì 23 gennaio 2024 (un Martedì Grasso anticipato, si direbbe), da far parlare Luca Zaia di una giornata storica? E’ successo che la Lega ha incassato il primo sì, poi seguirà quello della Camera, all’agognato regionalismo differenziato, definizione politicamente corretta di un regionalismo così incasinato da non avere uguali sull’intero urbe terracqueo.

E’ una cosa grave? Sì. E’ una cosa seria? No.

Per chi fosse interessato ad approfondire la materia del cosiddetto “regionalismo differenziato” rimandiamo a un nostro articolo del 2019. Qui, invece, preferiamo mirare al succo politico della vicenda. Non entreremo, perciò, nel dettaglio di quel che prevede il Disegno di legge n° 615 appena approvato nel trambusto che si è detto. Basti dire che il Ddl porta la firma del famigerato Calderoli, l’impenitente autore di un’altra grande legge che lui stesso ebbe l’insolita onestà di chiamare “Porcellum”. All’ammissione della porcata, seguì, come noto, l’annullamento da parte della Corte costituzionale. Un precedente che, se non ne ha di certo fermato la carriera (che in questi casi semmai si premia, ci mancherebbe!), dovrebbe pur dirci qualcosa sia sulla nuova legge che sul suo incallito estensore.

Proviamo allora a spiegare perché diciamo che la situazione è grave, perfino triste, ma decisamente poco seria. E’ grave per il contenuto antisociale della legge approvata, è triste per la diffusa inconsapevolezza di questa gravità, è poco seria (forse financo comica) perché le probabilità che questa porcata vada a buon fine sono praticamente pari a zero.

L’approvazione del Ddl Calderoli è grave perché, se diventasse legge (e lo diventerà), ed ove completasse il suo complicato percorso (cosa per fortuna ben più difficile), avremmo non solo la fine dello Stato unitario, ma il totale stravolgimento di ogni principio costituzionale. Giusto per fare un esempio, avremmo una sanità ed una scuola differenziate per regione, con stipendi degli addetti anch’essi differenziati. Potremmo avere regioni autonome in ben 23 materie, altre in 14, altre ancora in 7 e così via, in base alle richieste di ciascuna. Un’autentica follia, priva di ogni visione unitaria; l’esatto contrario di un organico progetto federalista. Diciamolo in maniera chiara e definitiva: peggio di così non si poteva fare.

Giusto, dunque, gridare allo scandalo. Ma se c’è qualcuno che proprio dovrebbe tacere, questo è il Pd e tutto ciò che gli gira attorno. Ha ragione la Repubblica a parlare di una legge “Spacca Italia”, ma ha torto marcio a non denunciare che tutto questo è possibile solo a causa dell’obbrobriosa controriforma del titolo V della Costituzione voluta proprio dal centrosinistra nel 2001. Senza quella controriforma Calderoli non avrebbe potuto far nulla. Non lo ricorderemo mai abbastanza.

 

Una buona notizia

C’è, tuttavia, una buona notizia: questa legge ha ben poche possibilità di arrivare al traguardo. Essa verrà sì approvata dalla Camera, e una Lega sfiatata sbandiererà cotanto successo nella prossima campagna elettorale. Si tratterà, però, della classica vittoria di Pirro. Vediamo il perché.

L’approvazione del Ddl avvierà infatti un percorso accidentato, a nostro avviso destinato a interrompersi o per un pronunciamento della Corte costituzionale o, più probabilmente, per un referendum abrogativo che la boccerà.

L’articolo 4 della legge precisa che il trasferimento delle funzioni, richiesto dalle Regioni, potrà avvenire solo dopo la determinazione dei Lep, i cosiddetti “livelli essenziali delle prestazioni”, da garantire su tutto il territorio nazionale. Per definire questa sorta di “servizio minimo” il governo ha due anni di tempo, dopo di che lo Stato e le Regioni avranno cinque mesi per arrivare ad un’intesa sui trasferimenti di potere richiesti. Un passaggio che, nel caso, includerebbe di necessità anche un trasferimento delle entrate fiscali a tutto vantaggio delle regioni più ricche.

Questa storia dei Lep è un autentico imbroglio, con il quale si vorrebbe far credere al miracolo secondo cui la nuova ripartizione delle risorse, mentre favorirebbe le regioni del nord, non danneggerebbe quelle del sud. Il mancato danneggiamento verrebbe assicurato proprio dai Lep. Ma da dove verrebbero le risorse per finanziare i Lep nelle regioni più povere? Questo non si sa, ma di sicuro non dalle casse dello Stato, dato che è scritto a caratteri cubitali che tutto dovrà avvenire in base al principio dell’«invarianza di bilancio».

