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quaderni s precario

La crisi delle politiche anti-crisi

di Andrea Fumagalli

Tra poche settimane le elezioni tedesche (dove si prevede secondo gli ultimi sondaggi una vittoria di Angela Merkel) segneranno lo spartiacque per un probabile cambio della politica economica europea. Pur se la governance politica in Europa rimarrà non molto dissimile, sempre ammesso che la signora Merkel vinca le elezioni, la governance economica potrebbe significativamente modificarsi con l’allentamento delle politiche di austerity.

Dopo 6 anni di crisi, alla cui persistenza le stesse politiche di austerity hanno sicuramente contribuito, è necessario voltar pagina. Il motivo è semplice. Le politiche di austerity hanno raggiunto in buona parte i loro scopi e il loro perdurare rischia di colpire anche chi ne ha fatto una bandiera. A partire da un anno fa, infatti, anche le economie europee più forti, Germania, Olanda, Francia in testa, hanno registrato preoccupanti segnali di indebolimento. Non ci si faccia ingannare dai provinciali e asserviti giornali italiani che titolano in modo roboante: “Europa fuori dalla recessione”. In effetti, nel secondo trimestre 2013 il Pil cresce dello 0,3% sia nell’Eurozona che nella Ue-27. E’ un valore superiore alle previsioni ed è il primo dato positivo dopo sei trimestri consecutivi in calo. Tuttavia, rispetto allo stesso trimestre 2012, il Pil si riduce dell’1,1% nell’Eurozona e dello 0,7% nella Ue. A livello nazionale, sempre su base annua, la Germania vede un incremento dello 0,5%, la Francia dello 0,3% e l’Olanda un calo dell’1,8%, di poco meglio dell’Italia (- 2%).

Con riferimento alle sole economie più forti, si tratta di un andamento di stagnazione e non di vera e propria ripresa: una situazione che perdura da circa 4 trimestri.

A sostegno della tesi mainstream che siamo al giro di boa della crisi, molti osservatori hanno fatto riferimento al calo degli spread  nei paesi più a rischio di insolvenza. In Italia, ad esempio, lo spread si è stabilizzato nelle ultime settimane al di sotto dei 250 punti base. Tale risultato viene spesso letto come la conferma che l’Italia abbia riacquistato fiducia e credibilità nei mercati finanziari internazionali a riprova dell’efficacia del governo Letta-Alfano. Niente di più falso. Poiché lo spread è una differenza (quella tra i tassi d’interessi applicati ai Btp decennali italiani e gli equivalenti Bund tedeschi), il suoi valore può ridursi non perché i tassi d’interesse in Italia siano calati (questo è successo in modo molto lieve ma non in misura tale da giustificare il calo dello stesso spread), ma perché sono aumentati quelli tedeschi: evento, quest’ultimo, che si è effettivamente verificato a causa dell’incertezza e delle attese proprio sul prossimo esito elettorale. Si tratta, comunque,  di un aumento non preoccupante per il bilancio pubblico tedesco, dal momento che è stata proprio la Germania negli ultimi anni a beneficiare in misura massiccia  della crisi dei debiti sovrani degli stati del Sud Europa. La stabilità finanziaria dello stato tedesco ha infatti attirato buona parte degli investimenti sicuri in titoli di stato, con un risparmio in termine di spesa per interessi  di 40,9 miliardi di euro nel periodo 2010-2014, secondo fonti del Ministero delle Finanze (fonte: Spiegel).

Inoltre occorre aggiungere alcuni elementi congiunturali. La Germania, secondo la classica teoria del ciclo politico elettorale, secondo cui in vista della scadenza elettorale si allentano i cordoni della spesa pubblica per stimolare temporaneamente e fittiziamente la crescita economia per fini elettorali, ha infatti aumentato la propria spesa pubblica, trainando in particolare non solo i consumi interni ma anche l’export, soprattutto quello francese e italiano.

Nell’ultimo trimestre, si è inoltre registrata una ripresa della produzione manifatturiera, trainata dal comparto automobilistico. Il rischio è che però si tratti di un “rimbalzo tecnico” dopo un anno che ha registrato dei cali di produzioni in molti settori manifatturieri di oltre il 20%.

