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Se il Re dollaro non fosse più moneta di riserva

Marcello De Cecco

Nel panorama della crisi mondiale sembrano riprodursi le condizioni che esistevano immediatamente prima della fine del sistema di Bretton Woods, nel 1971. Le aspettative sul cambio del dollaro, in particolare, assumono un rilievo e un ruolo che non è possibile sottovalutare. Il cambio del dollaro appare, come allora, la chiave di volta dell’intero sistema. Ma il contesto attuale è assai diverso da quello del 1971. Non foss’altro perché allora si chiudeva un’era di cambi fissi mentre oggi siamo, da decenni, in regime di cambi flessibili, anche se alcuni ancoraggi da parte di monete al dollaro o ad altre valute chiave come euro e yen, resistono da parecchi anni.

Non si tratta quindi, oggi, di aspettarsi o meno una svalutazione o rivalutazione del dollaro, ma di stabilire se siamo alla vigilia di un cambio di regime. Se, ad esempio, ci apprestiamo a vedere la fine del ruolo del dollaro come principale moneta di riserva.

Rispetto al 1971, altre differenze importanti esistono. Allora l’inflazione indotta dalla politica monetaria americana era aperta ed elevatissima, sia negli Stati Uniti che nella gran parte degli altri paesi. Oggi, al contrario, veniamo dagli anni della "great moderation" sul fronte dell’inflazione e invece che sull’indice generale dei prezzi la politica monetaria e fiscale espansiva degli Stati Uniti ha determinato, negli anni scorsi, solo l’inflazione dei beni patrimoniali, e quindi una fondamentale rivoluzione nei prezzi relativi, mentre l’indice generale è cresciuto modestamente.

Allora, nel 1971, il dollaro era tenuto faticosamente in piedi da ogni sorta di artifici messi in opera da governi e banche centrali. In anni recenti i cambi sono stati determinati sui mercati liberi, anche se, nel caso del dollaro, moltissimo ha influito la decisione specialmente asiatica e specialmente cinese di sterilizzare gli effetti dei surplus di parte corrente comprando dollari per le riserve ufficiali. Uno sguardo alle cifre ci mostra che anche i privati hanno investito fortemente in dollari e continuano a farlo. In effetti, uno dei fenomeni più interessanti, ancora in pieno svolgimento, è il continuare di alti livelli sia di importazioni che di esportazioni di capitali privati da e per gli Stati Uniti.

La fermata brusca dell’economia americana ha come al solito colpito le importazioni americane molto di più delle esportazioni da quel paese. Questo, in tempi normali, implica un rafforzamento del dollaro. Ma, se governi e investitori privati voltassero improvvisamente le spalle a prestiti all’economia e al governo americani e smettessero di comprare aziende e azioni americane, il crollo delle importazioni, accoppiato alla forza delle esportazioni, di certo non ce la farebbe a sostenere il corso del biglietto verde.

In verità, mai come oggi sembra prevalere sui mercati finanziari internazionali la figura dello speculatore puro su quella dell’investitore motivato da necessità riguardanti l’economia reale. La gran parte di coloro che operano sui mercati dei cambi oggi lo fa perché sono paralizzate quasi tutte le attività speculative fiorite in anni recenti. Prendiamo solo il mercato dei Credit Default Swaps. Nato per assicurare coloro che compravano e vendevano obbligazioni (quelle costruite con attività tra loro eterogenee dalle banche di investimenti o quelle emesse dalle imprese) si era negli ultimi anni trasformato in un gigantesco mercato di pure scommesse, in cui la parte legata a transazioni come quelle appena citate era divenuta del tutto minoritaria, alcuni dicono per un fattore di uno a dieci. Ora la parte di pura scommessa è quasi svanita, dopo l’esplosione della bolla dei mutui sub prime, e la paralisi del mercato impedisce a fondi di investimento speculativi, che ancora esistono e devono giustificare la propria esistenza facendo profitti con transazioni speculative, di operare come prima. Questo è accaduto anche in altri grandi mercati finanziari, che non stiamo ad elencare, col risultato che il mercato dei cambi è uno dei pochi rimasti ancora in funzione, con un volume non troppo inferiore a quello di prima della esplosione della bolla immobiliare americana. Su questo mercato si è dunque riversata l’attività dei suddetti operatori e per questo motivo aspettative e comportamenti di pura scommessa prevalgono ora, su questo mercato, rispetto a quelli motivati da istanze reali, come quella di assicurare i proventi delle esportazioni o gli esborsi delle importazioni contro le oscillazioni della moneta con la quale si deve pagare o ricevere in pagamento.

