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Il capitalismo invecchia?

intervista di Cosima Orsi a Christian Marazzi

L'asse dominante del capitalismo andrà da Est a Sud del pianeta. Le risposte alla recessione non sono però da cercare in una nuova geografia economica, ma passano attraverso il conflitto del lavoro vivo per redistribuire la ricchezza prodotta Il prezzo della crisi è molto alto. Ma possiamo farlo pagare al capitale finanziario, perché è in gioco la nostra sopravvivenza come soggetti capaci di lottare

La crisi ha reso evidente il fatto che la politica è ostaggio del capitale finanziario. La possibilità di una risposta degli Stati nazionali è quindi limitata. Ma difficoltà sono emerse quando il cosiddetto G20 ha provato a individuare misure adeguate alla radicalità della crisi, riuscendo alla fine a proporre strumenti che hanno rafforzato il processo di finanziarizzazione dell'attività economica. Ma ciò che è emerso in questo ultimo anno è che la finanza è diventato il cuore del capitalismo contemporaneo.

Si è giunti a questa situazione dopo che alla fine degli anni Ottanta il capitale ha puntato, riuscendovi, a produrre plusvalore e profitti non solo nell'attività produttiva in senso classico, ma anche nei settori della distribuzione e dellla circolazione. Ciò è stato reso possibile da due fattori: una privatizzazione dei servizi sociali e un cambiamento delle relazioni tra capitale e lavoro a favore delle imprese tanto nazionali che sovranazionali.

L'unica possibilità di invertire tale tendenza può venire solo da forti movimenti sociali che chiedano un reddito garantito, in quanto riappropriazione di una ricchezza prodotta dal lavoro in tutte le sue forme. È questa la lettura della crisi che emerge in questa intervista che si aggiunge alla altre della serie «il capitalismo invecchia?».

Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?

È da trent'anni ormai che assistiamo al susseguirsi di maggiori o minori crisi finanziarie, più o meno una ogni tre anni, a dimostrazione che il capitalismo si è ormai struturalmente finanziarizzato, cioè ha posto i mercati finanziari al centro della sua stessa logica di funzionamento mondiale. Questa crisi è «sistemica» perché è nata negli Stati Uniti, svelando le contraddizioni (gli squilibri fondamentali) della globalizzazione così come essa si è data a partire dagli anni Ottanta, con il peso del debito pubblico e del debito commerciale statunitensi e il ruolo della politica monetaria incentrata sul dollaro. È però anche una crisi «congiunturale», se è vero che il capitalismo finanziario è intrinsecamente instabile, terribilmente fragile, all'interno del quale la privatizzazione del deficit spending di keynesiana memoria gioca un ruolo fondamentale.

Il confronto con la crisi del '29 serve soprattutto per evidenziare le differenze tra un capitalismo fordista nascente, quello degli anni Venti del Novecento, e un capitalismo finanziario, quello odierno, per certi versi anch'esso nascente, nel senso che è caratterizzato dalla pervasività delle dinamiche finanziarie e, soprattutto, dalla sovrapposizione dell'economia finanziaria e di quella reale.

Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?

Il capitalismo finanziario è attraversato da contraddizioni formidabili, oltretutto contraddizioni che si dispiegano su scala globale e che in buona sostanza rimandano al problema della realizzazione del plusvalore con ricorso al deficit spending di mercato, ossia privato. Questa metamorfosi rispetto al deficit spending pubblico, in cui gli Stati giocavano un ruolo centrale nella determinazione della domanda effettiva, è simmetrica ai cambiamenti nei modi di produrre plusvalore a partire dalla fine degli anni Settanta, ossia la progressiva estensione dei processi di valorizzazione alla sfera della circolazione, dello scambio, insomma della riproduzione. Quello che è stato chiamato «biocapitalismo», in cui le forme di vita e la vita stessa sono «messe al lavoro», fino a trasformare il consumatore in produttore di beni e servizi, è un capitalismo storicamente nuovo contrassegnato dalla crisi della misura del valore e, quindi, dalla impossibilità strutturale di governarlo a mezzo di regolazione.

È questa natura del nuovo capitalismo che mette fuori gioco gli economisti mainstream e i loro modelli econometrici basati sull'ipotesi dell'efficienza dei mercati. Una maggiore conoscenza storica delle trasformazioni del capitalismo permetterebbe certamente di capire che questi cambiamenti riflettono, sono indotti da una nuova composizione sociale del lavoro.

Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?