Ma detto così è ancora poco. Siccome il bilancio dello Stato vedrebbe calare le entrate fiscali dalle regioni del nord, è evidente che le “prestazioni essenziali” in quelle del sud non potrebbero che peggiorare, a meno che non si arrivi ad introdurre una tassazione più alta in quelle già svantaggiate regioni. Altro che Lep!

Del resto, una “autonomia differenziata” che non determinasse differenze sarebbe proprio una contraddizione in termini. Ma poiché la lesione manifesta del principio di uguaglianza potrebbe portare alla dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta, ecco il contorcimento dei Lep per tentare un’impossibile quadratura del cerchio.

E’ evidente che la cosa non sta in piedi. Il fatto è che il Ddl Calderoli fa parte di un baratto tra Fratelli d’Italia e Lega. Ai primi il presidenzialismo (alias premierato), alla seconda il regionalismo incasinato. Il bello è che il premierato non piace alla Lega, così come il regionalismo non piace alla Meloni, ma ognuno vota il giocattolo dell’altro come in uno scambio di regali tra bambini sotto l’albero di Natale.

 

Il referendum, ovvero l’autogol annunciato di un governo senza opposizione

Questo giochino infantile potrebbe, però, rivelarsi un boomerang. Facile battere oggi le finte opposizioni in parlamento. Più difficile, pressoché impossibile, prevalere nel referendum che si annuncia. Le opposizioni parlamentari sono sì finte, ma non sono stupide. Sono finte, vista la loro convergenza con la maggioranza sulle grandi questioni della guerra, del servilismo euro-atlantico, di una stessa visione e di un’identica pratica neoliberista, ma non mancheranno di certo l’occasione per recuperare le grandi quote di potere perso sia a livello centrale che periferico.

E l’occasione che gli viene offerta dal duo Meloni-Salvini è davvero troppo ghiotta per non essere colta. Quel che stupisce semmai è l’assoluta imperizia del duo di cui sopra. Ma si sa, il potere dà alla testa (Renzi docet). Decisi a ottenere un qualche possibile vantaggio elettorale nell’immediato, i due sembrano non vedere la trappola che si stanno costruendo da soli per il futuro. Una trappola, beninteso, che include il premierato, che a referendum andrà giocoforza.

Perché siamo così sicuri dell’esito dei due referendum che si annunciano è presto detto. Che, oltre ad essere pericoloso, il regionalismo differenziato non stia in piedi lo vedono anche i bambini. Mentre, forse proprio perché l’hanno già sperimentato, l’idea dell’uomo solo al comando non piace agli italiani. Quella della donna idem.

Ma c’è pure un’altra ragione: nei referendum, specie in quelli di natura squisitamente politica, tutti gli oppositori, pure quelli che di solito non votano, si uniscono contro il governo. Ed è questa una delle rarissime occasioni in cui la volontà popolare non può essere aggirata. Ora, siccome il governo ha sì un’ampia maggioranza parlamentare, ma è ben al di sotto dell’asticella del 50% dei consensi elettorali, i conti son presto fatti. Certo, non sempre due più due fa quattro, ma di solito sì.

La coppia Meloni-Salvini, peraltro tenuta insieme con lo sputo, andrà dunque a sbattere. Ci andrà con i referendum (e forse ne basterà uno), se il botto non sarà già avvenuto prima.

 

Conclusioni

Questo non significa che possiamo rilassarci. Al contrario, nei prossimi mesi questo governo potrà continuare a far cose pessime, a partire dal servilismo guerrafondaio che rischia di farci sprofondare in un conflitto di cui troppi non vedono la gravità e la pericolosità.

Proprio per questo bisognerà accelerare il momento della sua cacciata, senza bisogno di arrivare ai referendum. Ma se ci arriveremo non bisognerà accodarsi alla facile propaganda dei signori della mera alternanza di potere (Pd e dintorni). Se ci arriveremo, sarà invece un’occasione da cogliere per far emergere una vera alternativa di sistema.

Le controriforme della destra, figlie peraltro di quelle del centrosinistra, ci parlano infatti di un intero sistema politico marcio. Un sistema chiuso e corrotto nell’anima. Un sistema da rovesciare più che da riformare.

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