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effimera

Produzione-distruzione-guerra. Il trittico mortale del capitalismo

di Giorgio Griziotti

Recensione del libro di Maurizio Lazzarato:

L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione. Classi e minoranze, ombre corte, Verona 2022

L’intolérable du présent, l’urgence de la révolution. Minorités et classes, Eterotopia France, Paris 2022 (edizione francese, uscita in gennaio)

lazzarato84L’attualità della grave guerra scoppiata in piena Europa proprio mentre stavo scrivendo questa nota ha acceso il led per la comprensione dell’ultimo capitolo del libro di Maurizio Lazzarato pubblicato recentemente per i tipi di Ombre Corte. C’è da dire che l’insistenza dell’autore sul concetto di guerra come chiave di lettura del capitalismo sin dalla Prima Guerra mondiale, non mi aveva completamente convinto. In fondo le guerre non solo sono sempre esistite ma secondo gli etologi pare che gli umani abbiano ereditato questa propensione da certi primati che arrivano a combattersi mortalmente per la conquista del territorio vitale.

L’originalità della tesi sul concetto di guerra, esposta da Lazzarato già nel passato[1], sta proprio nel fatto che “il capitalismo è contemporaneamente un modo di produzione e un modo di distruzione e autodistruzione…. e che la guerra mostra l’enorme produttività di questa macchina integrata” come sostenuto da Keynes quando “affermava che solo la guerra poteva verificare la pertinenza del suo sistema economico, dal momento che essa spinge al limite le capacità produttive.” (Pag. 231). Questa enorme produttività è finalizzata alla distruzione e quando la macchina capitalista gira a pieno regime porta alla catastrofe.

“Invece di celebrare Schumpeter e la sua nota formula della ‘distruzione creatrice’, bisognerebbe considerare che essa sta portando all’autodistruzione dell’umanità (e di parte delle altre specie)” tramite ogni sorta di guerra compresa ovviamente quella alla biosfera mentre il “marxismo non ha saputo analizzare le rotture operate dalle guerre, proprio perché [anche lui è] ossessionato dalla produzione.” Pag. 233)

Uscendo ora dalla stretta attualità diremo che il volume continua l’affresco iniziato con “Il capitale odia tutti, fascismo o rivoluzione”. In quel saggio, scritto nell’era Trump, Lazzarato aveva messo in luce la piena compatibilità del neoliberismo con governi fascisti, inaugurata nel Cile di Pinochet. Aveva inoltre analizzato la definitiva sconfitta politica del ’68 indissolubilmente legata a quella teorica che coinvolge tutto il pensiero che va da Foucault e Deleuze a Negri ed Agamben.

Il tempo che separa i due volumi è quello del Covid (ed ora della guerra!), che ha fatto precipitare molti degli elementi di crisi che erano già in sospensione ed ha permesso di verificare la giustezza di alcune ipotesi critiche. Questo avviene soprattutto sul concetto di biopolitica, pietra angolare del pensiero foucoultiano a cui aderiscono anche Agamben ed altri. L’autore ora approfondisce ed argomenta la critica dei teorici del post-68 che, adottando massicciamente i concetti biopolitica, biopotere e governamentalità contribuiscono a mettere in secondo piano le divisioni e la lotta di classe ed in fin dei conti la prospettiva rivoluzionaria sulla quale erano basati i rapporti di forza fra capitalismo e classe operaia nei trenta gloriosi.

La pandemia sembra ora aver messo brutalmente in evidenza certe ambiguità del pensiero post 68. Non è infatti significativo che gli slogan delle manifestazioni no-vax e le acute grida agambeniane in difesa di una generica libertà individuale non siano mai state accompagnate da una parola sull’accelerazione della precarizzazione e dell’impoverimento delle classi subordinate operata approfittando della crisi?

Tutto ciò non sarebbe una conseguenza ultima dell’operazione foucoltiana, consapevole o meno, di ricucitura della rottura marxiana che aveva aperto lo spazio politico … con l’introduzione delle classi e delle loro lotte”? E non sancirebbe che “lo Stato sovrano e la biopolitica hanno vinto, [e che] resta solo lo spazio politico per le controcondotte, per le lotte contro il ‘troppo di potere’, per le soggettivazioni che mirano direttamente alla ‘libertà’ all’interno della macchina Stato/Capitale, senza passare dalla ‘liberazione’ (rivoluzione)” (pag. 163)?