La politica, oggi, è certamente ostaggio della finanza, nel senso che l'autonomia del politico è molto ridotta, costretto come è ad inseguire le vicissitudini dei mercati finanziari e gli effetti devastanti della finanziarizzazione sulle grandezze ecomomiche e sociali. Basti pensare alla spesa pubblica sociale, che subirà tagli pesantissimi a causa della crescita smisurata del debito pubblico. Si può forse affermare che la finanziarizzazione mina alle radici la stessa rappresentanza politica, nel senso che la priva della capacità di autonomizzarsi dalle contraddizioni e dai conflitti interni ai processi economico-finanziari. Il politico non riesce neppure a implementare regole minime per contenere la finanza e la sua estensione, anche se ci prova con fughe in avanti, ad esempio il «governo mondiale del G20», che però si rivelano ben presto ulteriori rafforzamenti dei processi di finanziarizzazione. Per «spingersi più in là» la politica deve riconoscere la sua crisi e, come dire?, ripartire dal basso, dalle lotte, dalle forme di vita, dalle rivendicazioni sociali che nella e contro la crisi stanno maturando ovunque.

Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?

Non c'è dubbio che lo scenario Chimerica, in cui Cina e America si sostengono reciprocamente con politiche monetarie e di finanziamento del debito pubblico compatibili con lo squilibrio fondamentale venutosi ad instaurare negli ultimi anni (la Cina con un surplus di risparmio, l'America con una montagna di debiti), è uno scenario per così dire inevitabile. La domanda è quanto durerà. Ad esempio, quanto tempo ci vorrà prima che la Cina riesca a rilanciare in modo duraturo la domanda interna, non solo con programmi di investimento infrastrutturale giganteschi, ma anche con salari e spesa sociale all'altezza dei bisogni del popolo cinese?

È forse il caso di ricordare che oltre la metà delle corporations americane quotate a Wall Street realizzano profitti producendo direttamente in Cina, il che complica non poco la possibilità stessa di riequilibrare l'assetto economico globale attraverso il solo asse Cina-Stati Uniti. L'impressione è che la Cina sosterrà gli Stati Uniti, attraverso politiche di sostegno al dollaro e il finanziamento del debito pubblico americano, fino a quando sarà riuscita a espandersi solidamente nel Sud del mondo, in America Latina e in Africa. A questo punto, forse già tra cinque anni, l'asse globale non sarà più est-ovest, ma est-sud.

In questo scenario l'Europa è perdente, a meno che non riesca a sviluppare politiche di welfare incentrate sull'accesso alla conoscenza e lo sviluppo di tecnologie eco-sostenibili, politiche sociali di investimento realmente autonome rispetto al modello americano e a quello cinese.

L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?

La finanziarizzazione dell'economia, così come si è data in questi ultimi anni, comporta un mutamento delle modalità di monetarizzazione del circuito economico, nel senso che oggi è nella sfera direttamente finanziaria che la moneta viene creata e iniettata nel circuito economico sotto forma di rendite. Si tratta di una vera e propria privatizzazione della moneta assecondata dalla politica monetaria delle banche centrali. Questo comporta la possibilità di una ripresa dei mercati finanziari indipendentemente dalla ripresa dell'economia reale, il che spiega, tra l'altro, come i salari diretti e indiretti (rendite pensionistiche) possano continuare a rimanere bassi ancora per un lungo periodo di tempo.

D'altra parte, come osservava recentemente l'economista francese Michel Husson confrontando il rapporto tra tassi di crescita e occupazione del periodo tra il 1959 e il 1974 e quelli del periodo tra il 1993 e 2008, la capacità di un'economia di creare occupazione è ampiamente indipendente dalla sua crescita economica. Infatti, negli ultimi quindici anni dei Trenta gloriosi, l'aumento dell'occupazione è stato inferiore a quello degli ultimi quindici anni, e questo è avvenuto con un tasso di crescita del Pil tra il 1959 e il 1974 mediamente superiore a quello constatato tra il 1993 e il 2008. La qual cosa, nella situazione attuale in cui le prospettive occupazionali e di crescita sono molto negative, mette fuori gioco le politiche keynesiane secondo le quali un aumento dei salari, cioè della domanda, può di per sé trainare il rilancio occupazionale.

In altre parole, l'aumento della domanda, cioè del reddito, deve basarsi su un'aspirazione di giustizia sociale e di autonomia dalle dinamiche della ripresa economica. È in questo senso che vanno interpretate le rivendicazioni di un reddito garantito, o di una «rendita» agganciata ai bisogni sociali: domandiamoci quali sono gli impieghi di cui abbiamo bisogno per ridurre la sofferenza del lavoro, domandiamoci di quale reddito abbiamo bisogno per difendere i beni comuni, invece di privatizzarli per «creare occupazione».

Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?

Il prezzo può essere molto alto, e già lo stiamo pagando con l'aumento della disoccupazione e i tagli alla spesa sociale. È d'altronde sicuro che la pressione fiscale per far fronte ai deficit accumulati in questo periodo si farà sentire molto presto. Ma questo stesso prezzo possiamo farlo pagare al capitale finanziario, rovesciando i debiti privati in reddito sociale. È in gioco la nostra sopravvivenza come soggetti capaci di lottare, di creare forme autonome di vita. Nulla è deciso, tutto è possibile.

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