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Tronti e le rivolte dell’individuo massa. Un incontro mancato?

di Massimo Ilardi

Sono consapevole che prendere una posizione critica e anche poco argomentata, come nel caso di questo scritto, sul pensiero di Mario Tronti è una scelta che mi farà correre il rischio di un’avventura teorica pericolosa perché il confronto è con il più raffinato teorico e il più incomparabile interprete di quel lungo secolo che fu il Novecento. Ma ho deciso di assumermi questo rischio perché l’alternativa sarebbe stata poco ‘trontiana’ e cioè quella di descrivere semplicemente il suo pensiero o di accettarlo in tutta la sua complessità.

Una breve premessa autobiografica (che ho avuto occasione di discuterla con Gigi Roggero dopo aver letto il suo bell’intervento In guerra col mondo. Per Mario Tronti sulla rivista Machina all’indomani della sua morte): ho seguito fin dagli anni Sessanta e condiviso attivamente le fasi del suo pensiero, dall’operaismo all’autonomia del politico, e questo quando all’interno dello establishment culturale della sinistra esisteva nei suoi confronti un ostracismo neanche troppo velato. La cosa più ridicola che mi sta capitando in questi giorni è di leggere elogi sul pensiero di Tronti fatti dagli stessi intellettuali che se negli anni ’70 dicevi loro che stavi leggendo Carl Schmitt o Nietzsche ti davano come minimo del fascista!

Ma la differenza vera stava nel fatto che mentre loro volgevano lo sguardo trasognato a oriente e venivano fulminati dalla rivoluzione permanente di Mao e su questa utopia spaccavano addirittura la sinistra o si perdevano tra le righe di L’uomo a una dimensione di Marcuse, noi, invece, che sul pensiero di Tronti ci stavamo formando, venivamo spinti a occidente, a seguire Marx a Detroit e Lenin in Inghilterra, a leggere L’uomo senza qualità di Musil o La montagna incantata di Thomas Mann, ad ascoltare le sinfonie di Malher. Insomma, ci stavamo preparando ad affrontare “l’urto portentoso del pensiero negativo e della cultura della crisi”, ha scritto Marcello Tarì, riferimenti teorici completamente estranei all’ortodossia comunista di quel tempo.

Questa cesura nella cultura di sinistra nonostante gli opportunismi e l’omologazione galoppante del pensiero, esiste ancora oggi. L’autonomia operaia, la rude razza pagana, il pensiero di parte contro ogni universalismo, la critica alla società democratica, il realismo politico, il pessimismo verso la natura umana, la decisione come soluzione di uno stato di emergenza, solo per citarne alcune, sono ancora categorie che non vengono accettate o, nel migliore dei casi, vengono accettate con fatica da quella che rimane la sinistra italiana.

Detto questo va anche detto, secondo me, che la grandezza del pensiero di Mario Tronti rimane tutta piantata dentro il Novecento. E non perché non abbia capito questo presente anarchico, volgare e distruttivo ma perché ha pensato che si potesse criticarlo e redimerlo con quelle stesse categorie novecentesche di cui era un insuperabile interprete. E così il lavoro, la produzione, la rivoluzione, lo Stato, il partito, le classi, il popolo diventavano categorie che non sorgevano e decadevano con il tempo ma, come lo Spirito della storia, erano presenze eternamente perduranti che racchiudevano passato e avvenire. E anche se ritengo che senza queste categorie non si fa ricerca sociale o politica, la conseguenza è, se usate in maniera così incondizionata, che non riusciranno mai a leggerlo né a cambiarlo il presente ma solo a condannarlo o a denigrarlo, rifiutando le sue sfide. E per Mario Tronti così è stato. Di fronte alla fine dell’età della politica, all’avvento del dominio dell’economico e del primato del mercato, di fronte all’emergere di un individualismo che diventa categoria principe della cultura del consumo, al conflitto sociale che non si trasforma mai in rivoluzione o lotta di classe per l’abbattimento del sistema ma sempre in rivolta per l’appropriazione del presente, alla crisi dei partiti politici e delle loro organizzazioni spazzate via dalla formazione di una miriadi di gruppi e di minoranze tra loro ostili e, infine, a una domanda di libertà materiale che sul territorio non vuole impedimenti per appropriarsi di merci e di spazi (si provi a rinfacciare a un banlieusard che “il materialismo è una cosa da borghesi”!), Tronti scelse la via dello spirito e della sua libertà. Libertà dello spirito per resistere al mondo. Ma non si combatte l’ingiustizia, la violenza, l’oppressione di questo mondo con la metafisica a meno che non ne fai un problema di salvezza e di redenzione personale.

