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lordinenuovo

Il covid-19, l'inadeguatezza del capitalismo e la necessità della pianificazione

di Domenico Moro

chiuse attività essenzialiUna crisi potenzialmente più profonda di quella del 1929

Quella davanti a cui ci troviamo è una sorta di “tempesta perfetta”, che dimostra l’inadeguatezza storica del modo di produzione dominante, quello capitalistico. Infatti, la Pandemia del Covid-19 interviene in un momento delicato per l’economia mondiale, in cui la ripresa ciclica perdeva vigore anche a causa di eventi come la Brexit, i dazi protezionistici e il rallentamento dell’economia tedesca. In gran parte del mondo più avanzato e industrializzato le attività sono bruscamente rallentate e in certi settori fondamentali sono del tutto o quasi del tutto ferme. Metropoli come New York, Madrid e Milano sono in quarantena.

Solo in Italia si calcola che il 60% delle attività produttive sia bloccato. Ciò significa che ogni settimana si perdono 10-15 miliardi di Pil. I primi decreti del governo hanno bloccato a casa quasi otto milioni di lavoratori pari al 44% dei dipendenti attivi, ma tale percentuale è destinata a crescere per i nuovi blocchi previsti dal governo. L’entità della perdita di Pil e soprattutto di aziende e posti di lavoro dipenderà dalla durata della serrata che, a sua volta, dipenderà dalla durata della pandemia. Gli esperti dicono che anche dopo il superamento del picco bisognerà mantenere in atto misure di contenimento, che continueranno a gravare sull’attività produttiva anche perché prima di avere la disponibilità di un vaccino passerà un anno e c’è la possibilità che a dicembre prossimo si verifichi una recrudescenza della pandemia influenzale. Secondo le parole di Draghi le conseguenze economiche e lavorative della pandemia saranno “bibliche”.

La crisi del covid-19 sarà molto più grave della crisi del 2009 e di quella dei mutui del 2011, prospettandosi il pericolo di una vera e propria depressione come nel ‘29. Nel 2009 il Pil mondiale registrò il primo decremento dalla fine della Seconda guerra mondiale con il -1,28%[1].

Questa volta si prevede una decrescita dell’economia globale per il 2020 del -2,3%, secondo la banca internazionale svizzera Julius Baer’s, e del -2,6% secondo la statunitense Wells Fargo. Solo negli Usa Morgan Stanley prevede nel secondo trimestre di quest’anno un calo del Pil del -30%. Per l’Italia il Centro studi Confindustria prevede un calo di almeno il -6% del Pil, persino superiore al decremento del ’29 (-4,6%), e soltanto a patto che la crisi pandemica si arresti a fine maggio con la riapertura del 90% delle attività.

Mentre nel 2009 al crollo delle economie dei Paesi avanzati (-2,53% negli Usa e -5,62% in Germania) fece da compensazione la forte crescita cinese (+9,65%), oggi, la Cina non può garantire quegli stessi tassi di crescita, essendo stata la prima nazione a patire il blocco economico per il Covid-19. Si prevede che il gigante asiatico chiuderà l’anno, se gli effetti del Covid-19 dovessero protrarsi fino a secondo trimestre, al +4,9%, cioè al livello più basso degli ultimi venti anni, non potendo così assumere il ruolo di traino dell’economia mondiale come fu nell’ultima crisi.

Che la situazione sia particolarmente grave è dimostrato dall’entità degli stimoli monetari che le banche centrali hanno messo in campo, e che sono pari al 10% del Pil mondiale a fronte del 6,5% nel 2008-2009 e dagli interventi statali, che ad oggi raggiungono il 2,5% del Pil mondiale contro l’1,6% del 2008-2009. L’intervento, come al solito, è stato massiccio negli Usa, dove Trump ha messo in campo un maxi piano da 2000 miliardi, comprendente uno speciale fondo di salvataggio di 500 miliardi per le grandi imprese in affanno.

 

Il fallimento dell’Europa davanti alla crisi

In Europa la situazione è diversa, perché qui la struttura dell’euro e dell’unione, basata sull’austerity e sul contenimento del debito e del deficit pubblico, ostacola in alcuni Paesi, proprio quelli più colpiti dal Covid-19, l’impiego di quelle risorse massicce che sarebbero necessarie per far fronte alla pandemia e soprattutto alla crisi che ne scaturirà.

A poco è servito che i vincoli del fiscal compact, in particolare il limite del 3% al deficit, siano stati temporaneamente sospesi. Infatti, per poter spendere, gli stati devono emettere titoli di stato e indebitarsi sul mercato, facendo crescere il deficit e soprattutto il debito pubblico. Il problema è che alcuni stati, come la Germania e l’Olanda, hanno un indebitamento molto basso, intorno al 50-60% sul Pil, mentre l’Italia ha un indebitamento del 135% e Francia e Spagna intorno al 100%. Mentre la Germania e l’Olanda pagano sul loro debito tassi d’interesse molto bassi, l’Italia paga interessi molto più alti e quindi emettendo debito aggiuntivo – si ipotizza nel 2020 di raggiungere il 5% di deficit e il 150% di debito pubblico -, si troverebbe a dover pagare interessi in modo proporzionalmente più alto e potenzialmente insostenibile. Quando la Lagarde, presidente della Bce, all’inizio dell’emergenza Covid-19 ha improvvidamente dichiarato che non era compito della banca centrale contenere lo spread – cioè la differenza tra il tasso d’interesse dei titoli della Germania e quelli degli altri stati, il differenziale tra Germania e Italia è schizzato ai massimi. Successivamente la Lagarde è tornata sui suoi passi varando un nuovo programma di acquisti di 750 miliardi fino a fine anno rivolto ai titoli di stato europei (Peep), togliendo anche il limite del 33% dei titoli acquistabili.