Non siamo quindi in presenza di una ripresa economica. Al limite, dopo sei trimestri consecutivi di segni negativi (un vero e proprio record) è lecito attendersi un rallentamento, quasi fisiologico, del calo, verso una situazione più di stagnazione che di crescita.

Il mercato del lavoro, nel frattempo, ristagna, anzi peggiora. I paesi dell’Europa meridionale segnano livelli record di disoccupazione, soprattutto, di quella giovanile (il massacro di una generazione), ben oltre i valori ufficiali dichiarati, se si contano tra i disoccupati, anche i cd. “scoraggiati”. Ad esempio, in Italia, sommando ai disoccupati ufficiali gli scoraggiati e la disoccupazione equivalente alla cassa integrazione, abbiamo più di 6,4 milioni di persone che hanno necessità di lavoro ma non lo trovano: oltre il 23% della forza-lavoro. Anche nei paesi dell’Europa non meridionale si procede ad occultare l’effettiva mancanza di lavoro. In Germania, ad esempio, se le statistiche ufficiali presentano un tasso di disoccupazione tra i più bassi d’Europa (il 6,9%, meno di 3 milioni di disoccupati), si tace invece sul fatto che, negli anni della crisi, i lavoratori precari che svolgono i cd. “mini-jobs” sono raddoppiati raggiungendo l’ammontare di oltre 7,3 milioni (con stipendi di 430 euro, senza contribuzione sociale). Per 5 milioni di questi occupati il mini-job rappresenta l’unica forma di occupazione, per i restanti 2,3 milioni il mini-lavoro viene combinato con un’altra occupazione part-time che permette di arrotondare lo stipendio.

E’ il fenomeno dell’occupazione marginale (geringfügige Beschäftigung), indotta dalle riforme del mercato del lavoro del 2003 del ministro socialdemocratico Herz: la condizione precaria è entrata così in modo strutturale nel mercato del lavoro tedesco. Se si commuta i 5 milioni di occupati precari con solo mini-job in occupazione standard equivalente, i disoccupati aumenterebbero – secondo le ricerche effettuate da un gruppo di ricercatori dell’Università di Duisburg-Essen  – di circa 2,4 milioni, con un tasso di disoccupazione reale che arriverebbe a oltre il 13%.

L’attuale situazione del lavoro in Europa è uno dei risultati vincenti delle politiche di austerity. La destrutturazione del mercato del lavoro, via la sua precarizzazione, è infatti uno degli obiettivi  della politica economica recessiva (a parole giustificata dall’emergenza crisi, con la complicità dei media) che è stata pervicacemente perseguita dalla Germania e dalle autorità europee. Quando Angela Merkel affermava che la Germania aveva già svolto il proprio risanamento produttivo nella prima metà degli anni ’00 al fine di accrescere la propria competitività per ampliare la propria capacità tecnologica e competitiva al di fuori dell’Europa non diceva il falso. Con l’arrivo della crisi e lo scoppio dell’indebitamento pubblico per far fronte alla debacle finanziaria causata dallo scoppio della bolla dei subprime, la Germania, in accordo con l’establishment economico finanziario e la tecnocrazia europea, ha imposto che tale risanamento venisse forzosamente applicato anche al resto dei paesi europei, via fiscal compact e obbligo costituzionale del pareggio di bilancio. Tale fine (di fatto non realistico) nasconde infatti il vero obiettivo di tali politiche: la precarizzazione del lavoro e della vita tramite processi di mercificazione biopolitica dell’esistenza, la frammentazione del lavoro vivo e l’impossibilità di sviluppare capacità conflittuali, se non di mera resistenza. Dalla Grecia all’Irlanda, dal Portogallo all’Italia, dalla Spagna alla Francia e all’Olanda (che ha però osato, per il momento, opporsi), le politiche di austerity hanno seguito un canovaccio omogeneo, fondato su tre pilastri:

- riforma delle pensioni volta, da un lato ad aumentare l’età pensionabile (con l’obiettivo immediato di fare cash), dall’altro incrementare ulteriormente la loro privatizzazione a beneficio dei mercati finanziari;

