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quodlibet

L’esperienza del linguaggio è un’esperienza politica

di Giorgio Agamben

In che modo sarebbe possibile cambiare veramente la società e la cultura in cui viviamo? Le riforme e persino le rivoluzioni, pur trasformando le istituzioni e le leggi, i rapporti di produzione e gli oggetti, non mettono in questione quegli strati più profondi che danno forma alla nostra visione del mondo e che occorrerebbe raggiungere perché il mutamento fosse davvero radicale. Eppure noi abbiamo quotidianamente esperienza di qualcosa che esiste in modo diverso da tutte le cose e le istituzioni che ci circondano e che tutte le condiziona e determina: il linguaggio. Abbiamo innanzitutto a che fare con cose nominate, eppure continuiamo a parlare a vanvera e come capita, senza mai interrogarci su che cosa stiamo facendo quando parliamo. In questo modo è proprio la nostra originaria esperienza del linguaggio che ci rimane ostinatamente nascosta e, senza che ce ne rendiamo conto, è questa zona opaca dentro e fuori di noi che determina il nostro modo di pensare e di agire.

La filosofia e i saperi dell’Occidente, confrontati con questo problema, hanno creduto di risolverlo supponendo che ciò che facciamo quando parliamo è mettere in atto una lingua, che il modo in cui il linguaggio esiste è, cioè, una grammatica, un lessico e un insieme di regole per comporre i nomi e le parole in un discorso.

Va da sé che ciascuno sa che, se dovessimo ogni volta scegliere consapevolmente le parole da un vocabolario e metterle altrettanto coscienziosamente insieme in una frase, noi non potremmo in alcun modo parlare. Eppure, nel corso di un processo secolare di elaborazione e di insegnamento, la lingua-grammatica è penetrata dentro di noi ed è diventata il potente dispositivo attraverso il quale l’Occidente ha imposto il suo sapere e la sua scienza su tutto il pianeta. Un grande linguista ha scritto una volta che ogni secolo ha la grammatica della sua filosofia: sarebbe altrettanto e forse più vero il contrario, e cioè che ogni secolo ha la filosofia della sua grammatica, che il modo in cui abbiamo articolato la nostra esperienza del linguaggio in una lingua e in una grammatica determina fatalmente anche la compagine del nostro pensiero. Non è un caso che l’insegnamento della grammatica si faccia nella scuola elementare: la prima cosa che un bambino deve apprendere è che quello che fa quando parla ha una certa struttura e che a quell’ordine deve conformare la sua ragione.

È dunque solo nella misura in cui riusciremo a mettere in questione questo assunto fondamentale, che una vera trasformazione della nostra cultura diventerà possibile. Dobbiamo provare a ripensare da capo che cosa facciamo quando parliamo, calarci in quella zona opaca e interrogarci non sulla grammatica e il lessico, ma sull’uso che facciamo del nostro corpo e della nostra voce mentre le parole sembrano uscire quasi da sole dalle nostre labbra. Vedremmo allora che in quest’esperienza ne va dell’apertura di un mondo e delle nostre relazioni con i nostri simili e che, pertanto, l’esperienza del linguaggio è, in questo senso, la più radicale esperienza politica.

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