Ciononostante il problema rimane, perché l’acquisto di titoli, come del resto in tutti gli acquisti dell’epoca Draghi, è rivolto a tutti i Paesi, Germania compresa, e perché c’è comunque un limite finanziario determinato all’acquisto del debito sovrano. Una soluzione sarebbe la vecchia proposta di Prodi di emettere degli euro-bonds, definiti per l’occasione corona-bonds, cioè dei titoli europei garantiti da tutta l’Europa e da acquisti illimitati della Bce. Ma, nei fatti, gli Stati europei stanno affrontando la crisi ognuno per suo conto. Infatti, la riunione dell’eurogruppo, l’insieme dei ministri delle finanze, non è riuscita a prendere alcuna decisione condivisa, definendo soltanto un bilancio comunitario che arriva appena all’1% del Pil della Ue. Una inezia. Ugualmente senza decisioni è stata la successiva riunione del Consiglio della Ue, la riunione dei capi di governo, dove ci si è spaccati in due fonti, uno composto, tra gli altri, da Italia, Spagna e Francia e l’altro capitanato da Olanda e Germania. Mentre i primi hanno caldeggiato l’idea dei corona-bonds, i secondi l’hanno rifiutata, sostenendo che i Paesi in difficoltà debbano rivolgersi al Mes, il meccanismo di stabilizzazione europeo, per avere i prestiti necessari. Il fatto è che il Mes, oltre a non avere le risorse sufficienti (450 miliardi in tutto), imporrebbe delle condizioni capestro, come già successo alla Grecia, al Paese che ne richiedesse i fondi, condizionandone le politiche economiche e sociali in senso restrittivo per molti anni.

Insomma davanti alla maggiore crisi dal ‘29, persino superiore a quella del 2008-2009, l’Ue e l’area euro continuano a essere una gabbia che impedisce il ricorso a politiche anticicliche, almeno in alcuni Paesi. Mentre la Germania si è potuta permettere uno stanziamento iniziale di 500 miliardi, l’Italia si è dovuta limitare alla del tutto inadeguata cifra di 25 miliardi. Si sta dimostrando ancora una volta l’intima rigidità del sistema europeo agli shock esterni, già vista nella crisi precedente, che sfociò nella crisi dei debiti sovrani nel 2011, durante la quale, anziché ricorrere a politiche espansive, si effettuarono dei tagli sulla spesa pubblica, i cui risultati stiamo vedendo oggi in termini di difficoltà del sistema sanitario nazionale, persino nelle aree più ricche del Paese, a fare fronte all’emergenza Covid-19.

 

Le contraddizioni del sistema capitalistico alla base della crisi

Ma il vero punto cardine di tutta la faccenda non sta nel Covid-19, bensì sta nella intrinseca fragilità del sistema capitalistico. Il modo di produzione capitalistico presenta da parecchi anni una sovraccumulazione di capitale nei suoi centri principali, in particolare in Usa, Europa e Giappone.

Ciò significa che si è accumulato troppo capitale perché questo possa realizzare il saggio di profitto adeguato: si realizza quella che Marx chiamava la caduta tendenziale del saggio di profitto[2]. In questo modo rischia di incepparsi il meccanismo di accumulazione stesso, basato sul continuo accrescimento del capitale, che è sintetizzato dalla formula D-M-D’, che significa investire capitale-denaro (D) per produrre merci (M), contenenti un plusvalore, che, una volta realizzato mediante la venduta delle merci stesse, determina un incremento del capitale-denaro investito (D’).

Nei primi anni 2000 si era pensato di risolvere il problema con l’economia a debito. I consumatori ottenevano facilmente prestiti dalle banche per acquistare le sempre più ingenti merci prodotte ai prezzi ritenuti adeguati dagli investitori, permettendo così il completamento del ciclo d’accumulazione capitalistico. Il meccanismo si spezzò, però, quando nel 2007 scoppiò la bolla finanziaria che sosteneva tutto il sistema dell’economia a debito. Le banche erogatrici dei prestiti, piene di crediti inesigibili, si ritrovarono prossime al fallimento e lo Stato dovette intervenire, trasformando il debito privato delle banche in debito pubblico, che a sua volta portò alla crisi dei debiti sovrani, che culminò con la crisi greca. La situazione venne momentaneamente e parzialmente risolta soltanto con la determinazione di Draghi, allora presidente della Bce, di fare tutto il necessario per sostenere i debiti sovrani e di conseguenza la stessa esistenza dell’euro con programmi di acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce. Quindi, già allora si vide come il modo di produzione capitalistico non può sopravvivere senza stimoli artificiali e soprattutto senza l’intervento dello Stato, che salvò le banche e le imprese in difficoltà.

