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La "gestione della terra" e concentrazione dell’agricoltura in Italia: i dati

di Alessandro Bartoloni

 

Il movimento dei trattori che sta scuotendo l’Italia ha suscitato un grande interesse per le condizioni dell’agricoltura nel nostro paese. Un settore sempre più concentrato nelle poche mani di grandi imprenditori capitalisti e per questo sempre più lontano dalle esigenze dei lavoratori, dei consumatori e della natura.

 

La gestione della terra

Dai dati ISTAT aggiornati al 2020 emerge che nell’arco di 38 anni si è passati da 3,1 milioni di aziende agricole a 1,1 milioni (-64%). E anche i terreni sono diminuiti: la superficie agricola utilizzata (SAU) è calata del 20,8%, quella totale del 26,4% per una perdita di 33 mila e 60 mila chilometri quadrati rispettivamente (per avere un’idea, l’intera Sicilia è grande meno di 26 mila km2).

Dunque, ci sono sempre meno aziende e il minor terreno a disposizione è gestito da soggetti sempre più grandi. Ma a fronte di una complessiva diminuzione della terra a disposizione che nell’ultimo decennio è stata pari al 2,5%, le piccole aziende risultano avere sempre meno terra, mentre quelle grandi l’aumentano.

Oramai, il 60% della superficie agricola utilizzata è in mano all’8% delle aziende (quelle con più di 30 ettari) con le imprese oltre i cento ettari che, pur rappresentando solamente l’1,6% del totale, controllano il 30% dei campi. Di contro, il 51% delle aziende più piccole (quelle con meno di 3 ettari) gestiscono meno del 6% di tutta la terra utilizzata.

 

La proprietà della terra

Ma la centralizzazione dell’utilizzo dei terreni non significa che l’imprenditore agricolo ne sia proprietario. Al contrario, si assiste a un progressivo aumento di aziende che lavorano terra altrui. Nel 2000 la superficie agricola utilizzata presa in affitto e in uso gratuito era pari al 23% del totale, nel 2010 era il 38% e oggi ha raggiunto il 50% (la superficie data in uso gratuito rappresenta il 10% del totale). In pratica si è assistito a una crescita che in vent’anni è stata di oltre il 103%, passando da 3.058.191 ettari (30 mila km2) a 6.217.988 (62 mila km2). Un risultato notevole, che nel complesso fotografa una situazione di parità fra la superficie condotta direttamente e la superficie condotta in affitto e comodato gratuito. Un processo di divaricazione tra proprietà e gestione che nelle regioni settentrionali è ancora più marcato.

Malgrado ciò, non sembrano esistere statistiche ufficiali riguardanti la proprietà della terra data in affitto. Difficile che appartenga ad aziende agricole che scelgono di non utilizzarla per fini produttivi. Molto più probabile che sia riconducibile a soggetti esterni al mondo agricolo. E se la tendenza alla centralizzazione della gestione della terra in capo a poche grandi aziende è vera, c’è da aspettarsi che tale tendenza valga anche per quanto riguarda la proprietà (e non c’è motivo per cui non lo sia). Di conseguenza, è verosimile aspettarsi una spartizione di questi terreni tra tanti piccoli proprietari di prime o seconde case in campagna, che concedono la poca terra a disposizione in comodato gratuito alla vicina azienda agricola in cambio della custodia dei campi e di qualche prodotto, e pochi grandi latifondisti (fondi di investimento, banche, assicurazioni, uomini politici e finanzieri) che controllano la maggior parte dei terreni (sopratutto quelli migliori).

In mancanza di dati, per farsi un'idea della situazione è necessario riferirsi a singoli casi emblematici. Illuminante quello della Oasi Dynamo, azienda agricola e agrituristica affiliata al WWF di proprietà del fondo di investimento Natural Capital, a sua volta controllato tramite da una multinazionale tedesca del rame (la KME), interessata agli investimenti nel mercato del carbonio celati dietro la nobile “difesa del capitale naturale”. L’Oasi Dynamo, infatti, gestisce circa mille ettari di terra in provincia di Pistoia (e a sua volta controlla un’altra azienda agricola in provincia di Mantova), che però sono stati intestati alla Natural Capital. Pertanto, l’azienda agricola lavora terra non più sua e per la quale deve pagare una rendita che, malgrado la crisi, nel 2021 è stata di quasi 60.000 euro e nel 2022 di oltre 264.000.

Inoltre, come avviene per un numero crescente di aziende operanti nel settore primario, la maggior parte del fatturato della Oasi Dynamo (oltre 1,2 milioni di euro) non proviene dall’attività agricola - che contribuisce solamente per il 29% dei ricavi totali del 2022 - bensì dalle attività alberghiere (32%) e dai “servizi ecosistemici” (39%), cioè dalla produzione e vendita di certificati di CO2 necessari per consentire alle industrie come la KME di continuare a inquinare (i dati sono stati ricavati consultando i bilanci depositati in Camera di commercio e i registri catastali).