Cominciano così a circolare dei "leitmotive" che, pur avendo una loro legittimità effettiva, sono amplificati ad arte per influenzare le aspettative e, di conseguenza, i movimenti dei cambi. E’ il caso della presunta valanga di nuove emissioni di debito pubblico che molti paesi importanti si preparano a rovesciare sui mercati per far fronte alle spese del salvataggio di banche e imprese e delle politiche di rilancio dell’economia. Qualcuno, come lo storico prestato all’economia Niall Ferguson, azzarda a Davos una cifra di 2.5 triliardi di dollari. Altre cifre girano per l’etere o sulla carta stampata. Il messaggio, a parte le differenze tra le cifre, è che queste nuove emissioni di debito pubblico, specie da parte statunitense, non potranno non indurre un indebolimento della moneta americana, specialmente perché gli Stati Uniti saranno costretti a ripudiare il famoso divorzio del 1951 tra Federal Reserve e Tesoro, che mise fine alla politica di moneta facile del periodo bellico e dovranno permettere alla Fed di finanziare il Tesoro stampando moneta. Si tende a trascurare il fatto che il nuovo debito pubblico andrebbe a sostituire il debito privato che, invece tende a diminuire fortemente per via della attività di deleveraging delle banche, con risultato netto sul debito totale assai meno cospicuo.

Queste previsioni si basano sulle supposte necessità di denaro fresco in gran copia per finanziare i salvataggi bancari e di imprese e la politica economica e sociale del nuovo presidente. Questo si fa sulla base delle dichiarazioni dello stesso presidente e del suo entourage in merito a tali spese. Chi, tuttavia, ha guardato all’interno dei programmi della nuova Amministrazione, ha rilevato una notevole discrasia tra le intenzioni a gran voce dichiarate e i programmi veri e propri. Le prime fanno presumere impegni di spesa a breve termine che invece, nei programmi reali, sono quasi sempre spalmati su parecchi anni. L’effetto sull’economia reale e sui mercati finanziari nel breve termine di tali programmi si riduce assai notevolmente. Sono stati ormai parecchi i commentatori ad avere additato tale discrasia e i mercati, quello di borsa in particolare, ma anche quello dei titoli di stato, sembra averla prontamente introiettata, riducendo l’impatto effettivo del messaggio.

Sul mercato dei cambi, invece, la operazione al ribasso che dovrebbe coinvolgere il dollaro e quindi (nella direzione contraria) yen, euro e yuan, sembra essere stata lanciata e si nota una volontà di portarla avanti, che si arrenderà solo di fronte ad evidenze contrarie molto forti. Non è bastata la prudentissima dichiarazione di Wen Jiabao sulla politica delle riserve cinese, posponendo la data del cambio di regime monetario internazionale, a far desistere i ribassisti: in una intervista la settimana scorsa al Financial Times il primo ministro ha assicurato che la Cina ha interesse a stabilizzare il mercato dei Treasury bond per aumentare la fiducia e superare la crisi finanziaria, rinviando a quando la crisi sarà superata una eventuale revisione delle strategie di investimento delle riserve valutarie.

Nemmeno l’aspettativa abbastanza ragionevole di un ulteriore taglio dei tassi da parte della Bce, quasi di certo a marzo, è bastata a ridurre la mole delle posizioni al ribasso sul dollaro. L’operazione è partita, le strategie speculative sono state lanciate e, come al solito, ne beneficeranno quelli che le hanno iniziate, se riusciranno a monetizzare i guadagni, uscendo dal mercato prima degli altri.

Quello che accadrà dipenderà da molti fattori. Il Senato degli Stati Uniti potrebbe approvare il pacchetto di spesa del governo (i famosi 816 miliardi di dollari) solo a patto di mantenere una clausola protezionista, la famosa "buy american clause", già inserita nel testo approvato dalla camera dei rappresentanti, che impegnerebbe il governo a spendere le somme stanziate esclusivamente in beni e servizi prodotti negli Stati Uniti. Se ciò accadrà è facile prevedere che tutti gli altri paesi si affretteranno a introdurre misure protezioniste di rappresaglia, e non è detto che dal deterioramento del contesto internazionale che ne seguirà non derivi proprio quel declino del corso del dollaro che altrimenti quasi certamente non ci sarebbe.

Il timone è dunque saldamente nelle mani del protagonista tradizionale, il governo degli Stati Uniti. Si spera che Obama, che sta mostrando una persino eccessiva prudenza rispetto ai grandi cambiamenti annunciati in campagna elettorale, non si lasci forzare la mano in senso protezionista, nell’ansia di vedere il proprio pacchetto di misure di spesa approvato dal Congresso. Già la dichiarazione anti cinese di Tim Geithner è apparsa come un prezzo da pagare ai membri del Congresso che rappresentano le istanze dei sindacati e delle imprese minacciate dalla concorrenza cinese. La dirigenza di Pechino, che in tempi di vacche grasse avrebbe mostrato ben altra permalosità, ha preferito la moderazione, come abbiamo ricordato sopra. Ma una clausola protezionista nel pacchetto di spese non potrebbe essere tollerata nemmeno dai flemmatici cinesi e farebbe precipitare il mondo verso un disequilibrio molto pericoloso.

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