Oggi la situazione è molto diversa e più difficile, perché il problema non si riduce alla carenza di domanda. il meccanismo di accumulazione è di fatto interrotto sia nella prima fase, D-M, perché molti settori hanno interrotto la produzione, sia nella seconda fase M-D’, perché l’acquisto delle merci e quindi la realizzazione del plusvalore non avviene.

Non basta sostenere la domanda, come predicano le teorie neokeynesiane. Siamo, infatti, sull’orlo di un vero e proprio crollo del sistema. Le imprese non riescono né a produrre né a vendere e, rimanendo in questa condizione per un tempo lungo, potrebbero mancare, anche qualora il mercato ripartisse, della necessaria liquidità che permetta di saldare i debiti e rinnovare il ciclo d’accumulazione, l’anima della produzione capitalistica.

Alla fine della quarantena forzata le imprese rischiano di ritrovarsi nella impossibilità di riprendere le attività e di riassorbire la forza lavoro lasciata a casa, creando così milioni di disoccupati permanenti. Pensiamo che nel solo settore turistico, che è del tutto bloccato e che richiederà molto tempo per tornare a girare a pieno ritmo, lavorano in Italia circa un milione di addetti contribuendo al 13% del Pil. Molte imprese dovranno chiudere o nel migliore dei casi essere assorbite da altre imprese più forti o da fondi di investimenti ricchi di liquidità, accentuando così il fenomeno della centralizzazione del potere economico in poche mani. 

 

Sostituire la produzione capitalistica con la produzione pianificata e sociale

Se la crisi del 2008-2009 ha spazzato via il 25% della capacità produttiva della manifattura italiana, possiamo immaginare gli effetti della crisi che è appena iniziata.

Questo dimostra alcune cose. La prima è che il modo di produzione capitalistico, basato sul profitto e sul mercato, non è in grado di resistere a shock come quello del Covid-19. La seconda è che le contraddizioni del sistema capitalistico e dell’area euro, già manifestatesi nella crisi di dieci anni fa, si ripresentano approfondite nella crisi attuale. La terza è che c’è bisogno di un cambio di paradigma all’interno del capitalismo stesso.

Un mutamento che vada oltre anche le ricette Keynesiane, cioè oltre il sostegno alla domanda. Il capitalismo non è qualcosa di immutabile, ma tende ad adattarsi per sopravvivere e la crisi attuale è di portata così ampia che il vecchio paradigma neoliberista, basato sulla concezione che il mercato, lasciato libero di agire, avrebbe riaggiustato prima o poi le cose, non può più funzionare. In sostanza ad essere saltata è proprio la concezione su cui si basano le politiche europee e l’area euro.

Le parole di Draghi sul Financial Times sono significative: siamo in una situazione paragonabile a quella di guerra. In guerra le enormi spese necessarie all’emergenza e ai costi della chiamata alle armi di una ampia parte della popolazione in età lavorativa si risolvono soltanto con il debito pubblico, cioè emettendo denaro da parte della banche sostenute dallo Stato e dalla banca centrale. In poche parole Draghi compie una svolta ad U rispetto alla posizione tradizionalmente sostenuta per anni: bisogna permettere al debito pubblico di crescere senza starsi a preoccupare di contenerlo. Se non si agirà così, dice Draghi, usciremo dalla crisi distrutti. Non è un caso se, dopo l’articolo sul Financial Times dell’autorevole banchiere, Conte abbia deciso di non firmare il documento uscito dall’eurogruppo, rifiutando i pannicelli caldi e la trappola del Mes, e la Lagarde, tornando indietro rispetto alle posizioni assunte poco prima sullo spread, abbia dato avvio al Pepp.

Se, però, è vero che il capitalismo stesso – per bocca di suoi autorevoli esponenti come il Financial Times e Draghi, che, non dimentichiamolo, viene dal mondo della grande finanza capitalistica – si rende conto che c’è bisogno di cambiamenti di paradigma importanti, questo non implica che le contraddizioni al suo interno vengano meno. Al contrario vengono approfondite proprio dalla gravità della fase e dalle resistenze al cambiamento che viene impresso dalla crisi. Infatti, in primo luogo non c’è accordo tra i vari capitali che compongono l’unità di quel molteplice che è il modo di produzione capitalistico. Al contrario, proprio lo scontro in atto all’interno della Ue e dell’area euro fa emergere in modo ancora più chiaro la brutale concorrenza tra capitali, attraverso la spaccatura tra i vari settori del capitalismo europeo e tra gli Stati imperialisti che li rappresentano, che abbiamo visto plasticamente rappresentata nell’ultimo Consiglio europeo.

La spaccatura tra Stati capitalistici e imperialisti più deboli e in difficoltà e Stati più forti è così profonda e grave da mettere su fonti opposti Francia e Germania, sebbene soltanto un anno fa avessero firmato il trattato di Aquisgrana, che avrebbe dovuto sancire l’Ue a trazione franco-tedesca. In secondo luogo, la nuova “grande trasformazione”[3] che, così come accadde negli anni ’30 del secolo scorso, sembra si stia profilando all’orizzonte, è diretta a sostenere l’accumulazione capitalistica e le imprese. A essere sostenute saranno soprattutto le imprese grandi e internazionalizzate, magari aiutandole a centralizzare la produzione, realizzando “campioni” nazionali o europei, anche attraverso temporanee nazionalizzazioni, che servano a salvare le imprese più in difficoltà. Ai lavoratori andranno le briciole. Anzi, la crisi sarà utilizzata per colpire le posizioni negoziali di questi ultimi, indeboliti dalla nuova disoccupazione di massa che si sta già profilando a pandemia in corso.