- riforma del mercato del lavoro, finalizzata alla totale precarizzazione del lavoro vivo, soprattutto quello a più alta intensità di conoscenza e relazione, con l’obiettivo di incrementare il livello di sfruttamento, individualizzare il rapporto di lavoro, svalorizzare la prestazione lavorativa;

- aumento della tassazione, soprattutto non progressiva, tramite interventi sulle imposte indirette e riduzione della spesa pubblica, con particolare riguardo al bacino occupazionale del pubblico impiego e allo smantellamento di quel poco di welfare rimasto (soprattutto nel campo dell’istruzione e della sanità);

Questi tre obiettivi principali sono stati raggiunti. Tale risultato è stato possibile anche perché il pesante calo dei redditi, la precarizzazione crescente sotto il ricatto della disoccupazione e del bisogno hanno depotenziato la capacità conflittuale (invece di aumentarla). Ciò non significa che in molti paesi europei, dalla Spagna alla Grecia, dal Portogallo alla Slovenia e in parte, a corrente alternata, anche in Italia, non si siano registrati momenti di scontro sociale e una forte volontà di opposizione. Ma tale generosità di conflitto si è spesso arenata o di fronte a carenza di capacità propositiva o a forme di lotta inadeguate o gestite in modo inadeguato. La semplice “indignazione”, se può essere un momento fondamentale per la mobilitazione delle coscienze, non è tuttavia sufficiente se manca la capacità di dare prospettive concrete all’altezza dei nuovi meccanismi di accumulazione e valorizzazione (oggi sempre più immateriali). In secondo luogo, tali mobilitazioni rischiano di rimanere incompiute perché troppo spesso – come ricordato da Sandro Mezzadra – permeate da forme eccessivamente nazionalistiche. I tempi per una mobilitazione che parta da un piano squisitamente europeo per contaminare successivamente le situazioni nazionali (e non viceversa) non sembrano essere ancora possibili. Da questo punto di vista, la crisi europea ha aumentato infatti l’eterogeneità sociale e dei movimenti degli stati membri. L’inesistenza di istituzioni rappresentative europee a tutti i livelli  in grado di contrapporsi a tale deriva ma piuttosto inclini ad aumentare la divergenza e a definire gerarchie nazionaliste non ha che peggiorato la situazione. Si noti che tale processo sociale disgregativo (che ha alimentato anche forme di revanscismo localista, xenofobo e razzista in quasi tutti gli stati europei) è avvenuto nel mentre l’oligarchia economico-finanziaria, sotto l’egida tedesca, era in grado di promuovere un’omogeneità dell’azione politica e fiscale senza precedenti. Paradossalmente, ma non troppo, si è contemporaneamente affermato un modello (regressivo, reazionario e neo liberista) di politica fiscale comune europea, con l’obiettivo di ribadire il primato della proprietà privata (contro il comune), della diseguaglianza (contro una più equa distribuzione del reddito), del lavoro precario (contro un reddito di base incondizionato), del saccheggio dello spazio e dell’ambiente e della mercificazione della vita (contro la possibilità di esercitare un potere decisionale autonomo per sé e per il proprio territorio).

Ma le comuni politiche d’austerity e fiscali ora rischiano, se ulteriormente perpetrate con le stesse modalità recessive che le hanno definite fino a ora, di rilevarsi un boomerang, se non vengono mitigate dalla necessità di favorire comunque una ripresa economica. Il mantra della crescita – almeno a parole – è diventato la nuova emergenza economica. Se prima era il debito a definire la situazione emergenziale da cui tutto doveva dipendere, ora è l’aumento del Pil a essere la nuova ossessione emergenziale. Cambiamo i termini, ma in realtà la sostanza non si modifica di molto.