 

La concentrazione degli investimenti

Il dominio delle grandi aziende si riscontra anche sul lato degli investimenti in capitale fisso. Per quanto riguarda la digitalizzazione, nel 2020 poco meno del 16% delle aziende agricole usava attrezzature informatiche o digitali, una quota oltre quattro volte superiore a quella rilevata nel 2010 (4%). Malgrado l’enorme crescita, la percentuale rimane ancora piuttosto bassa e nasconde profonde differenze a seconda della grandezza dell’azienda. Tra quelle che impiegano almeno dieci unità di lavoro (ULA) risultano informatizzate il 78% del totale, contro appena il 9% di quelle che ne impiegano uno o nessuno (le aziende che stanno nel mezzo e utilizzano attrezzature digitali sono il 45%).

Per quanto riguarda la presenza di investimenti innovativi nel triennio 2018-2020 solamente l’11% dichiara di averne effettuato almeno uno. Ma, anche in questo caso, in quelle con 10 o più unità di lavoro l’incidenza delle aziende innovatrici (58%) supera quella delle aziende che non effettuano investimenti innovativi (42%). Nelle aziende che contano tra 2 e 9 ULA la quota di aziende innovatrici è invece del 31% contro il 69% delle aziende che non innovano mentre tra quelle più piccole solamente il 6% ha effettuato un investimento innovativo nel triennio a fronte del 94% che non innova.

 

La concentrazione della forza-lavoro e della produzione

Questo processo di concentrazione degli investimenti e della terra in capo a poche grandi aziende richiede il passaggio da una gestione familiare a una gestione sempre più imprenditoriale basata sull’utilizzo di manodopera salariata. I dipendenti, che nel 2010 rappresentavano il 24% di tutti gli impiegati (familiari e non familiari), nel 2020 sono arrivati a rappresentare il 47%, facendo segnare una crescita di oltre il 22% in dieci anni e un’incidenza sul totale delle giornate standard lavorate che è arrivata al 32% (dieci anni prima era al 20%). Tra gli impiegati la tipologia più diffusa di manodopera è quella saltuaria (oltre il 66% del totale) mentre quelli non assunti direttamente dall’azienda agricola rappresentano il 7%. Particolarmente diffusa è la manodopera straniera: il 45% dei lavoratori non assunti direttamente dall’azienda non è di nazionalità italiana e la maggior parte di loro (il 29% del totale) proviene da Paesi extra Ue. Per quanto riguarda quelli saltuari le percentuali sono del 35% e del 20% rispettivamente. Nel complesso, la presenza della manodopera straniera tra i lavoratori non familiari si è accentuata nel decennio: nel 2020 è straniero circa un lavoratore su tre mentre nel 2010 era straniero uno su quattro.

Dove vadano a lavorare queste persone è presto detto. L’utilizzo dei dipendenti salariati, infatti, è maggiore tra le imprese con fatturato oltre i 100 mila euro che, pur rappresentando il 5% del totale, nel 2017 (ultimo dato disponibile) impiegavano il 54% di tutta la manodopera (le aziende con un fatturato oltre i 500 mila euro che sono lo 0,5% del totale impiegano il 17,5% dei lavoratori). Di contro, le aziende con fatturati inferiori a 50 mila euro (l’89% del totale) nel 2017 impiegavano meno del 29% di tutta la manodopera dipendente.

Per quanto riguarda la ripartizione della produzione, dai dati aggiornati al 2017 emerge che lo 0,5% delle aziende più grandi (quelle con fatturato maggiore di 500 mila euro) producono oltre il 22% del valore del settore (nel 2010 erano lo 0,4% e producevano meno del 20%). Se poi si vedono tutte le aziende che fatturano più di 100 mila euro, cioè il 5% del totale, la loro quota di produzione è pari al 56% del totale. Al contrario, le aziende con meno di 50 mila euro di fatturato sono l’89% (sette anni prima erano il 91%) e producono solamente il 28,5% del valore totale (nel 2010 era il 32%).

Stando così le cose, il mancato ricambio organico con la natura (inquinamento dell’aria, delle falde, della terra, impoverimento dei suoli, perdita di biodiversità, ecc) e la conseguente insicurezza degli ambienti di lavoro e la scarsa qualità di molti alimenti che arrivano sulle nostre tavole devono essere addebitati ai grandi capitalisti che investono nell’agricoltura, non ai piccoli e piccolissimi che, tra mille contraddizioni e senza il concreto appoggio dei braccianti e dei consumatori, protestano contro lo stato di cose presenti.

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