Il vero tema è, come dice Draghi, non se ma come avverrà che lo Stato utilizzerà il suo bilancio. Il nuovo paradigma, anche se riuscirà a vincere, almeno temporaneamente, l’opposizione alla spesa pubblica finanziata da deficit di bilancio e far accettare gli aiuti di stato per salvare imprese ritenute strategiche nazionalmente, come sta accadendo con Alitalia, non riuscirà a far accettare l’idea di nuovi investimenti che vengano gestiti direttamente dallo Stato. I finanziamenti pubblici devono, all’interno del capitalismo, sostenere l’impresa privata: l’uomo d’affari rimarrà l’intermediario attraverso cui viene condotto l’intervento.

Al contrario questa crisi dimostra la necessità che lo Stato, il pubblico, non si limiti a offrire liquidità alle imprese, o a finanziare opere infrastrutturali, ma che entri direttamente nella produzione di beni e servizi, anche nei settori dove è presente il privato.

In definitiva, la crisi del Covid-19, soprattutto, ripropone la questione di cui non si parla da molto tempo e che per qualche decennio dopo la seconda guerra mondiale fu al centro della discussione degli economisti e non solo, quella della pianificazione economica. La pandemia, infatti, dimostra in modo esemplare l’intima fragilità dell’accumulazione capitalistica e la necessità di una produzione sociale al posto di quella privata capitalistica. Solo una produzione sociale, svincolata dalle regole del profitto e del mercato, può soddisfare i bisogni dell’umanità e affrontare i problemi posti alla società dall’economia e dallo sfruttamento intensivo della natura.

Intanto saranno i rapporti di forza e la capacità di lotta che eventualmente si svilupperanno con la crisi, una volta che la quarantena sarà superata, a definire la distribuzione delle risorse tra profitti e salari. Più sulla media e lunga distanza questa pandemia, pur nel dolore e nelle sofferenze che ha causato, potrebbe essere l’occasione, come in ogni vera profonda crisi, per rimettere in discussione non solo il paradigma neoliberista, già in via di modificazione da una parte del capitale stesso, ma soprattutto il paradigma capitalista in sé stesso.

Una forza politica che fosse davvero “storica”, cioè che aspirasse a candidarsi all’egemonia, dovrebbe sfruttare la condizione materiale presente e tentare di inserirsi nelle contraddizioni ormai evidenti del capitale, tentando di allargarle e costruire organizzazione e antagonismo.

Un compito che non può prescindere dal porsi la questione della rottura della Ue e dell’euro, che hanno ormai dimostrato con tutta evidenza la loro reale funzione.


Note
[1] Unctad, data center
[2] La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è spiegata da Marx nel III libro del Capitale, nei capitoli XIII-XIV.
[3] La Grande trasformazione di Karl Polanyi è il libro in cui si parla del fallimento del mercato autoregolato dopo la crisi degli anni ’30 e del mutamento di paradigma che allora il capitalismo assunse.

Comments

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Paolo Selmi
Thursday, 09 April 2020 16:36
Ma sicuramente, Alfonso... almeno, NON TUTTO tramite "valore".

D'altronde, nel momento in cui creo un modello economico che va progressivamente nella direzione di "a ciascuno secondo i suoi bisogni", passo successivo di "a ciascuno secondo il suo lavoro", e che già non può non valere, per esempio, per la cura degli anziani o dell'infanzia, per l'istruzione gratuita e per la sanità gratuita, per i musei aperti a tutti (e in Russia mi ricordo nel 2004 con una semplice dichiarazione della dom druzhby che stavo studiando russo, entrai ancora GRATIS all'Ermitage, che per noi stranieri costa un botto), piuttosto che per gli spettacoli teatrali, le manifestazioni culturali, ecc., è naturale che mi debba confrontare con situazioni che, in un regime capitalistico, sarebbero definite "a perdere".

L'equivalente resta marxianamente il lavoro. L'equivalente universale. Un equivalente come "base" su cui andare poi a fare un'altra considerazione. E qui il modello di Syroezin comincia a entrare nel concreto.
Pianificazione = misura, concreta, delle tappe e delle risorse necessarie per passare da una struttura A di partenza a una struttura B di arrivo.
Una struttura dettagliata dove ogni elemento è interrelato (le sue aree economiche e zone, laddove la zona di uscita di un processo è la zona di entrata di un altro, ecc.)
Dove quindi è facile individuare percorsi dove, sottraendo entrate e uscite (input e output del modello precedente), si riesca ad andare ORIZZONTALMENTE in compensazione dal primo elemento della matrice all'ultimo. Ma non solo, si individui anche una MATRICE VERTICALE, dove anche la distanza MAGGIORE o MINORE da ciascun punto A(1,2,3,x) della struttura A a ciascun punto B(1,2,3,x) di arrivo sia elemento di "VALORIZZAZIONE", a questo punto, a prescindere dalle semplici 8 ore al giorno. In altre parole, sia riconosciuta anche la capacità di TRASFORMAZIONE economico-sociale, specialmente nell'ambito produttivo, e UTILITA' sociale, intesa come ruolo determinante ad assolvere a funzioni previste dal piano e impensabili senza il contributo di tale figura: sanità, istruzione, cultura, ecc.