Forse c’è un’attenuante generica per la vasta schiera, a cui appartengo, che nel tempo ha subito il fascino discreto dei classici concetti foucoltiani ed agambeniani: dalla “nuda vita” alla biopolitica. In particolare il successo che quest’ultimo ha riscosso negli ultimi trenta o quarant’anni è legato alla concettualizzazione del potere sulla vita e sui corpi. Non che tale potere non fosse esistito sin dalla notte dei tempi, basti pensare al ruolo degli schiavi nei regimi dell’antichità, ma la novità veniva da questa capacità di declinarlo esplicitamente in sintonia con la nascita del neoliberismo. Ora però Lazzarato ci mette in guardia:

“la biopolitica non si occupa [solo] della nascita, della morte, della malattia, della salute ecc., ma di tutte queste cose in riferimento ai lavoratori, alle donne, agli schiavi, ai colonizzati. Essa deve produrre delle differenze tra vite così definite.”

 

Lotta delle classi al plurale

Il primo volume del dittico attingeva al passato più o meno recente (le rivoluzioni del XX o il pensiero del post 68) per arrivare ad un’analisi della situazione contemporanea. Nell’attuale saggio si parte piuttosto “dall’intollerabile presente”, anche se ovviamente non mancano i riferimenti storici, per ipotizzare il futuro e soprattutto l’urgenza della rivoluzione. Per sgombrare il campo dalla critica di massimalismo, chiariamo subito che Lazzarato è convinto che questa auspicata ma ipotetica rivoluzione non potrà essere leninista. D’altronde la vecchia classe operaia bianca ed eurocentrica di marxiana memoria anche “nel Novecento non è stata l’attore principale della più lunga serie di rivoluzioni che l’umanità abbia conosciuto [ma] al contrario, con l’avanzare del secolo, ha mostrato la sua irreversibile perdita di egemonia” (pag.14). In seguito, sempre al Nord, le sue istituzioni si sono trasformate in bastioni reazionari del produttivismo ed in alleati non solo oggettivi della governance neolib. Questo porta l’autore a cercare di superare “il grande limite del marxismo: definire la classe operaia senza la razza e il genere”.

I titoli del secondo capitolo – Il lavoro gratuito delle donne e dei razzializzati – e del quarto – Femministe e colonizzati: le nuove lotte di classe – riassumono due leitmotiv del saggio: il passaggio dalla lotta di classe alle lotte delle classi al plurale ed il ruolo del lavoro gratuito nel capitalismo. Per quest’ultimo le osservazioni più marcanti sono forse quelle legate all’errore fatto dai marxisti che sin dal periodo coloniale non videro che l’integrazione della classe operaia nel Nord si sarebbe pagata con lo sfruttamento del Sud e col lavoro gratuito dei colonizzati e degli schiavizzati. Una volta acquisita la colonizzazione esterna del SUD, “il capitalismo avvia una ‘colonizzazione interna’ nel NORD come modello di governance … nella quale sviluppa sia il lavoro gratuito, precario, non retribuito, sia, necessariamente, la legislazione di emergenza, perché questa quantità crescente di lavoro non è disciplinata e integrata dai sindacati e dall’impiego a vita.” (Pag. 51)

È evidente che il lavoro gratuito, senza il quale il capitalismo non avrebbe potuto esistere come sostiene l’autore, non è fornito solo dai colonizzati e dai razzializzati ma in parte cospicua anche dalle donne, come denunciato da diverse istanze del femminismo sin dagli anni Settanta.

Lazzarato si basa su un’ipotesi di rifondazione del concetto di classe in cui per esempio certe istanze del femminismo “considerano le donne come una classe, assoggettata dalla classe degli uomini e sottomessa al loro potere … allo stesso modo bisognerà considerare i rapporti tra bianchi e non bianchi (razzializzati)” (Pag. 10). Queste nuove lotte di classe evidentemente non possono utilizzare le ricette politiche ed organizzative della classe operaia del Nord del XX secolo, considerando che su questi movimenti si esercitano modalità di comando ed anche di produzione specifiche che al “classico” sfruttamento economico associano il dominio razziale e di genere. Le tesi sulla centralità delle due lotte di classe sono argomentate con una grande ricchezza di riferimenti teorici. Per i colonizzati ed i razzializzati, solo per citarne alcuni, troviamo i classici Fanon e Ho Chi Minh e poi Samir Amin marxista egiziano la cui lettura permette di cogliere il senso di una strategia in cui “la macchina del capitale è sempre uscita vincente spostando ogni volta il terreno dello scontro sul mercato globale” (pag. 20).