Alla fine fu una disfatta non solo politica ma sociale: perché se è vero che la classe operaia fu sconfitta dalla politica e non dalla società e la stessa “autonomia del politico” non trovò a sinistra una classe dirigente all’altezza del compito, è altrettanto vero che la scelta della spiritualità come forma di vita fu una sconfitta sociale, una sconfitta dentro questa società.

Se il problema del marxismo, come Tronti ha sempre scritto e sostenuto, è stato quello di aver sottovalutato il mutamento antropologico che stava avvenendo e che stava portando a una crisi verticale dell’agire politico e di conseguenza di non aver proposto una soluzione che rispondesse e si confrontasse con questo presente, perché di conseguenza non accettare la sfida delle rivolte urbane di questo XXI secolo come momento fondamentale per la ricerca di una nuova teoria del conflitto e della soggettività? Eppure, come scrive Andrea Cerutti, nel volume La rivoluzione in esilio da lui curato: “Il laboratorio dell’esperimento, per Tronti, era la fabbrica, lì dove la rivolta non è mai etica, perché i suoi abitanti, gli operai, non odiano l’ingiustizia, non sapendo neppure cosa sia la giustizia. Essi non credono più in un dio giusto che li possa vendicare. Anzi ribaltano la prospettiva: la giustizia diventa un valore universalistico che va bene per tutti e dunque non per loro. Dicono potere operaio, non giustizia proletaria. Odiano il loro nemico diretto e hanno imparato a far da soli.” Ma se al posto della “fabbrica” ci mettiamo le “periferie urbane” di oggi, cosa cambierebbe? Non fanno parte tutti, vecchia classe operaia e nuovi proletari urbani, della stessa “rude razza pagana, senza ideali, senza fede, senza morale”, come scriveva Tronti nel 1968 in Estremismo e riformismo, che “amano la vita e non gliene importa niente delle consolazioni ascetiche dei prodotti intellettuali e sanno conoscere e riconoscere solo la felicità terrena di tutti i sensi umani”, vogliono “lavorare poco e guadagnare molto”?

Mario Tronti risponderebbe che la differenza sta nella organizzazione: gli scioperi operai erano organizzati, le rivolte urbane non lo sono mai state, ma per abbattere il sistema il passaggio obbligato è nella organizzazione. Tanto è vero, seguiterebbe Tronti, che senza movimento operaio non ci sarebbe stata classe operaia. Ma gli si potrebbe ribattere che è altrettanto vero che sono le forme della lotta che rivelano i loro obiettivi. E allora non è stato un errore politico pensare che le forme di lotta della classe operaia come quelle delle rivolte delle periferie urbane avrebbero avuto allora e avrebbero oggi come obiettivo l’abbattimento del sistema? Non è forse vero che, nel primo caso, l’autonomia della classe rispetto alla strategia del sindacato e alla tattica del partito, e, nel secondo caso, lo spontaneismo come metodo di lotta, abbiano giocato e giochino un ruolo determinante contro la rivoluzione? E allora, se per capire è dai conflitti sociali che bisogna partire, come Tronti ci ha sempre insegnato, quale valutazione va data agli stessi conflitti soprattutto in un tempo come il nostro che non è più quello scandito dal lavoro ma dal consumo e dentro uno spazio che non è più quello disegnato dalla politica ma dalle pratiche di libertà?

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