Ecco quindi che le due modalità di misurazione non vanno in competizione fra loro ma si integrano: la prima per fare da base, per individuare le risorse. La seconda per valutare il modello di società a cui si vuole puntare e "valorizzare" (ovvero riconoscere il giusto contributo apportato) quelle risorse che contribuiscono al suo raggiungimento.

Paradossalmente, la progressiva automazione del processo produttivo CONTRIBUIREBBE in maniera determinante, in quest'ottica, a creare le basi non per una progressiva precarizzazione del lavoro, come succede da noi, e dequalificazione dello stesso. Ma, al contrario, per liberare ancora più energie da lavori monotoni, magari usuranti, ma al momento socialmente necessari, e convogliare in lavori più creativi, socialmente utili a raggiungere il modello di società dove ciascuno potrà realizzare concretamente il proprio essere umano, sotto ogni aspetto (fisico e spirituale, "ein Totaler mensch") libero da ogni alienazione, come scrive nei Manoscritti: "Der Mensch eignet sich sein allseitiges Wesen auf eine allseitige Art an, also als ein totaler Mensch." ("L'uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale. ").

Ciao!
Paolo
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Alfonso
Thursday, 09 April 2020 07:52
Domanda : e se il valore avesse fatto il suo tempo come rappresentante della vita, non solo umana?
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Alfonso
Thursday, 09 April 2020 07:49
Ottimo l'esempio del valore-scambio. Fa parte della esperienza quotidiana di qualunque essere umano adulto che ogni lacerazione del rapporto tra valore-uso e valore-scambio viene ricomposta, se necessario con la forza. Puoi farti i pomodori in giardino, e per te sono valore-uso e basta, ma i vicini ti guardano male, per loro (per la società) stai risparmiando soldi, non aderisci alla campagna 'compra italiano', sei un parassita. Il valore-scambio ha sussunto realmente il valore-uso, e da questo la società non é disposta a tornare indietro. Eppure, ha la capacità di portare avanti questa contraddizione. Sempre che non venga messo in discussione il principio fondamentale, che il valore sia l'alfa e l'omega della vita umana. All'orizzonte della totalità del modo di produzione, e come minaccia a questa mostruosa totalità, si fa avanti quanto sia impossibile non alla specie, ma molto semplicemente allo stato presente delle cose. Non come capacità, ma come necessità. Grazie
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Paolo Selmi
Wednesday, 08 April 2020 23:29
Caro Domenico,
ben ritrovato e complimenti per la tua analisi. La pars destruens, va da sé, sfonda una porta aperta. Altrimenti tradurrei e lavorerei su altro. "Pianificazione" per me significa due anni di lavoro intenso e venti di ricerca più blanda, ma sempre focalizzata intorno a tale campo di esistenza.
E' la pars construens che invece, a mio avviso, necessiterebbe di maggiore chiarezza.
" la necessità che lo Stato, il pubblico, non si limiti a offrire liquidità alle imprese, o a finanziare opere infrastrutturali, ma che entri direttamente nella produzione di beni e servizi, anche nei settori dove è presente il privato."
non implica, per esempio, necessariamente
"una produzione sociale, svincolata dalle regole del profitto e del mercato".
Il capitalismo di stato cinese, piuttosto che vietnamita, piuttosto che italiano all'epoca delle partecipazioni statali, ma anche oggi con l'ENI, è lì a dimostrarlo.
In altre parole, lo stato che produce beni di consumo e basta è uno stato che soggiace alle leggi del capitalismo. Un capitalismo moto-modo di produzione legato, come ben noti nella tua analisi, a livello globale in maggior misura rispetto al 2008.
Il tuo titolo, allora, è molto più esplicito del testo. La parola pianificazione necessita chiarezza, da questo punto di vista. Nel modo capitalistico di produzione, non importa se con una forma mista di proprietà o - peggio ancora - con un controllo indiretto della res economica (le famose terze vie... finite tutte contro un muro), più che di pianificazione si può parlare di PROGRAMMAZIONE. si può quantomeno tentare di farla, poi se non riesce saluti e baci: obbiettivi macroeconomici, poi c'è la congiuntura, poi di qui, poi di là... Luciano Barca su questa specifica voce aveva compiuto nel suo Dizionario di politica economica un'analisi molto lucida. Ne accenno brevemente in una puntata del mio lavoro su Syroezin:

=== inizio citazione ===

Luciano Barca, nel suo Dizionario di politica economica, riassume in modo molto lucido la questione. Dopo aver doverosamente premesso che “nel mercato capitalistico l’offerta è determinata dalle decisioni dei capitalisti o, meglio, dei grandi gruppi monopolistici i quali impongono le grandi scelte che determinano tutte le altre”, egli aggiunge:

In regime capitalistico, il mercato riesce a garantire al sistema un equilibrio soltanto al prezzo di ridurre la quantità di ricchezza che viene accumulata rispetto a quella che sarebbe astrattamente possibile ove tutto il plusvalore fosse impiegato produttivamente. Pertanto, due dei problemi che un’economia di mercato lascia irrisolti sono, da un lato, quello di far corrispondere le scelte effettive ai bisogni reali della società e non alle esigenze di reddito dei capitalisti e, dall’altro, quello di aumentare la capacità accumulativa del sistema rendendolo capace di produrre più risorse e di occupare più forza lavoro. Lo strumento della programmazione dovrebbe in teoria contribuire a risolvere questi due problemi. La programmazione, cioè, dovrebbe essere lo strumento con cui lo Stato corregge le scelte determinate dal mercato facendo in modo che esso funzioni meglio (è, dunque, cosa diversa dalla pianificazione che, invece, sostituisce il mercato)4.