Per il femminismo, oltre a Carla Lonzi, che per prima denuncia l’incapacità delle rivoluzioni marxiste a dissolvere i ruoli sociali, l’autore riporta alla luce soprattutto le teorie del femminismo materialista francese che all’inizio degli anni Settanta operano una decisiva innovazione teorica e politica introducendo il concetto di “classe delle donne”. Questa classe fornisce un’enorme quantità di lavoro – il lavoro domestico, il lavoro sessuale, il cosiddetto lavoro riproduttivo, il lavoro affettivo, il lavoro di cura – che però “prima di essere conveniente per il capitale, garantisce vantaggi e privilegi agli uomini come classe”, per cui “il lavoro salariato non metterà fine al patriarcato, come credeva Engels, e non sostituirà il lavoro domestico, come pensava Lenin” (pag. 116)

Una volta definito il quadro delle lotte di classe al plurale “come connettere le diverse lotte di classe, come coordinare la molteplicità dei conflitti da loro creati?”

Lazzarato non si limita ai riferimenti teorici per criticare l’intersezionalità, un concetto “sviluppato nell’ambito dell’attività giuridica per poter rendere conto delle diverse discriminazioni che si intrecciano nella vita delle donne nere …[che] difficilmente funziona per definire i rapporti di potere che nascono all’interno dei dualismi di classe, di razza e di sesso” (pag. 214). All’intersezionalità Lazzarato oppone per esempio la pratica di lotta del Combahee River Collective, un collettivo statunitense di femministe nere e lesbiche, una minoranza delle minoranze centrata sul principio che “non si tratta di opporsi alle discriminazioni, ma di attaccare i modi di produzione delle discriminazioni e dei loro assoggettamenti” (pag. 216)

Nel saggio è anche presente l’attualità della pandemia: “il disastro del Covid 19 non è esterno al capitalismo ma si radica in ogni tipo di disuguaglianza, nella spoliazione della ‘natura’ e nella distruzione della ‘sanità pubblica’ operata dalla finanza.” (pag. 171)

Anche l’imprescindibile problematica dell’ecologia non è completamente trascurata, ma un po’ a margine (forse potrebbe essere materia di un prossimo volume), salvo i riferimenti all’opera di Jason Moore e l’interessante paragrafo dedicato all’analisi del pensiero di Bruno Latour, intellettuale organico dell’ecologismo che secondo l’autore, “nonostante le recenti ammissioni sulla realtà dei conflitti continua a non cogliere che il territorio è organizzato … dalla macchina Stato/Capitale.”

L’autore scrive, giustamente a mio parere, che “la rivoluzione non potrà più essere globale come sostenevano i socialisti, nel senso che la liberazione dei lavoratori avrebbe emancipato tutti gli oppressi, perché l’emergere dei movimenti femministi ci ha insegnato che i problemi delle donne, come delle altre minoranze, non cominciano né finiscono con il capitalismo” (pag. 228). A questo proposito ci sarebbe da chiedersi se, al di là delle minoranze in lotta, non dovremmo considerare che la biosfera (o Gaia come direbbe Latour) nella sua totalità è implicata in una lotta per la sopravvivenza di innumerevoli reti della vita? L’ipotetica fine del capitalismo, pur essendo una condizione necessaria, non sarà certo sufficiente per uscire dalla catastrofe ecologica in cui siamo entrati. La domanda su quali siano le priorità dell’agenda rivoluzionaria è quindi legittima.

A meno che, in un parossismo innescato dalla roulette russa fra un sanguinario despota fascista e un occidente che, guidato dagli Stati Uniti, rappresenta il più grande pericolo per la pace nel mondo, un olocausto nucleare non ponga subitamente fine alle preoccupazioni dell’umanità…

Per concludere, come lui stesso afferma, Lazzarato non ha certo la pretesa di “costruire una teoria delle nuove forme che assumerà la rivoluzione… che potrà essere elaborata solo da coloro che la penseranno facendola” ma continua a sviluppare, in questa opera essenziale per la comprensione dei rapporti politici contemporanei, un’analisi articolata e globale di grande coerenza.