Come scrivevamo in un commento pubblicato su UniNomade lo scorso 15 gennaio 2013:

“Nonostante i profondi processi di ristrutturazione organizzativa e tecnologica che hanno allargato la base dell’accumulazione, imponendo – dietro il ricatto del bisogno – la messa a valore della vita, del tempo di vita e della cooperazione sociale umana, la valorizzazione attuale, proprio perché si fonda solo sull’espropriazione esterna della vita e del “comune” umano senza essere in grado di organizzarli, non si trasforma in crescita di plusvalore. Il processo di finanziarizzazione ha sì consentito una poderosa “accumulazione originaria” ma non è stato in grado di tradursi in valorizzazione diretta e reale. E’ questa la contraddizione centrale che sta alla base della crisi attuale. Nonostante i vari tentativi (dalla lusinga, dagli immaginari, al ricatto, al bastone, alla mercificazione totale), la vita umana messa a valore produce comunque un eccedenza che sfugge al controllo capitalistico, un eccedenza che non si trasforma in valore economico, è cioè non misurabile in termini capitalistici”.

Non è un caso che alla minor valorizzazione del capitale multinazionale europeo si accompagna anche la perdita di importanza dell’Europa nello scacchiere internazionale. Vi è cioè anche una crisi di governamentalità politica che richiede un cambio di passo. L’Europa, oggi, al sesto anno di crisi, non solo ha perso la centralità economica ereditata dal fordismo, ma anche la centralità politica fondata sull’asse con gli Usa.

Difficile pensare che andare oltre alle politiche d’austerity sia condizione sufficiente (seppur necessaria) per uscire da questo impasse. Gli effetti strutturali di una politica economica miope e monetarista che nello strumento esclusivamente monetario e nel controllo dei debiti pubblici e esteri definiva i pilastri della propria governance tendono a essere irreversibili e irrimediabili per la stessa valorizzazione capitalistica. La generalizzazione della condizione precaria nel lavoro da un lato, la privatizzazione del modello europeo di welfare, accelerati dalla crisi, dall’altro, non consentono infatti di poter sfruttare al meglio quelle economie dinamiche di rete e di apprendimento che oggi sono la base per la crescita della produttività e per l’innovazione tecnologica. L’esperienza del Sud America e la parabola economica di Cina e India (che vive, comunque, una situazione attualmente di impasse) mostrano che altri modelli economici sono possibili, pur con tutta l’ambiguità del caso.

Il modello europeo in salsa neoliberista ha oramai fatto il suo tempo: l’essere riusciti a impedire lo sviluppo di conflittualità (a differenza di altre regioni del globo) ha avuto un costo talmente alto da mettere in crisi lo stesso establishment europeo.

Post-scriptum:  mentre scriviamo minacciose nubi dell’ennesimo intervento militare (dopo Kossovo, Afghanistan, Iraq, Libia) si addensano sulla Siria, con il protagonismo, ancora una volta, di Francia e Gran Bretagna. L’intervento in Libia era di fatto finalizzato a salvaguardare i flussi di petrolio e di gas metano provenienti dal deserto libico. L’intervento in Siria, altrettanto non umanitario, oltre a essere un messaggio rivolto all’Iran in funzione antio-nucleare e perché il suo petrolio venga comunque incanalato verso Occidente, sembra inquadrarsi invece meno in una logica di governance economica, ma più nell’ambito della governance della sponda sud del Mediterraneo. Negli ultimi due anni, gli equilibri della fascia araba-mediterranea sono stati alterati sia dall’insorgenza e dall’eccedenza delle moltitudini giovanili dell’era cognitiva che dal persistere e reiterarsi di forme di corporativismo welfaristico-religioso (con rigurgiti di fondamentalismo), provvisoriamente alleate contro il neo-colonialismo tecnocrate delle dittature locali al servizio dell’Occidente. Le recente vicende dell’Egitto, da un lato, ma anche quelle turche,  seppur in modo minore, dall’altro, hanno evidenziato la frattura di questa “strana” alleanza, con la possibilità di rimettere in carreggiata gli interessi economici-militari dei paesi occidentali. Il probabile attacco in Siria, senza dimenticare le dinamiche geopolitiche globali tra Usa-Cina e Russia, può essere funzionale a questo obiettivo. Ma la declinante capacità di governance mondiale dell’asse Usa-Europa, già affetto dalla crisi economica, renderà assai difficile che tale obiettivo possa essere conseguito.

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