Barca quindi continua elencando i due tipi di “leve”, indiretta e diretta, con cui lo Stato “programma”: nel primo caso saranno vincoli e incentivi a tentare di indirizzare il sistema nell’impiego di una parte di risorse, che resterà SEMPRE residua, “per soddisfare quelle esigenze della domanda sociale che altrimenti resterebbero eluse”. Laddove la prima non dovesse funzionare, lo Stato potrebbe ricorrere anche alla seconda leva, riformando parte delle strutture capitalistiche esistenti e creando una domanda effettiva, fino ad allora assente, perché finalmente possa ripartire il ciclo di riproduzione capitalistica allargata. Riprendiamo il ragionamento di Barca (sottolineato mio):

Ciò che può indurre i capitalisti a mutare la qualità e la quantità della loro produzione, è che esista per tale produzione un mercato di sbocco di qualità mutata. Pertanto, […] occorre sostituire gradualmente, ma rigorosamente, alla domanda effettiva esistente una nuova domanda effettiva, socialmente, qualificata, e tale da assicurare, ovviamente, una “normale” remunerazione del capitale impiegato5.

Soluzione “riformistica”, “cinese” o finanche “russa” per intenderci, sicuramente migliore degli ecoincentivi, di quota cento, e del cosiddetto “reddito di cittadinanza”, ovvero di sudditanza. Tuttavia, resta sempre il problema di fondo, che è anche la contraddizione di fondo del modo capitalistico di produzione, oggi come allora. Il “mercato di sbocco” viene creato, ma il Capitale non si accontenta di una “normale” remunerazione del capitale impiegato! Oggi i capitali cinesi piuttosto di andare nello Xinjiang, o in Tibet vanno nei paradisi fiscali! Altrimenti non ci sarebbero coefficienti di Gini da paura e redditi 18 volte maggiori! O il Capitale si supera, si abolisce, oppure avviene il contrario, con buona pace di tutte le pie, “riformistiche”, illusioni che hanno nei decenni obnubilato – magari sotto quintali di carta “nepistica” e bei preamboli (perché il “residuo” presuppone che ci siano sempre “due tempi”, di cui il primo finisce sempre troppo tardi, se non mai) – qualsiasi discorso realmente socialistico e rivoluzionario, al punto da renderlo “utopia”, anche quando utopia non era.

Pertanto, in entrambi i casi, valgono le parole profetiche pronunciate dalla relazione di minoranza del gruppo parlamentare comunista al progetto di “programma pluriennale di sviluppo” (1965-1969) elaborato in Italia dall’allora maggioranza di centro-sinistra (cfr. Camera dei Deputati, Atti, n. 2457, Disegno di legge presentato nella seduta del 16 giugno 1965, sottolineato mio):

I consumi sociali divengono un residuo che verrà o non verrà realizzato secondo quanto il mercato monopolistico, a valle delle proprie scelte, consentirà; il raggiungimento degli obbiettivi sociali viene fatto dipendere dal funzionamento di un sistema che di fatto li nega e, in funzione di ciò, si pongono alla società una serie di vincoli e si cerca di organizzare il consenso. I consumi sociali non vengono visti in rapporto ad una trasformazione della società, espressione di una diversa impostazione della vita degli individui dei gruppi, nel quadro di un sistema produttivo diverso da quello attuale, ma come qualcosa da aggiungere ai consumi oggi in atto: la spesa per essi diviene così una spesa addizionale, da sovrapporre ad una società e ad un sistema che marciano in altra direzione. Con il risultato di proporre una una soluzione, o irrealizzabile (in assenza di “residui”), o estremamente costosa e povera nei suoi risultati effettivi6.

Sono parole “profetiche” perché, dopo oltre mezzo secolo, tutto il mondo gira secondo questa logica. Tutto.
=== fine citazione ===
https://www.sinistrainrete.info/teoria/14661-ivan-mikhajlovic-syroezin-pianificabilita-pianificazione-piano-3.html

"O il Capitale si supera, si abolisce, oppure avviene il contrario": fermiamoci su questa frase. E aggiungiamo un'altra riflessione, che avevo fatto a suo tempo su queste pagine su un lavoro di ESSEN, in maniera molto più colloquiale.