Anche se la coerenza di un’analisi non è un valore assoluto, quando le sue ipotesi principali vengono man mano convalidate dalla realtà, come nel caso delle recenti opere dell’autore, allora la lettura di questo suo saggio diventa non solo consigliabile ma necessaria.


NOTE
[1] Cfr. Éric Alliez, Maurizio Lazzarato, Guerres et Capital, Éditions Amsterdam, Paris 2016.

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Ausgangspunkt
Tuesday, 15 March 2022 20:22
Due punti vanno rapidamente esaminati, e cioè quando si osserva 1) “L’originalità della tesi sul concetto di guerra, esposta da Lazzarato già nel passato, sta proprio nel fatto che “il capitalismo è contemporaneamente un modo di produzione e un modo di distruzione e autodistruzione…. e che la guerra mostra l’enorme produttività di questa macchina integrata”; 2) “Per sgombrare il campo dalla critica di massimalismo, chiariamo subito che Lazzarato è convinto che questa auspicata ma ipotetica rivoluzione non potrà essere leninista”. Ora, notoriamente in una dimensione storicamente determinata, nel capitalismo odierno è guerra sia l’astratto che il concreto, per cui, come già Marx sottolineava, il modo di produzione capitalistico, da intendersi sia come produzione che come modello di organizzazione sociale e politica, è sempre strutturalmente in guerra. Lo è in primis con se stesso, perché non riesce a concepire la propria finitezza spazio-temporale, sapendo bene che la guerra è una eccezionale valvola di sfogo: distrugge e contemporaneamente consente di sviluppare scenari per nuovi rinascimenti. Ma in un contesto del genere, si faccia attenzione, è il politico a palesare tutta la sua natura, divenendo immediatamente militare, poiché se la politica comporta la razionalità del compromesso, sia nel sociale che tra Stati, oligarchie, democrazie ecc., - alla radice non c’è che forza. Alla base della crisi di guerra c’è una crisi del compromesso, sicché in essa il politico non può che essere già militare. Questo andamento conduce al secondo punto. Poiché nello sviluppo capitalistico-imperialistico la situazione è in questi termini, in ogni teoria-pratica rivoluzionaria (si consideri come il modo di produzione capitalistico abbia spezzato ogni simmetria, non corrispondendo più una soggettività unitaria ed omogenea, ma solo una pletora di figure con linguaggi ed interessi non ricomponibili, cioè quella variegata umanità di cui parla Lazzarato “certe istanze del femminismo che considerano le donne come una classe, assoggettata dalla classe degli uomini e sottomessa al loro potere…allo stesso modo bisognerà considerare i rapporti tra bianchi e non bianchi (razzializzati)”, ecc.) va invece conservata proprio la distinzione leninista tra i diversificati livelli e funzioni della lotta di classe, consistente in quella capacità, ancora tutta leninista, di riuscire ad individuare il momento che lega l’azione alla composizione delle soggettività in campo. Come ricorda Lenin, nelle Lettere da lontano, “se la rivoluzione ha trionfato così rapidamente e in modo […] così radicale, è soltanto perché una situazione storica singolarmente originale ha fuso insieme, e con un notevole grado di «coesione», correnti del tutto diverse, interessi di classe eterogenei, aspirazioni politiche e sociali del tutto opposte
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Pantaléone
Monday, 14 March 2022 20:19
"L'ipotetica fine del capitalismo".
Ci sono tanti marxisti quante sono le varietà di mele, e l'améliorantismo è un messianismo.
"L'autore scrive, correttamente secondo me, che "la rivoluzione non può più essere globale come sostenevano i socialisti, nel senso che la liberazione dei lavoratori avrebbe emancipato tutti gli oppressi."
La rivoluzione arriverà da una megalopoli avanzata del capitalismo hé hé, e il fatto che il capitalismo sia un processo sociale planetario viene buttato nella spazzatura,
"Il marxismo non è riuscito ad analizzare le rotture provocate dalle guerre, proprio perché anch'esso è ossessionato dalla produzione."
Non è un'ossessione per la produzione ma per i rapporti di produzione, quindi torno a dormire!
Nel frattempo, il lettore informato può consultare un altro parametro che le bombe sulla faccia, sulla dinamica capitalista.
https://nicolasdvillarreal.substack.com/p/the-secular-rate-of-profit?s=r
Fatevi una bella sega!
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