=== inizio ===
E infine: Valore d'uso/Bisogni/Valore d'uso/ecc...
Perché no? Cosa determina il primo? I secondi. Ma cosa/chi determina i secondi?
Un operaio che, nel capitalismo è ALIENATO peggio della peggiore ape operaia? (Marx dice bene, ma non parla certo di un operaio alla catena o di un impiegato che "TU NON SEI PAGATO PER PENSARE!", secondo i classici stilemi del cazziatone padronale.
No. in un mercato capitalistico, dove "L'OFFERTA E' DETERMINATA DALLE DECISIONI DEI CAPITALISTI O, MEGLIO, DEI GRANDI GRUPPI MONOPOLISTICI I QUALI IMPONGONO LE GRANDI SCELTE CHE DETERMINANO TUTTE LE ALTRE" (Luciano Barca, Dizionario di Politica Economica, Roma, ER, 1974, p. 119)
il problema non è solo (SOLO!) se smerciare un tv a 55 pollici o rimodernare ovunque i reparti di pronto soccorso pediatrico (ovviamente la prima!), ma COME INDURRE IL CONSUMATORE MEDIO A METTERE LA FAMIGLIA A PANE E CIPOLLA FINO AL TANTO AGOGNATO POSSESSO, IN CONTANTI O "COMODE RATE", DEL SUDDETTO 55 POLLICI 4K.
Ridefinire i bisogni implica ridefinire il valore d'uso. In un mondo dove una merce "tecnologica" diventa obsoleta in 6 mesi. di quale valore d'uso stiamo parlando? di quali bisogni stiamo parlando?
Le TELEMETRO Kiev, prodotte dalla Arsenal con le linee smontate dalla Contax come riparazione dei danni di guerra, FURONO PRODOTTE, CON POCHE VARIAZIONI, PER MEZZO SECOLO! Stesso discorso per le ZENIT, con il loro OTTURATORE A TENDINA LEICA (prima serie) da 1/30 a 1/500 di secondo! Anzi, l'ultima Zenit prodotta dalla KMZ (412-DX), ormai ridotta a simulacro di plastica contenente il leggendario meccanismo, identico alla prima, metallica, reflex del dopoguerra, esce a cavallo del nuovo millennio. Nel tributo alle mie amate vecchiette (https://www.academia.edu/23481893/FOTOGLAZ_Epopea_fotografica_sovietica_e_mutamenti_del_valore_d_uso_fotografico) parlo di "valore d'uso fotografico". Parlo proprio di questo, quindi non mi dilungo neppure perché non è questa la sede.

Ma questa osservazione mi offre la possibilità di porre l'accento su un dettaglio non da poco. "Der Gebrauchswert verwirklicht sich nur im oder der Konsumtion", ricordi giustamente Leo. Il Valore d'uso. Benissimo. Giustissimo. Una brugola che mi serve per montare quattro assi da mercatone, trova compimento del suo valore d'uso nel mio consumo, o utilizzo (NOTO PER INCISO COME SEMPRE DI PERFEZIONAMENTO SI PARLI, DI PROCESSO MOTO MOVIMENTO). Ma la brugola in questione appartiene a un set di brugole VENDUTO IN TOTO DA UN CAPITALISTA CHE ME LE HA APPIOPPATE A PRESCINDERE DAL FATTO CHE IO POSSA MAI USARE, NELLA MIA VITA, IL BRUGOLONE E IL BRUGOLINO CHE APRONO E CHIUDONO QUELLA (INUTILE) SERIE. Stesso discorso per la fotocamera che scatta a 1/4000 di secondo in mano a un normale utilizzatore, per il televisore 4K in un paese che non trasmette 4k, per la macchina che scalda i sedili a latitudini tutt'altro che siberiane, e via discorrendo. In altre parole, PERSINO IL VALORE D'USO E' FALSATO RISPETTO ALL'USO EFFETTIVO CHE SI FA COMUNEMENTE DI UN BENE DI CONSUMO. E CHE TUTTAVIA E' PERCEPITO COME "BISOGNO". Bisogno crescente, magari.

Questo, senza menzionare poi le arance sotto i bulldozer per tenere il prezzo alto, e altre oscenità/vergogne che vanno sotto la stessa voce.

Torniamo infine al povero Carletto Marx. Ma poteva mai immaginare, lui, TUTTA LA DEGENERAZIONE DI QUESTO ESSERE ANTROPOMORFO CHIAMATO UOMO fino a questo esaltante scorcio di inizio millennio? Non diamogli queste colpe. Gli esseri umani di due secoli fa, persino nel già abbastanza "inquieto" Occidente di allora, erano molto più basici di quelli di oggi. Dove una casa se non la si "spugna" in questo locale e si fa tutta tappezzata "design" in quell'altro "non è una casa", dove un intero mercato "esclusivo" per provetti "master chef, sommelier, gastronomi" è generato da programmi che, mezzo secolo fa, avrebbero fatto ridere i polli.

Teniamoci quindi la sua divisione: valore d'uso, valore di scambio, bisogni. E cerchiamo di elaborare NOI un'altra visione di valore d'uso e di bisogni. Una visione di entrambi che non si arrocchi su compiacenti nicchie, tanto parcellizzate, quanto "TODO MODO" funzionali a far ritornare il più possibile i salari operai nelle mani dei padroni. Proprio perché socializzando i mezzi di produzione e pianificando le attività economiche, decade qualsiasi idea alla base dell'attuale forma merce e degli attuali "bisogni", oggi più che due secoli fa la lotta per il socialismo è lotta per un nuovo umanesimo, proprio in questo senso. Marx vede l'uomo alienato, espropriato sia del salario che del proprio essere uomo. e vede nel socialismo non solo la riscossa operaia, la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ma la possibilità, finalmente, per tutti di sviluppare A TRECENTOSESSANTA GRADI le proprie potenzialità. "Der Mensch eignet sich sein allseitiges Wesen auf eine allseitige Art an, also als ein totaler Mensch. " (Ökonomisch-philosophische Manuskripte, MEGA I, 3, S. 118 = MEW Erg. I, S. 539.). Qui c'è già tutto. Il "totaler mensch" è un traduttore che non salta una frase perché non sa come tradurla, o perché non si prende neppure la briga di andare a leggere l'originale (che invece afferma di aver letto in seconda di copertina). Il "totaler mensch" è un operaio che supera anche lui l'ape pur restando in catena di montaggio, perché ora non solo sa cosa c'è prima e cosa c'è dopo, piuttosto che dove va su il suo pezzo, ma una volta tornato a casa coltiva una vita di relazioni e di crescita continua che prima soltanto si sognava. Il "totaler mensch" è un impiegato che risolve il problema che ha davanti mettendosi nei panni di tutti quelli che ha davanti, provando a ragionare con la loro testa, e non limitandosi a dire "questo è il mio, più in là non vado". Il "totaler mensch" è un obbiettivo del socialismo, ben più difficile da raggiungere che nazionalizzare fabbriche e terre (il che oggi, coi rapporti di forza attuali, ha le stesse probabilità di successo della vittoria di un peso mosca su un peso massimo, davide e golia permettendo). E' un obbiettivo di cui nazionalizzare fabbriche e terre è la condizione necessaria. ma non sufficiente. Occorre lavorare su quanto accennato. E non poco, visti i danni fatti a livello mondiale dall'attuale moto-modo di produzione. Ma è l'obbiettivo più alto per cui, alla fine, possiamo dire che la nostra è non solo una battaglia di giustizia, ma anche di progresso.

=== fine ===
https://www.sinistrainrete.info/marxismo/16979-leo-essen-critica-dell-economia-politica-del-segno-baudrillard-e-marx.html#comment-8124

"Ridefinire i bisogni implica ridefinire il valore d'uso. In un mondo dove una merce "tecnologica" diventa obsoleta in 6 mesi. di quale valore d'uso stiamo parlando? di quali bisogni stiamo parlando?" Estrapolo anche da qui una frase chiave.

E ora uniamole insieme. E capiamo che, nell'attuale modo di produzione, E' IMPOSSIBILE produrre secondo logiche diverse, A MENO CHE DI instaurare veramente un sistema di
- proprietà sociale dei mezzi di produzione
- pianificazione degli stessi e
- della ripartizione immediata della ricchezza sociale prodotta per il soddisfacimento dei bisogni sociali, dove direttamente in loco sotto forma di reddito da lavoro destinato ai proprietari dei mezzi di produzione stessi, ovvero i lavoratori, dove invece sotto forma di servizi sociali, sanitari, ecc.
Ma non solo, alla luce specialmente del secondo commento, un modo di produzione che ripensi RADICALMENTE la nozione stessa di forma merce così come ora è configurata, al fine di:
- aumentarne il valore d'uso
- aumentarne la durata nel tempo
- eliminare sprechi di materie prime e inquinamento
- rendere prodotti e linee di prodotto sempre più compatibili e intercambiabili fra di loro, eliminando problemi di ricambistica obsoleta e diminuendo, al contempo, i costi per la manutenzione, rendendola più conveniente di "comprare il pezzo nuovo".
- creare alternative allo sfruttamento indiscriminato di risorse, eccetera.

Naturalmente, questo MOVIMENTO REALE ha di fronte a sé praterie. Praterie che il capitalismo non è in grado di occupare perché... questa roba non gli interessa, non gli può interessare, ci andrebbe solo a smenare soldi, detto in parole povere. Che senso ha curare una malattia se smetto in tal modo di far soldi? E' una domanda che nel capitalismo ci sta tutta. Nel socialismo è semplicemente inconcepibile. perchè nessuno può "far soldi", con lo stipendio da lavoratore che riceve dallo Stato. E lo Stato non ha come fine "far soldi" ma soddisfare i bisogni sociali. L'esatto opposto.

Premesso questo, oggi, nessuno ha interesse a occupare queste praterie, neanche dei nostri. Prova ne é che l'unico lavoro in corso attualmente sulla pianificazione qui in Italia è sulle spalle di uno che lo fa prima e dopo le otto ore di lavoro, quando non commenta. L'URSS continua a sfornare libri a cui trent'anni fa semplicemente SOGNAVAMO di poter accedere. Per dirne una, questo compagno, Aleksej Safronov, dell'Accademia russa di economia (https://rane.academia.edu/SafronovAlexey), è da OLTRE CINQUE ANNI che pubblica sul suo blog testi sovietici di economia, di pianificazione, di gestione aziendale, di scienze sociali (https://vas-s-al.dreamwidth.org/). Testi che trova in biblioteca di dipartimento e rende di pubblica fruizione, passandoli personalmente allo scanner, ma anche ai mercatini dell'usato, ovunque, passa e rastrella. E io scarico, migliaia di testi. E chiunque potrebbe scaricare. E portare avanti il lavoro sulla pianificazione, sull'organizzazione, sulla gestione a livelli un tempo inaccessibili anche a chi dei nostri avesse avuto interesse di approfondire. L'occasione, caro Domenico, e mi scuso per la lunghezza dell'intervento fiume, con cui passo e chiudo (al massimo continuiamo via mail), è storica.

Chiudo con gli auguri a te e famiglia. Teniam duro.
Ciao!
Paolo
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